La svalorizzazione del lavoro e la subalternità dei salariati ai dettami del capitale

Da un recente rapporto Ugl Censis traiamo spunto per non cadere nella trappola padronale


La svalorizzazione del lavoro e la subalternità dei salariati ai dettami del capitale

Da dove nasce la svalorizzazione del lavoro? Potremmo parlare intanto della sua subordinazione al capitale nei rapporti di produzione o della perdita di ogni sua autonomia nella struttura e sovrastruttura della società; il discorso dovrebbe inoltre investire i processi di privatizzazione e la tendenza costante a ridurre il costo del lavoro affidandosi a contratti sfavorevoli, con una legislazione ormai modellata sui desiderata padronali e finalizzata alla cancellazione di tutele reali.

Altro ragionamento andrebbe fatto sui 40 anni merdosi del neo liberismo nei quali la cultura del lavoro, sia pure nella sua accomodante connotazione emersa in epoca keynesiana, è stata sconfitta e relegata in un contesto nel quale la rivendicazione salariale ed economica era considerata nemica dell'economia e del mercato.

Recuperare allora gli oggetti di uso quotidiani, un po' come fece in campo artistico Manzoni con la sua arcinota Merda d'artista, e rapportarli alla quotidianità dovrebbe rappresentare uno sforzo condiviso e non tanto per trasformare il salariato in fenomeno da baraccone buono per qualche analisi sociologica ma per restituirlo a quella centralità negata dal mercato e dal profitto.

Anche la memoria del recente passato potrebbe essere funzionale a questo scopo se la smettessimo di autocelebrare le lotte di un tempo per occultare l'incapacità odierna di attivare il conflitto nei luoghi di lavoro e nella società.

Abbiamo più volte parlato della crisi dei corpi intermedi ma innumerevoli riflessioni non hanno colto nel segno in quanto carenti dell'analisi dei cambiamenti intervenuti nel capitalismo e delle loro ripercussioni in ambito sociale e nella stessa composizione di classe.

Meglio di noi stanno facendo alcuni ricercatori che da tempo, soprattutto in Francia, si impegnano nell'analisi delle disuguaglianze, avendo colto il nesso tra la crescita delle disparità, l'accumulazione capitalistica e la sua crisi sistemica.

Ovviamente le nostre finalità dovrebbero essere ben diverse: recuperare una visione critica dell'esistente per trarre i dovuti insegnamenti necessari per la ripresa del conflitto.

Davanti alle crescenti disuguaglianze è forte la spinta alla sperimentazione di nuove modalità originali atte a coinvolgere la forza lavoro nel destino delle aziende. Lo si evince da un recente Rapporto Censis-Ugl “Tra nuove disuguaglianze e lavoro che cambia: quel che attende i lavoratori”.

I sindacati rappresentativi tendono a ricreare le condizioni di un diretto coinvolgimento della forza lavoro attraverso il welfare aziendale e gli enti bilaterali che suonano le campane a morto del conflitto di classe e destinano i salariali alla subalternità rispetto al capitale. E lo fanno mentre cancellano istituti nell'ottica di ridurre il potere contrattuale e\o di derogare al contratto collettivo nazionale per favorire la contrattazione di secondo livello.

Ma certe suggestioni "collaborazioniste" investono anche il mondo del precariato e dell'antagonismo, tanto che alcuni collettivi teatrali hanno proposto da tempo di includere i lavoratori nel CDA delle fondazioni e dei luoghi di cultura pensando che questa soluzione potrebbe non solo valorizzare il contributo della forza lavoro al mantenimento dei presidi culturali ma anche dare senso alla loro stessa attività. Ironia della sorte in molte realtà del mondo culturale è avvenuta una feroce precarizzazione del lavoro insieme a una sorta di tacita accettazione delle esternalizzazioni che ha portato il mondo cooperativo a gestire musei e biblioteche in appalto al pubblico con un dumping salariale crescente e contratti prevalentemente part time. Soluzioni vecchie che riportano alla pratica renana capitalista.

La presenza dei sindacati nei Cda non ha portato benefici alle condizioni dei salariati che si trovano invece subalterni, anche ideologicamente, ai dettami di impresa.

Dal Rapporto sopra menzionato emergono spunti interessanti per l'immediato futuro. La perdita del potere di acquisto è frutto della sconfitta dei diritti sociali, le retribuzioni calano come del resto le tutele collettive, il mercato del lavoro è dominato da part time e precarietà delle quali sono vittime i giovani, le donne, i migranti e i lavoratori meno qualificati.

Dovremmo riservare la massima attenzione possibile alle nuove tecnologie. Ad esempio lo smart working e il digitale non sono espressione di un lavoro liberato e più vicino ai bisogni reali. Lo smart ha rappresentato anche l'opportunità per cancellare alcune tutele e istituti contrattuali, soprattutto nella Pubblica amministrazione, oltre a essere motivo di denigrazione della forza lavoro pubblica.

Leggiamo testualmente dalla presentazione del rapporto:

Per il 93,3% degli occupati serve più attenzione per le condizioni dei lavoratori, mentre per il 64,9% dei giovani il lavoro è solo un mezzo per avere reddito da spendere in attività diverse. Per il 64,3% dei lavoratori (68,8% tra operai ed esecutivi) la propria retribuzione non è adeguata al costo della vita. Del resto, nel 2010-2020 le retribuzioni lorde dei lavoratori italiani sono diminuite dell’8,3% reale e peggio dell’Italia hanno fatto solo Grecia (-16,1% reale) e Spagna (-,6% reale).

I giovani fino a 29 anni guadagnano il 40% in meno dei lavoratori over 55, mentre le donne il 37% in meno dei maschi e chi ha un contratto a tempo determinato il 32% in meno di chi è a tempo indeterminato. Chi lavora nel Mezzogiorno guadagna il 28% in meno di chi risiede nel Nord-Ovest. Il 10,4% dei lavoratori dipendenti, poi, è sottopagato, cioè può contare su una retribuzione mensile inferiore ai valori soglia di 953 euro per il full-time, di 533 euro per il part time. Negli anni c’è stato un boom del part time, che interessa il 19,8% dei lavoratori (era il 15,8% nel 2010). Sono in part time involontario, cioè non desiderato, il 74,2% degli uomini (era il 59,3% nel 2010) e il 61,1% delle donne (46,1% nel 2010). Lavora in remoto il 52% degli occupati. Nella web economy, con la crescita della delivery tra i consumatori, oltre 570mila persone tra il 2020 ed il 2021 hanno ottenuto reddito tramite piattaforme, ad esempio consegnando beni a domicilio. La formazione è considerata essenziale dai lavoratori per fronteggiare le disparità crescenti: il 67,8% degli occupati teme nuove e più ampie disuguaglianze a causa della diversità di competenze digitali. Inoltre, l’84% dei lavoratori vuole supporto su aspetti specifici del proprio lavoro, dalle competenze alle tecnologie utilizzate. Infine, il 65,9% richiede formazione per la sicurezza informatica.

Quanto abbiamo appena letto induce a riflessioni ulteriori. Per esempio quando si parla di sicurezza informatica dovremmo pensare subito ai sistemi di controllo esercitati sulla forza lavoro in deroga allo Statuto dei lavoratori, a quel coacervo di obblighi di fedeltà e codici di comportamento aziendali che in tempi pandemici sono stati utilizzati per sanzionare o licenziare la forza lavoro riluttante a subire condizioni di lavoro senza sicurezza e salvaguardia della salute.

Altro aspetto dirimente è la richiesta dei lavoratori di avere maggiore sicurezza sapendo che su questo punto si giocano equivoci assai pericolosi. Un esempio per tutti: la sicurezza è resa tale da un lavoro stabile e non precario, da retribuzioni dignitose, dal possesso del potere d'acquisto e di potere contrattuale che rimanda a una dimensione collettiva e non individuale.

Veniamo alla richiesta di formazione: nella pubblica amministrazione i fondi a tal fine sono stati ridotti del 40% in soli 12 anni stando ad un rapporto dell'Aran. Dovrebbe essere una rivendicazione sindacale valida erga omnes e non solo per le figure apicali e mai in termini funzionali alla crescita dei profitti e della produttività, senza per altro corrispondere un euro in busta paga.

Le disuguaglianze crescenti penalizzano soprattutto le giovani generazioni. La soluzione del problema non sarà certo rappresentata dalla interazione tra scuola e lavoro o men che mai dai salari di ingresso che penalizzano i neo assunti cui viene corrisposta una paga più bassa. E qui subentrano i conflitti generazionali alimentati ad arte per avere una forza lavoro giovane e a basso costo, raccontando la novella che il mercato del lavoro avrebbe eccessive tutele penalizzando così coloro che un domani potranno trovare una occupazione.

Tale conflitto è stato sapientemente orchestrato con la riforma previdenziale. Il sistema contributivo, che ha soppiantato gradualmente quello retributivo, sancisce la perdita economica soprattutto per chi è entrato tardivamente nel mondo del lavoro e che alle soglie dei 70 anni avrà pochi contributi e un futuro assegno pensionistico irrisorio.

Avere cancellato il sistema retributivo non è stata una conquista. Un discorso analogo vale per la soppressione della scala mobile che difendeva decentemente i salari dall'inflazione, sostituita da meccanismi tardivi e inadeguati.

I rapporti come quello sopra menzionato fotografano abbastanza precisamente il mondo del lavoro. Solo che se ne può fare un uso discutibile. Per esempio il presidente del Censis, De Rita, ha dichiarato a proposito: “Credo ci sia troppo opinionismo generico sul lavoro e il suo futuro, e invece una riflessione adeguata ha bisogno della serietà e del rigore di ricerche come questa. Il lavoro sta cambiando velocemente, tra smart working e nuove modalità di erogazione, ma solo nel medio lungo periodo si capirà cosa resterà, perché funziona ed è realmente apprezzato da lavoratori e aziende. Tecnologie, relazioni, aspettative soggettive stanno disegnando il lavoro del futuro, imposizioni dall’alto, per editto sono ininfluenti o, peggio, dannose”. Pare di capire, quindi, che non si esprima alcuna avversione alla deregulation e si mostri apertura nei confronti di ricette e presunte soluzioni che vanno nella direzione opposta alla valorizzazione del lavoro stesso e alla salvaguardia dei salariati, finendio con l'imporre soluzioni come il welfare aziendale. L'esperienza di simili approcci dimostra che essi distruggono lo stato sociale condannandoci ad una precarietà ancor maggiore di quella fino ad oggi sperimentata sulla nostra pelle.

06/05/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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