Lavoro a Cottimo

Stanno ritornando, infiocchettate come fossero figlie del progresso, le vecchie modalità di sfruttamento. Esaminiamole insieme.


Lavoro a Cottimo Credits: https://www.gazzettadellemilia.it/

In regime capitalistico la tempistica della giornata di lavoro si divide in due parti: quella in cui si produce il salario, chiamata lavoro necessario e quella che serve a produrre il plusvalore chiamata pluslavoro. Per capire meglio questa distinzione prendiamo il caso di una grande azienda italiana come Eni che nel 2018 ha registrato un plusvalore pari a 4.24 miliardi di euro  [1] e dichiara di avere alle proprie dipendenze 31 mila persone con una spesa complessiva in salari pari a 2.4 miliardi. Da questi numeri possiamo facilmente ricavare il plusvalore per persona al giorno, cioè il plusvalore che ogni giorno produce mediamente un dipendente ENI e che è quindi pari a circa 450 euro [2]. Al contempo possiamo ricavare anche il salario medio giornaliero per persona pari a circa 250 euro [3]. In tal modo vediamo che il rapporto tra plusvalore medio giornaliero e salario medio è pari al 180%, vale a dire che il plusvalore e quasi il doppio del salario. Rapportando in termini di tempo di lavoro, supponendo una giornata media di 8 ore, scopriamo dunque che il dipendente Eni in meno di 3 ore (2.8 ore) ha valorizzato già il suo stipendio e le restanti 5 ore e più (5.2 ore precisamente) lavora esclusivamente per produrre il plusvalore dell’azienda.

Un grafico può chiarificare le cose:


Figura 1: Giornata lavorativa suddivisa in lavoro necessario e pluslavoro

La giornata di lavoro di 8 ore è rappresentata dall’intera barra orizzontale dove la parte in verde rappresenta la durata del lavoro necessario e quella in rosso le restanti ore di lavoro che vanno a costituire il pluslavoro. La soglia di demarcazione indicata con la lettera β rappresenta il “confine economico di classe”, ossia il limite di ciò che, sul prodotto finito, è di proprietà della classe dei lavoratori, ottenuta per mezzo del salario, e ciò che è invece di proprietà dell’azienda. L’azienda, infatti, dopo la trasformazione della merce in denaro, ne accumulerà una parte (quella relativa al plusvalore) e una parte molto minore la darà al dipendente sotto forma di salario. Nell’immagine vediamo, grazie all’uso dei colori, la ripartizione tra la quota salari da un lato e la quota profitti dall’altro. In regime capitalistico, la media di tutti i salari si concentra sempre intorno al salario minimonecessario affinché la classe dei subalterni possa sopravvivere e riprodursi. Se in alcuni paesi del mondo o in alcuni rami di produzione i salari sono mediamente più alti del minimo è solo perché in altri rami o in altre zone del mondo essi sono sotto la soglia di sopravvivenza. Questo è alla base delle famose sorti progressive di alcuni paesi del nord Europa: se i lavoratori di quei paesi godono di un avanzato sistema di welfare sociale ciò è possibile in quanto in altri paesi del mondo vi è una consistente fetta della popolazione che vive sotto la soglia di sopravvivenza, ad esempio i lavoratori delle miniere in alcuni stati africani. Tale problematica della distribuzione del reddito è certamente un riflesso dei sottostanti rapporti di proprietà ma è anche una condizione che determina lo sviluppo delle coscienze, dei costumi e in ultima istanza della possibilità stessa dei subalterni di intervenire sulle ragione strutturali alla base della loro condizione di subalternità.

Il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario è anche chiamato saggio di sfruttamento: più questo rapporto è grande (ossia più la parte in rosso è relativamente grande rispetto a quella in verde, cioè, ancora, più la soglia β è spostata verso sinistra) tanto più il lavoratore viene sfruttato. Al contrario più la soglia β è spostata verso destra e più basso risulterà il saggio di sfruttamento.


Nella Figura 2 è mostrata una condizione di sfruttamento minore rispetto a quella di Figura 3

Tutta la lotta economica (attenzione: non quella politica) che i subalterni combattono contro la borghesia consiste proprio nel ridurre il saggio di sfruttamento, ad esempio aumentando il salario a parità di ritmi e a parità di ore di lavoro, oppure riducendo le ore di lavoro a parità di salario e di ritmi. Quando, attraverso le lotte economiche si chiedono più tutele, più diritti, come l’allungamento della pausa pranzo o le ore di permesso per visita medica, per esami ecc. non si sta facendo altro che ridurre il saggio di sfruttamento. Stabilito il valore massimo del saggio di sfruttamento, e quindi la soglia β, dalle condizioni tecniche e di organizzazione della produzione nel determinato ramo produttivo, tale valore può diminuire solo grazie alla lotta di classe.

Quindi il saggio di sfruttamento è una variabile che raggiunge il suo massimo in corrispondenza del più alto grado di sviluppo delle forze produttive e del più basso valore di conflitto sociale. A parità di condizioni tecniche, all’aumentare del conflitto sociale tendenzialmente si abbassa il saggio di sfruttamento. La figura 4 è interessante da questo punto di vista perché rappresenta l’andamento della quota salari (ossia la parte in verde dei grafici precedenti) nel corso della seconda metà del ‘900. Come si può vedere, essa ha un picco massimo in corrispondenza delle fasi storiche in cui i lavoratori sono stati più combattivi. La modifica delle condizioni tecniche di produzione legata all’introduzione di nuove macchine più prestanti comporta sempre un aumento dei ritmi di lavoro, ma in ultima istanza ciò che stabilisce il livello di sfruttamento è la consapevolezza e la combattività dei ceti subalterni.

Tutto quanto descritto in precedenza rappresenta generalmente la dinamica del conflitto capitale-lavoro, dal punto di vista esclusivamente economico, nella modalità classica ossia quella che prevede un contratto di lavoro in cui è specificato il numero di ore di lavoro che il dipendente deve prestare al servizio dell’impresa.

La lotta economica sul tasso di sfruttamento rappresenta per l’impresa un costo: infatti, in moltissimi casi essa è stata o è costretta ad investire ingenti somme per corrompere i sindacalisti, istituire figure quali i controllori e i motivatori, e in alcuni casi servirsi di appositi servizi di spionaggio (come ben descritto dalla trilogia di Valerio Evangelisti sugli Stati Uniti d’America [4]), pur di costringere il dipendente a lavorare al massimo delle sue possibilità garantendosi cioè che il tasso di sfruttamento sia quanto più alto possibile, fino al limite stabilito dalle condizioni tecniche di produzione.

Nel quadro di questo rapporto contrattuale basato sul tempo di lavoro, ogni giusta pausa, ritardo, allentamento dei ritmi o sacrosanta lotta per avere dei ritmi di lavoro più umani si ripercuote negativamente sul saggio di sfruttamento e conseguentemente sul profitto.

Come ha fatto storicamente il padronato a divincolarsi da questa morsa, a neutralizzare i lavoratori garantendosi “automaticamente” il massimo saggio di sfruttamento senza dover investire nei controlli? Con il lavoro a cottimo. Oggi tale modalità viene ripresa all’interno dello sviluppo di nuove modalità di organizzazione della produzione che va sotto il nome di toyotismo.

Anche se oggi questa parola, cottimo, è sostituita da espressioni più vaghe tipo lavoro ad obiettivi o ancora più vaghe come lavoro agile o addirittura inglesismi mistificanti come smart working, il senso non cambia, dunque vediamo più nel dettaglio questa modalità di lavoro agile in cosa consiste.

Stabilite le condizioni tecniche di produzione e misurando la produttività sul lavoratore-modello, è possibile stabilire con una certa precisione quali sono gli “obiettivi” d’impresa raggiungibili dal singolo lavoratore in un determinato lasso di tempo. Di casi d’esempio ce ne sono tanti, tutta la gig-economy si basa su questo, i riders, i call center, etc… In questo modo è possibile stabilire un contratto di lavoro, a volte addirittura individuale, tra operaio e padrone non più basato unicamente sull’orario di lavoro (talvolta neanche il luogo di lavoro è necessario stabilire) ma direttamente incentrato sull’obiettivo da raggiungere, legandolo ovviamente al salario. Nel cottimo il raggiungimento dell’obiettivo è condizione necessaria al percepimento del salario, spesso si usa l’espressione salario variabile.

In questo quadro contrattuale possono verificarsi due soli scenari possibili: o il lavoratore raggiunge l’obiettivo nei tempi prestabiliti, assicurando quindi il massimo plusvalore, oppure non percepisce il salario.
In questo modo l’impresa si assicura sempre il massimo plusvalore possibile e può far a meno di investire in controllori e motivatori in quanto è il lavoratore stesso ad autocontrollarsi visto che la sua possibilità di vita è legata al raggiungimento degli obiettivi nei tempi prestabiliti che sono sempre i più ristretti possibili. La lotta economica si sposta in tal modo sulla misurazione degli obiettivi che però e appannaggio completo del padronato, visto che la contrattazione è individuale e nella maggior parte dei casi o si accettano gli obiettivi proposti dall’azienda o non si viene assunti.

 

Note:

[1] Per appronfondimenti si veda Relazione Finanziaria Annuale 2018; Eni (wikipedia)
[2] È pari al plusvalore annuale diviso per i giorni lavorativi di un anno (288) e ulteriormente diviso per il numero di dipendenti.
[3]Salario complessivo diviso per il numero di dipendenti e per il numero di giornate lavorative in un anno
[4]Trilogia Americana: Antracite, One Big Union, Noi Saremo Tutto; Valerio Evangelisti

16/03/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://www.gazzettadellemilia.it/

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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