Lavorare meno, lavorare tutti

Le nuove tecnologie digitali distruggono posti di lavoro a un ritmo superiore di quanti ne creino. Pertanto per uscire dalla crisi economica è necessario recuperare il tema della riduzione dell’orario di lavoro e della costruzione di un'alternativa all'attuale sistema di produzione capitalistico.


Lavorare meno, lavorare tutti

 

Le nuove tecnologie digitali distruggono posti di lavoro a un ritmo superiore di quanti ne creino. Pertanto per uscire dalla crisi economica è necessario recuperare il tema della riduzione dell’orario di lavoro e della costruzione di un'alternativa all'attuale sistema di produzione capitalistico. Non è più sufficiente l'espansione della domanda, ma bisogna ripensare il rapporto tra il modo di produzione, la qualità dei prodotti e la finitezza delle risorse naturali.

C’è un tema troppo trascurato nell’ambito del dibattito pubblico e presente solo marginalmente all’interno delle varie piattaforme rivendicative, ma che assume una centralità da cui non si sfugge. Si tratta del grande tema della riduzione dell’orario di lavoro.
Oggi, per contrastare la drammatica caduta delle possibilità di lavoro, c’è bisogno di promuovere innanzitutto la redistribuzione del lavoro che c’è. Redistribuzione quindi del reddito (quanto mai necessaria in un paese dove il dieci percento della popolazione detiene la metà della ricchezza nazionale), ma anche dei tempi di lavoro (l’Italia è il paese in Europa dove si lavora di più e più a lungo).

Come ci ricordano i dati empirici, i progressi nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale stanno provocando una contrazione irreversibile e permanente dell’occupazione, tanto fra i lavoratori che svolgono mansioni esecutive, quanto fra i cosiddetti lavoratori della conoscenza. Un progresso tecnologico concentrato in larga parte sulle tecnologie informatiche che non riesce ad aprire la strada a nuove produzioni e a nuovi mestieri con la stessa velocità con cui espelle la manodopera resa superflua dai processi di automazione.

La rivoluzione industriale degli ultimi due secoli ha camminato sulla base di innovazioni radicali (che hanno letteralmente generato nuovi settori industriali) e sulla capacità di soddisfare nuovi bisogni. La rivoluzione delle tecnologie digitali sta forse cambiando le nostre vite in modo altrettanto radicale, ma i nuovi lavori che nascono dal mondo delle applicazioni sono meno di quanto sarebbe necessario. La produttività e lo sviluppo tecnologico ci consentirebbero, tuttavia, di lavorare molte meno ore al giorno, così assecondando l’antico motto “lavorare meno, lavorare tutti”.

Ma tutto questo entra in contrasto con le logiche del capitalismo che, invece, reagisce aumentando lo sfruttamento della forza lavoro residua e aggredendo salari e tutele. Come ci insegna Marx, le crisi sono un mezzo attraverso il quale vengono ripristinate le condizioni di accumulazione del capitale: “le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato”. Momenti nei quali profitto e accumulazione vengono ristabiliti per mezzo della distruzione di capitale e di forze produttive: aumento della disoccupazione e quindi abbassamento dei salari, fallimenti e quindi concentrazioni di imprese, ecc. Ecco, dunque, che rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro diventa un meccanismo in grado di inceppare i meccanismi di valorizzazione del capitale, che porta con sé la necessità di pensare alla cosiddetta alternativa di sistema.

Tra l’altro, se da un lato la tecnologia risparmia forza lavoro, dall’altro, i problemi della sostenibilità ambientale e di un capitalismo stagnante incapace di produrre nuove e grandi innovazioni, rendono sempre più difficile raggiungere la piena occupazione attraverso la sola espansione della domanda.
Il problema diventa, allora, come conciliare i progressi della tecnologia che garantiscono un’offerta quasi infinita (limitata solo dalla finitezza delle risorse), con la continua espulsione di lavoratori dalle produzioni esistenti e la conseguente diminuzione della domanda aggregata. Domanda che potrebbe essere alimentata solo tramite la creazione di nuovi lavori (soggetti anch’essi ai vincoli di riproducibilità delle risorse) o da una seria politica redistributiva e incentivando forme cooperative e partecipative. Emerge, insomma, la necessità di tornare seriamente a riflettere sulla prospettiva di un modello più giusto e razionale, quello socialista.

Un diverso modello di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale ed ecologico, che rimodelli le nostre vite, il modo in cui ci relazioniamo con gli altri e con l’ambiente che ci circonda. Che ripensi una crescita che non potrà che essere qualitativa, provando ad innovare con l’attenzione alla qualità di ciò che si produce, alla riproducibilità delle risorse e all’ambiente: tutti fattori che costituiscono, altrimenti, i limiti di uno sviluppo solo quantitativo.

Per tutto questo serve un governo democratico dell’economia che fornisca un chiaro e nuovo quadro di riferimento, assicuri cioè che “si lavora e si produce non più secondo la logica capitalista (la logica dell’accumulazione per l’accumulazione, della produzione fine a se stessa), ma si produce e si lavora per soddisfare i grandi bisogni dell’uomo, i grandi bisogni della collettività” (Enrico Berlinguer).  

 

13/12/2014 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Giulio Di Donato

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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