Dal giornale della Confindustria, ai centri studi mainstream e alle agenzie internazionali giunge un messaggio preoccupato per l’emergenza economica che, a loro dire, sarà conseguenza di quella sanitaria: la prossima crisi economica sarà da pandemia di COVID-19! Così anche questa volta, come avvenne con i mutui subprime, abbiano trovato il colpevole della crisi profonda da cui il capitalismo mondiale non riesce a tirare fuori le gambe.
Viene tenuto in ombra che i fondamentali dell’economia erano già pessimi anche senza virus. In Italia le cose stanno andando molto peggio che nel resto dell’Europa. Per esempio i lavoratori in cassa integrazione nel 2019 erano aumentati del 79% rispetto all’anno precedente. Le previsioni dell’Istat per il 2019 indicavano una crescita del Pil di un misero 0,2% e, ottimisticamente, dello 0,6% per quest’anno, avvertendo però che le cose sarebbero potute andare peggio. E stavano andando in effetti peggio anche a causa della guerra commerciale in atto. Ma la previsione più importante dell’Istat è la “decelerazione”, più accentuata nel 2020, del ritmo degli investimenti, che poi sono il traino dell’economia e il cui andamento negativo anticipa regolarmente le crisi.
A fronte di un’economia reale in stasi dal 2011, ove si escludano le performance della Cina e di altri paesi emergenti, e che anzi aveva manifestato negli ultimi mesi del 2019 chiari segnali di una nuova recessione in arrivo, dal 2008 le quotazioni di borsa si sono gonfiate a dismisura producendo una nuova gigantesca bolla finanziaria. Le crisi si manifestano quasi sempre nella forma dello scoppio di una bolla. Lo sciocco o l’economista in malafede vede solo lo spillo che la fa scoppiare, non la bolla stessa. E questa volta lo spillo è servito su un vassoio d’argento da un minuscolo, insidioso virus. Così, per esempio, si può smettere di parlare dei motivi e delle ripercussioni della guerra dei dazi che Trump ha dichiarato ai concorrenti nei mercati internazionali, o del fallimento delle ricette economiche praticate dagli anni 80 in poi.
L’impatto di una pandemia diffusa era già stato calcolato in anticipo nel 2019 da Victoria Fan e altri nella misura dello 0,6% del Pil mondiale, pari a 500 miliardi di dollari all’anno e circa il triplo dei danni causati dai mutamenti climatici. La Banca Mondiale e l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono state ancora più pessimiste: uno shock intorno ai 3 mila miliardi di dollari. Più modesta Confcommercio che parla di uno 0,3-0,4/%. Goldman Sachs ha stimato che l'economia americana si contrarrà del 5% nel secondo trimestre 2020. Christine Lagarde ipotizza per l’Eurozona una diminuzione della crescita del Pil dello 0,3% in confronto alla pur minuscola previsione a.v. (avanti virus) del 1,1.
Veniamo all’Unctad (United Conference on Trade and Development, agenzia dell’Onu). Ai primi di marzo stima i danni dell’epidemia cinese. La produzione manifatturiera è scesa di quasi il 46%. Questo contraccolpo si riverserà sui paesi che esportano materie prime verso la Cina, oltre che sui fornitori di beni di consumo e sul turismo. Inoltre molte attività occidentali subiranno contraccolpi in una misura che dipenderà dal loro grado di dipendenza dall’interscambio con la Cina. L’Unione Europea, con 15.597 miliardi di dollari sarà il danneggiato numero uno, seguita a distanza dagli Usa (5.779), dal Giappone (5.187) e dalla Corea del Nord (3.816). Complessivamente, la diffusione dell’epidemia cinese farà perdere 2 mila miliardi di dollari e la crescita annuale diminuirà del 2,5%, cioè saremo ai limiti della recessione. Ammesso che la “perdita di fiducia” e alcune insolvenze non inneschino un crack ben più grave.
La faccenda si metterà malissimo per l’economia italiana già con l’encefalogramma piatto. Il Sole 24 Ore, riportando alcune stime di Confcommercio, Banca d’Italia, Prometeia, Moody’s ecc, riferisce le possibili ripercussioni della malattia sull’economia domestica che “minaccia i ritmi di crescita già fiacchi”. Se il blocco si protrarrà fino a maggio, la perdita sarà dai 5 ai 7 miliardi di euro, la riduzione del pil dello 0,2-0,3%. Il settore del turismo ha già subito danni ingenti con disdette che variano dal 40 al 90%, che, secondo “una stima prudenziale”, fanno 5 miliardi. 4,4 milioni hanno perso i cinema in un solo week end di emergenza nazionale. Il settore auto avrà un calo del 2,5%, dovuto però anche alle nuove norme sulle emissioni. Anche le esportazioni diminuiranno, perché molte delle provincie del Nord più colpite sono forti esportatrici. E poi vengono le fiere, il “food & wine”, la moda, con tante cifre snocciolate che evitiamo di riportare.
Completiamo la panoramica con l’Ansa che, oltre a riportare alcuni dei dati visti prima, guarda alla borsa, con l’indice Euro stoxx 600 in calo del 3,75%, cioè, dice, “328 miliardi andati in fumo”, senza accennare che quello che realmente è sparito è una parte dell’enorme bolla finanziaria che si era prodotta e senza dirci che magari ci sarà anche chi ci ha guadagnato scommettendo sui ribassi.
Mi guarderei bene dal contestare tutte queste stime, sia perché non ho gli strumenti per farlo, sia perché la prospettiva di settimane e settimane di stop di molti lavori e il dirottamento di molte risorse per affrontare l’emergenza avranno indubbiamente un serio impatto sulla situazione economica. Quello che invece nessuno dice è che questo virus viene a colpire un corpo, quello del capitalismo globalizzato, già malato e privo dei necessari anticorpi. Un corpo in cui - nonostante l’intensificazione enorme dello sfruttamento del lavoro e dell'ambiente, fino alla messa in crisi dell’ecosistema - i ritmi di accumulazione decelerano.
E anche le capacità di risposta all’emergenza si sono dimostrate del tutto inadeguate. Lo si è visto nel cedimento del servizio sanitario in Lombardia, nonostante il generoso prodigarsi degli addetti, a causa dei tagli alla spesa sanitaria, delle privatizzazioni e della regionalizzazione, che peggiorerebbe con l’autonomia differenziata; e con l’estendersi dell’epidemia la cosa si sta ripetendo in altre regioni, da cui provengono testimonianze drammatiche. Altro esempio è l’insufficiente dotazione di dispositivi per la prevenzione (maschere ed altro), di cui scioccamente era stata cessata la produzione, contando nel mercato globalizzato, e che oggi si trovano solo a prezzi stratosferici oppure sono stati requisiti dai rispettivi governi.
Lo sforzo e i costi che siamo chiamati a sostenere per far fronte all’emergenza, sarà fatto pagare ai soliti noti, ai lavoratori, ai pensionati, ai servizi pubblici, se non facciamo tesoro degli insegnamenti di questa crisi per pretendere un netto cambio di direzione. L’epidemia infatti mette allo scoperto una serie di fragilità delle nostre società.
Un elemento è l’urbanizzazione esasperata che ammassa milioni di persone in pochi centri congestionati, in cui nonostante tutte le restrizioni possibili il virus può circolare tranquillamente. Inoltre le condizioni ambientali di questi territori congestionati, lo smog ecc. è causa di patologie respiratorie e di altro genere. Sappiamo che i soggetti portatori di queste patologie hanno meno speranza di sopravvivere al virus.
Un altro elemento è la mondializzazione del mercato che comporta la circolazione abnorme, e veloce il più possibile, di merci e persone da un paese all’altro. Il che ha favorito la diffusione rapida della pandemia.
Un altro ancora è l’emarginazione delle popolazioni autoctone delle aree neocoloniali, espulse verso territori esclusi da ogni presidio e a contatto con specie animali selvatiche che possono favorire il cosiddetto salto di specie, verificatosi in occasione di altre recenti epidemie e da qualcuno indicato come causa di questa.
Non va dimenticato inoltre che anche la scienza è subordinata al profitto e fuori dal controllo democratico. L’altra ipotesi, tutta da verificare ma che non può essere esclusa a priori, della produzione di questi virus in laboratorio, per scopi pacifici o meno, sarebbe da rigettare se determinate ricerche e manipolazioni avvenissero alla luce del sole e non nella segretezza, come è allo stato attuale.
A livello globale abbiamo investito poco per decenni nella ricerca sulla prevenzione delle malattie infettive, perché i profitti si fanno se la gente si ammala. Molto più redditizie per gli azionisti sono le ricerche e la produzione di farmaci contro patologie o pseudo patologie dei ricchi. In particolare non fanno business ed anzi sono controproducenti gli investimenti nella sanità pubblica e nella prevenzione. Ecco i tipi di vulnerabilità delle società il cui movente unico è il profitto.
Con molta probabilità la cosa sarà ancora più evidente negli Usa, dove, nonostante il notevole vantaggio di tempo goduto (sono trascorse molte settimane dall’inizio dell’epidemia in Cina e nel frattempo si potevano prendere delle misure), il sistema sanitario completamente privatizzato e l’individualismo esasperato potrebbero condurre a una strage di poveri che non possono permettersi l’assicurazione privata. Se da noi, in carenza di strutture, è stata ipotizzata la selezione dei curabili sulla base dell’età, ove vige l’American lifestyle sarà la ricchezza il criterio oggettivo di selezione.
In questi giorni stiamo assistendo a un tripudio di inni nazionali, filmati retorici sulla grandezza della nostra patria che resiste, frasi sull’eccellenza della nostra sanità. Tutti stratagemmi per nascondere la realtà fatta di tagli al sistema sanitario pubblico, di favori a quello privato, di speculazioni sulla realizzazione di nuovi ospedali. Il pericolo che di questa crisi, con espedienti subdoli e di facile attecchimento, possano avvalersi le forze più retrive è evidente. Dobbiamo lavorare invece perché prevalga la capacità di riflettere sui guasti delle politiche liberiste e del capitalismo tout court. Il monito di madre natura ci obbliga a costruire prospettive della nostra società in termini più saggi e solidaristici.
Ma sulle risposte che sono in campo per affrontare di petto l’emergenza e sulle prospettive ci occuperemo nel prossimo articolo.
Segue sul prossimo numero in uscita sabato 28 marzo 2020