I rinnovi dei contratti nazionali non siano merce di scambio

Negli ultimi decenni i salari, le pensioni e il potere contrattuale sono crollati. Il rinnovo dei contratti non può essere la contropartita dell’intensificazione dello sfruttamento. L’aumento dei salari deve accompagnarsi alla crescita degli organici e all’aumento delle spese per i settori pubblici.


I rinnovi dei contratti nazionali non siano merce di scambio

Mentre il tavolo governo-sindacati non prende alcuna decisione in merito alla proroga del blocco dei licenziamenti collettivi, il premier Conte licenzia il Dpcm con provvedimenti di chiusura serale di esercizi commerciali e ristoranti. Provvedimenti tardivi e con gli ammortizzatori sociali agli sgoccioli.

I rinnovi contrattuali non sono merce di scambio con la proroga del divieto di licenziamenti collettivi, come proposto da qualche sindacato complice; non rappresentano un costo barattabile con la perdita di tutele collettive. Sono invece la risposta necessaria alla caduta del potere di acquisto di salari pubblici e privati già falcidiati da anni di blocchi, dai grandi ritardi nel loro rinnovo in presenza di sistemi di calcolo così iniqui da non produrre alcun effetto benefico su buste paga sempre più risicate.

Ma i licenziamenti collettivi, per quanto vietati fino al 31 Dicembre 2020, sono già oggi più convenienti per le imprese. Con l’abolizione del contributo per mobilità dello 0,30%, pari a 72 euro a lavoratore e la sostituzione del contributo di ingresso con il ticket di licenziamento, le imprese hanno minori oneri da sostenere che ammontano a decine di migliaia di euro. In presenza di un accordo sindacale e nel caso di un lavoratore con un’anzianità di sole 12 mensilità, si ha un risparmio di 3.086 euro, pari a circa l’87% del costo antecedente questa innovazione, secondo le simulazioni effettuate dal centro studi Uil. Lo stesso centro ha calcolato che in assenza di accordo sindacale il beneficio si ridurrebbe al 79%, ma con un risparmio maggiore in valore assoluto (5.610 euro a lavoratore). Sempre per la Uil la riduzione dell’impegno finanziario chiesto alle imprese potrebbe oscillare tra il 38% (-2.670 euro nel caso del lavoratore con oltre tre anni di anzianità nell’impresa, con retribuzione media e senza accordo sindacale) e l’87% nel caso precedentemente esaminato. Una riduzione comunque rilevantissima; ma di questo, e di molto altro, non si parla.

Il senso di colpa per la crisi economica ha già prodotto danni nefasti alla classe lavoratrice. Basti ricordare agli anni dell’Eur e del compromesso storico: la debacle sindacale e politica permise non solo la sconfitta alla Fiat di quarant’anni fa ma la cancellazione della scala mobile e, negli anni successivi fino al Jobs Act di Renzi, l’innalzamento dell’età pensionabile e la cancellazione del vecchio articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori.

La perdita di ogni cultura operaia basata sul conflitto e sulla rivendicazione di classe ci porta direttamente agli scenari degli ultimi anni. L’avvento dell’Euro ha accelerato il processo di annientamento delle conquiste dei lavoratori realizzate nei trent’anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale.

Il rinnovo contrattuale oggi non può essere visto come una sorta di privilegio o di insostenibile concessione a fronte della crisi pandemica.

Nel Marzo 2019 un articolo pubblicato sul quotidiano “La Repubblica”, a proposito di crollo del potere di acquisto, scriveva: “i salari hanno perso mille euro di potere d’acquisto negli ultimi sette anni. ... Risultato: in Italia nell’intero periodo c’è stata una sostanziale ‘stazionarietà’ dei salari, mentre dal 2010 al 2017 si è verificata una perdita di 1.059 euro, circa il 3,5 per cento”.

Ma negli stessi anni i profitti aumentavano. Un fiume di denaro è stato indirizzato alle imprese cui sono state concesse inoltre leggi in materia di lavoro che hanno favorito solo il loro strapotere. E sempre negli ultimi venti anni il potere contrattuale dei lavoratori nei privato e nel pubblico è stato così ridimensionato che innumerevoli materie non risultano più nel novero di quelle oggetto di contrattazione.

Il rinnovo dei contratti è dunque una mera necessità. Senza far ripartire la domanda e il potere di acquisto dei salari (ma anche delle pensioni che da anni non sono più agganciate al costo reale della vita) l’economia non ripartirà. Non sono le politiche di austerità l’ancora di salvezza del paese; non lo saranno neppure le ricette classiche neokeynesiane ancorate a una fase del capitalismo ben diversa da quella attuale. La perdita di potere di acquisto e di contrattazione è stata funzionale al contenimento della tendenziale caduta del saggio di profitto insieme all’aumento del plusvalore prodotto, quindi dello sfruttamento.

Ma torniamo ai contratti: i soldi fino a oggi preventivati per i rinnovi di numerosi contratti, pubblici e privati, non consentono alcun recupero del potere di acquisto. Il rischio è sempre lo stesso: perdita del salario, dei diritti e delle tutele collettive. Per le associazioni datoriali il rinnovo dei contratti è fuori discussione e per il governo si può discutere di rinnovi nella Pubblica Amministrazione (Pa) a solo a precise condizioni.

Nei quasi dieci anni di blocco della contrattazione pubblica i lavoratori e le lavoratrici della Pa hanno perso migliaia di euro, oggi si chiedono loro gli ennesimi sacrifici, mentre il Governo si prepara a processi di ristrutturazione che modificheranno in peggio le condizioni di vita e di lavoro. Ancora una volta la forza lavoro della Pa diventa la vittima sacrificale dei processi di contenimento del debito; ma è altrettanto vero che un eventuale, e probabile, rinnovo potrebbe avvenire con il depotenziamento della contrattazione collettiva e la cancellazione di numerosi istituti ritenuti troppo onerosi.

Ancora oggi le assunzioni nella Pa, e quindi negli ospedali, risultano vincolate ai criteri di sostenibilità finanziaria. In questi mesi le assunzioni sono state poche o comunque del tutto insufficienti a fronte di una contrazione degli organici. Il turnover è da decenni un miraggio.

In soli dieci anni, tra il 2008 e il 2017, il numero degli istituti di cura è diminuito di oltre 200 unità. Il trend di decrescita è iniziato anche prima del 2007, in anni antecedenti alla crisi economica e alle politiche di austerità. La riduzione degli ospedali, dei posti letto e degli organici nel comparto è iniziata a fine secolo scorso, proseguendo incessantemente con i governi di qualunque colorazione via via succedutisi. L’inadeguatezza del sistema sanitario pubblico è il risultato di decenni di politiche atte a contenere i costi della spesa sanitaria. Non domandiamoci quindi la ragione per la quale non abbiamo servizi pubblici efficienti e organici adeguati in quanto la risposta sta in questi tagli.

Sempre nella Pa abbiamo la forza lavoro di anzianità media più elevata di tutta l’Europa: ci sono circa 500.000 lavoratori in uscita tra quota 100 e pensionamenti dovuti al raggiungimento dell’età prevista; migliaia di precari e precarie attendono la stabilizzazione, per la quale servono normative chiare e la rimozione dei tetti di spesa ancora vigenti. E il governo intanto prosegue con l’idea della mobilità di personale (la coperta è sempre corta ovunque la si voglia tirare) piuttosto che procedere con la proroga della validità delle graduatorie concorsuali dalle quali attingere per aumentare gli organici.

È bene allora prendere posizione senza giochi di parole: il rinnovo dei contratti non può avere come merce di scambio l’aumento dei carichi di lavoro e delle mansioni cosiddette esigibili attraverso lo stravolgimento dei profili professionali e degli istituti contrattuali vigenti. L’aumento dei salari o andrà di pari passo con la crescita degli organici e l’aumento delle spese per i settori pubblici o andremo poco lontano.

Non si può barattare altresì la sanità pubblica con quella privata, pochi euro non sono scambiabili con la sostanziale perdita del potere di acquisto e di contrattazione o con modalità lavorative concepite solo per accrescere lo sfruttamento della forza lavoro senza tutele reali. Senza contare la pessima prova di sé che ha dato l’estesa privatizzazione dei servizi sanitari nel corso dell’emergenza pandemica. 

30/10/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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