Giovani fra precarietà e bassi salari

L’Inps certifica eccessive sperequazioni salariali ai danni dei giovani lavoratori. La causa è riconducibile principalmente alla precarizzazione del lavoro.


Giovani fra precarietà e bassi salari

“Retribuzione giornaliera più bassa di 44 euro.... Gli under 30 lavorano meno: 183 giorni pro capite contro 245”. È l’impietosa fotografia di Michela Finzio sul “Sole 24 Ore” del 3 agosto a commento dei dati annuali Inps. Siamo dentro una sperequazione fuori controllo tra i salari dei giovani e degli over 50.

Le disuguaglianze non sono determinate dai contratti nazionali che penalizzano tutti/e indistintamente. In 25 anni i salari italiani sono stati in perenne decrescita al contrario degli altri paesi europei. Né dipendono dai troppi favori accordati nel passato alla forza lavoro avanti negli anni. Chi lo asserisce dimentica che la precarietà, costruita ad arte, prevedeva molteplici tipologie contrattuali particolarmente sfavorevoli per le giovani generazioni (salario di ingresso, apprendistato e ricorso al tempo determinato oltre al solito interinale).

Vediamo un po meglio i dati dell’Inps che ci pare supportino la nostra tesi. La retribuzione giornaliera media per un dipendente a tempo pieno e con contratto a tempo indeterminato è di 124 euro, che scende a 94 euro se il contratto è a tempo determinato. Se il lavoratore ha un contratto di somministrazione ne guadagna 82 e 71 se è apprendista. Per i lavoratori part time le cose vanno anche peggio fino ad arrivare a 45 euro per un apprendista. Le donne, ovviamente, stanno ancora più in basso. 

È evidente che i contratti precari sono maggiormente applicati alla nuova forza-lavoro, mentre fra i lavoratori più anziani che sono da anni in organico è molto più frequente il contratto stabile. Quindi le ovvie maturazioni di benefici salariali in relazione ai progressi di carriera e di professionalità incidono molto meno sul differenziale. Le cause nettamente prevalenti sono legate alla precarietà diffusa che colpisce con particolare ferocia giovani e donne. L’antidoto pertanto non potrà essere quello classico invocato dal neoliberismo, ossia la riduzione dei salari per i più anziani, il blocco degli scatti di carriera o la loro limitazione ai minimi termini. 

È bene ricordare i famigerati accordi siglati in molte aziende che spingevano i lavoratori a fine carriera alla pensione con qualche anno di anticipo in cambio della assunzione di figli e familiari a condizioni contrattuali e salariali al ribasso. Quale altro fattore stimolante di tali accordi per il datore (prenditore in realtà) di lavoro se non quello di sostituire dipendenti aventi qualche diritto con forza-lavoro in condizioni pseudo schiaviste e a basso costo? Allo stesso tempo non dimentichiamo che i bassi salari attuali e i vuoti contributivi determineranno una pensione da miseria per quei giovani oggi penalizzati dalla precarietà diffusa.

Se le giornate retribuite di un giovane nel 2021 siano state il 26% in meno di quelle di un dipendente anziano la responsabilità è forse del Decreto dignità, come tanti imprenditori sostengono, oppure del sistematico ricorso a contratti a tempo senza alcun obbligo per l’assunzione stabile? Le continue revisioni del decreto dignità hanno nei fatti facilitato il ricorso al tempo determinato che ora scopriamo essere la causa principale del divario salariale che penalizza le giovani generazioni.

La complessiva perdita salariale che si accompagna all’aumento delle sperequazioni, a detta del rapporto Inps, “è quindi possibile che non sia tanto attribuibile alla componente forte del mercato, quanto piuttosto alla parcellizzazione della prestazione lavorativa, anche per effetto della eccessiva flessibilizzazione introdotta dalle riforme sul mercato del lavoro”. Chiaro?

Dal governo Renzi a oggi sono proprio precarietà e debolezza contrattuale ad avere alimentato il divario salariale riducendo al contempo potere di acquisto e di contrattazione indistintamente per l’intera forza lavoro.

L’obiettivo delle associazioni datoriali non è nuovo: fermare ogni scatto automatico di anzianità per compensare in maniera discrezionale esigue minoranze in relazione all’incremento dei carichi di lavoro, alle responsabilità aggiuntive assunte senza alcun aumento stipendiale o al passaggio di livello. È questo il fine dei padroni. Da qui il loro interesse, inusuale, verso le disuguaglianze.

La questione generazionale potrebbe diventare il classico cavallo di Troia per le classi lavoratrici, indebolendo il potere di acquisto e di contrattazione, già ai minimi termini, e assestando l’ulteriore colpo al sindacato che su questi temi mostra da sempre posizioni ondivaghe e sovente supine ai dettami padronali, come dimostrano le tante, troppe, deroghe accordate rispetto ai contratti nazionali che da anni risultano peggiorativi di quelli aziendali, conquistati con gli scioperi e le lotte.

Un altro cavallo di Troia è rappresentato dagli sgravi contributivi a carico delle imprese che scaricheranno i loro costi sulla fiscalità generale accrescendo al contempo i profitti e i dividendi tra gli azionisti. Non a caso, prima della crisi di governo, Enrico Letta, ormai chiaramente portavoce del grande padronato, aveva annunciato un “taglio shock” al cuneo fiscale.

06/08/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Federico Giusti

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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