Su invito del collettivo politico de “La Città Futura”, scrissi per il numero del 22 gennaio scorso di questo giornale un articolo sul concetto di lavoro produttivo al fine di aprire un dibattito su questa categoria economica. L’articolo, nell’aderire alla definizione marxiana, precisava che la stessa, per quanto utile sia ai fini della conoscenza del punto di vista del capitale sia per mantenere fermo il principio che l’unica la fonte del plusvalore sia il lavoro non pagato, non fosse idonea a definire la classe che si contrappone al capitale, la quale deve includere anche lavoratori non addetti alla produzione diretta del plusvalore. A tale articolo si rinvia anche per il tentativo di collocare le varie tipologie di lavoratori (e non lavoratori) rispetto al conflitto di classe.
La discussione che ne è seguita, insieme a adesioni a questa impostazione, ha registrato anche due posizioni che se ne differenziano: una più restrittiva e una più inclusiva.
La restrittiva eccepisce sull’inclusione nella categoria del lavoro produttivo del lavoro intellettuale, e in generale quello dedito alle produzioni immateriali. Di tale posizione non è stato redatto un vero e proprio articolo ma solo degli apprezzabili materiali di discussione.
La posizione più inclusiva propende invece per comprendere fra i lavoratori produttivi anche quelli non direttamente addetti alla produzione del plusvalore ma che comunque sono necessari al capitale perché il plusvalore venga prodotto e realizzato. Di tale posizione è stato invece pubblicato un lavoro ad opera di Pasquale Vecchiarelli che, con notevole sforzo di approfondimento, presenta una riflessione aperta “per l’elaborazione di una nozione di lavoro produttivo fuori dallo schematismo”.
Mentre ringrazio tutti i partecipanti al dibattito per l’impegno profuso e l’arricchimento che ne è scaturito, con il presente articolo vorrei esporre considerazioni personali sulle due opposte “eresie” (fra virgolette perché non ci sono ortodossie, e neppure “schematismi” da difendere). Con ciò non ho la pretesa di chiudere la discussione e neppure di presentarne una sintesi.
Riguardo alla prima diversificazione non ho molto da aggiungere rispetto a quanto già in precedenza affermato. La produzione del plusvalore è un fatto economico e non attinente alla sostanza naturale dei prodotti. Dal punto di vista economico la cosiddetta produzione immateriale è di una materialità piena se viene effettuata sfruttando lavoratori subordinati al capitale e venduta sul mercato per valorizzare il capitale. Non ha alcuna rilevanza la caratteristica, fisica o meno, del valore d’uso in cui è incorporato il plusvalore ma l’esistenza o meno di un rapporto in cui il capitale si valorizza succhiando pluslavoro il quale effettivamente si “materializza” (in senso economico) in prodotti sia tangibili che immateriali.
Il carattere più complesso e articolato della seconda posizione richiede invece che mi ci soffermi con maggiore accuratezza, consapevole del rischio di sconfinare in una discussione sul sesso degli angeli, in quanto mi pare che non ci sia stata obiezione all’idea che tale distinzione sia inutilizzabile ai fini di analizzare la composizione di classe.
Vecchiarelli esordisce con una considerazione di metodo pienamente sottoscrivibile: le “singole funzioni soggettive del lavoro” devono essere “sviluppate e riorganizzate in un discorso organico” al fine di “comprendere fino in fondo il funzionamento sociale e universale del modo di produzione”. Su un concetto simile ritorna più avanti quando afferma che “un conto è assumere il punto di vista particolare del singolo capitale un altro conto è assumere il punto di vista dell’intero sistema di produzione capitalistico. Questi due elementi, particolare e generale, sono coesistenti e in relazione dialettica”.
Esaminando, oltre al più noto passaggio del primo libro del Capitale, i lavori inediti in cui Marx affronta la questione Pasquale sostiene che lo scopo “principale” dell’autore fosse di “purificare” il concetto di plusvalore da “confusioni, più o meno volute” dai borghesi, secondo cui “ogni lavoro” sarebbe produttivo e ciò allo scopo di “mascherare il rapporto di sfruttamento”. E difatti Marx, “partendo dalla definizione smithiana [...] prova a depurarla” asserendo che “è produttivo ogni lavoro che produce un plusvalore sia esso lavoro che si materializza in una merce “durevole” sia esso lavoro cognitivo. Fin qui sono pienamente in sintonia con il compagno.
Subito dopo egli aggiunge una considerazione. Partendo dalla presenza ancora consistente nel secolo XIX di artigiani e lavoratori autonomi che “scambiano il loro lavoro con reddito” e quindi non producono plusvalore, non “ingrossano nessun capitale”, Marx “insisterebbe” nella sua definizione “per distinguere questi lavori (improduttivi) [...] da quelli che prevedono un rapporto di sottomissione al capitale”.
Che anche questo aspetto sia stato preso in considerazione da Marx, è cosa per me pacifica. Ma ritengo che la finalità non si riduca a questo e nemmeno che sia la principale. Se così fosse, con la progressiva marginalizzazione del ruolo di tali lavoratori, questa nostra discussione finirebbe per avere scarsa rilevanza. Inoltre, accettando tale prospettiva riduttiva non si spiegherebbero le pagine di un Marx ancora più maturo di quando scrisse i manoscritti noti come Teorie sul plusvalore, a cui Vecchiarelli si rifà, il Marx dell’abbozzo del secondo libro del Capitale nel quale, per esempio, definisce come “faux frais”, pure spese a perdere, le spese e il lavoro dedicati alla circolazione del capitale, che quindi non sono produttivi di plusvalore; oppure le pagine del terzo libro in cui si evidenzia che solo il pluslavoro estratto dai capitalisti dei settori produttivi (industriale, agricolo e minerario) viene ripartito fra tutti capitalisti, andando ad alimentare, unica fonte, il capitale commerciale, quello finanziario, la rendita ecc.
Vecchiarelli, esaminando dal punto di vista del singolo capitalista, dal punto di vista di un settore e dal punto di vista del capitale complessivo, le varie tipologie di lavoro, desume, nella sostanza, che ogni lavoro salariato sia produttivo se direttamente o indirettamente serve a favorire la produzione e la realizzazione del plusvalore.
Gli esempi che riporta riguardano gli addetti alla circolazione del capitale, quelli al mantenimento in salute efficienza e capacità produttiva della forza-lavoro (sanità, istruzione ecc.), quelli addetti alla sorveglianza e alla repressione (p. es. forze di polizia) e quelli addetti alle funzioni pubbliche centrali. Tutti ovviamente svolgono un ruolo importante, direttamente o indirettamente, per la valorizzazione del capitale. Io stesso, nell’esame delle singole situazioni, ho evidenziato il loro ruolo in tale senso ed è corretto avere presente che il sistema è un tutto in cui molti cooperano alla produzione del plusvalore, chi direttamente e chi indirettamente, favorendo le condizione della valorizzazione. Ma mi domando se sia utile all’analisi non distinguere fra la produzione diretta di plusvalore e i servizi utili a favorire tale produzione. Il rischio è di precipitare in una notte in cui tutti i gatti sono grigi. Il mio “schematismo” deriva dalla necessità di interrogarsi sull’utilità di uscire dallo schema marxiano. Serve introdurre tale confusione (nel senso etimologico: fondere insieme)?
Nel testo marxiano preso a base da Vecchiarelli a un certo punto, nel contesto di una critica a Rossi, si legge: “Questo lavoro [delle autorità] che partecipa indirettamente alla produzione […], noi lo chiamiamo appunto lavoro improduttivo. Altrimenti dato che l’autorità non potrebbe assolutamente vivere senza il contadino, si dovrebbe dire che il contadino è un produttore indiretto di giustizia ecc.” [1]. Quell’“ecc.” Sottintende altre cose. Se si dice che il poliziotto, facendo rispettare la legge borghese e praticando la repressione dei lavoratori è un lavoratore produttivo perché favorisce la produzione di plusvalore, produce indirettamente plusvalore, allora si dovrebbe dire che anche lo statista, che elabora e attua politiche volte a svalorizzare il lavoro e a creare un ambiente favorevole alla produzione di plusvalore (infrastrutture, marketing territoriale, incentivi ecc.), è un lavoratore produttivo. Anche gli apparati ideologici che remano contro gli interessi dei lavoratori producono indirettamente plusvalore perché concorrono al contenimento del costo della forza-lavoro. Anche il prete che tiene tranquilli i lavoratori con le sue prediche e la promessa di un premio nella vita ultraterrena ed esorta alla pace sociale, proponendo la dottrina sociale della Chiesa e il corporativismo, produce indirettamente plusvalore. Ma visto che tutti questi lavoratori “produttivi" si riproducono attingendo al plusvalore fornito dal lavoratore direttamente produttivo, potrei altrettanto legittimamente dire che anche questo lavoratore produce indirettamente legalità borghese, politica borghese, ideologia borghese e salvezza delle anime. Il che contiene anche un barlume di verità, ma allora di cosa, e con quale utilità, stiamo discutendo dal momento che siamo d’accordo sull’idea che per definire la classe che si oppone al capitale non ci serve la distinzione fra lavoratore produttivo e improduttivo, ma occorre utilizzare altri criteri?
Naturalmente di un’espressione quale “lavoro produttivo” ognuno ha facoltà di darne una definizione, purché la cosa sia esplicitata. E anche il passo che segue pare alludere a una cosa diversa dal concetto marxiano di lavoro produttivo e addirittura di pluslavoro:
“Quando sul mercato, grazie allo sviluppo delle forze produttive, si presentano sistemi di lavoro più evoluti i medesimi lavori che continuano a essere svolti con metodi antiquati divengono generalmente improduttivi, (a meno di non pagare la forza lavoro o pagarla pochissimo) perché il loro plusvalore è irrealizzabile in quanto a parità di qualità la merce sarebbe troppo cara per essere vendibile. Oppure nelle fasi della maturità di un determinato ciclo produttivo, cioè quando la massa di lavoro vivo è giunta a lavorare a ritmi che oscillano intorno a quelli della macchina (il che diviene possibile per l’obsolescenza della macchina, obsolescenza dell’organizzazione o semplicemente per il fatto che l’operaio conosce la macchina al punto che riesce a superarla) allora si creano delle porosità nel ciclo produttivo che si traducono in “improduttività relativa” dovuta a bassa intensità, ciò impone al fabbricante dei licenziamenti per chiudere le porosità e un cambio di organizzazione e infine, se vuole sopravvivere, una ristrutturazione del parco macchine.”
In questo brano, che comunque si riferisce ancora a situazioni particolari, destinate a soccombere, mi pare di scorgere un criterio definitorio che si avvicina a quello dell’economia borghese la quale non distingue fra produzione e realizzazione del plusvalore, ma guarda direttamente al profitto. Il lavoratore di questi processi arretrati, lavora per un numero di ore superiore a quelle necessarie alla sua riproduzione, rappresentate fenomenicamente nel suo salario, e il numero di ore eccedente è pluslavoro a tutti gli effetti. È un problema del capitalista, e non del lavoro prestato, se poi quest’ultimo non viene riconosciuto socialmente, cioè validato dal mercato e si traduce in lavoro perduto.
Vecchiarelli cita anche i lavoratori della logistica. A mio parere, nel settore dei servizi, si dovrebbe prendere in considerazione quelli la cui produzione è anche produzione di plusvalore. La logistica, per esempio, è per molti aspetti assimilabile al settore dei trasporti per la sua finalizzazione alla produzione in quanto i processi lavorativi sono scomposti in unità produttive distanti fra di loro. E perciò svolge la una funzione analoga alla movimentazione delle merci all’interno della fabbrica. Laddove questa sia la sua funzione i lavoratori, al pari di quelli dei trasporti, che Marx includeva fra i produttivi, sono senz’altro da includere nella categoria dei produttivi.
Vecchiarelli passa ad analizzare il lavoro dei dipendenti pubblici della scuola e della sanità. “A tale scopo i lavoratori della scuola vengono pagati con una parte del valore [del plusvalore, specificamente] prodotto in altri settori, attraverso la tassazione sul salario (da qui la definizione di salario indiretto) e in parte minore da una colletta tra i produttori (tassa sui profitti)”. Marx nel suo lavoro maggiormente curato e definito, il primo libro del Capitale, ha premura di affermare che “un maestro di scuola è lavoratore produttivo se non si limita a lavorare le teste dei bambini, ma se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola” [2], tenendo quindi a distinguere fra chi produce plusvalore direttamente, in quanto sottomesso al capitale, da chi, pur effettuando attività indirettamente utili alla produzione del plusvalore, non presenta questa caratteristica.
Lo stesso discorso vale per la sanità. Successivamente Vecchiarelli pare non prendere sufficientemente in considerazione la pressione del capitale sulla politica a lui asservita per privatizzare anche i servizi pubblici: “Se sanità e istruzione fossero totalmente privatizzate i costi di questi servizi aumenterebbero enormemente perché non solo scomparirebbe il principio di progressività, che almeno per ora è garantito nelle imposte e che assicura ai meno abbienti i servizi sociali, ma inoltre comparirebbero nel mercato altri ‘parassiti’, cioè i proprietari della ‘fabbrica scuola’ e ‘fabbrica sanità, i quali richiederebbero la loro fetta di plusvalore”. Credo che si possa affermare il contrario: se i servizi prima erogati dal comparto pubblico vengono invece privatizzati e venduti come merce sul mercato si ampliano gli spazi di produzione del plusvalore e il capitale, nella sua pulsione a sottomettere pervasivamente sotto di sé ogni aspetto della vita, ringrazierà: che sboccino mille ‘fabbriche’! Se così non fosse, qualsiasi attività produttiva che “richiede la sua fetta di plusvalore” dovrebbe essere malvista dal capitale: cioè il capitale negherebbe la sua stessa pulsione e con ciò sé stesso. Inoltre la copertura parziale di questi servizi pubblici, destinati alla forza-lavoro, con la fiscalità generale non è vantaggiosa per i capitalisti qualora l’ordinamento tributario sia orientato alla progressività.
Tutta la questione a un certo punto viene così riassunta.
1) Il lavoro “È un residuo del passato modo di produzione, è isolato, castale, non inserito in una forma organizzata socialmente cioè in una catena del valore? Non più produttivo.
Ha un minimo di organizzazione, inserito socialmente sul piano quanto meno nazionale, è nelle linee di sviluppo delle forze produttive? Produttivo”.
Mi pare che nonostante lo sforzo di agganciarsi a scritti di Marx, il compagno pervenga a una nozione di lavoro produttivo di carattere “morale”, cioè all’utilità o meno di un lavoro e, dal punto di vista del capitale, all’idoneità o meno di procurare profitti. Molti teorici borghesi, che vedono solo il profitto senza indagarne la fonte, non avrebbero obiezioni.
Da un diverso punto di vista è giusto avere presente che il sistema è un tutto in cui molti cooperano alla produzione del plusvalore, chi direttamente e chi indirettamente favorendo le condizione della sua produzione. Ma non vedo il vantaggio di non distinguere le due cose.
Note:
[1] Marx, K., Storia delle teorie economiche, Vol I, Ed. Einaudi, 1958, p. 370.
[2] Marx, K., Il Capitale, Libro I, ed. Riuniti, 1964, p. 556.