L’Italia ripudia la guerra… mica i soldi!

Da sempre la guerra è il modo capitalistico di uscire dalle sue crisi strutturali, e la situazione attuale non fa eccezione. In piena pandemia, i piani finanziari prevedono somme gigantesche alle spese militari e poche briciole a quelle per il sistema sanitario.


L’Italia ripudia la guerra… mica i soldi!

Esiste un filo rosso che lega ogni governo, liberaldemocratico o più prettamente dittatoriale, occidentale o orientale che sia, ed è quello della spesa militare. Ogni Stato, infatti, si riserva una certa somma – la più grossa – da destinare all’acquisto di armamenti, come si riserva una certa capacità di vendere ed esportare le proprie armi. L’Italia, da questo meccanismo insano, non solo non è esente, ma vi si pone in prima linea. 

A quanto ammonta la spesa pubblica per gli armamenti nel mondo? Una cifra pressappoco incalcolabile, ridicolmente gargantuesca: un’enormità ingiustificabile. E non solo è sempre stato così in passato, ossia prima dell’avvento della pandemia da coronavirus, ma continua a essere così anche adesso, con il solito atteggiamento sprezzante a cui piccole, medie e grandi nazioni non rinunciano per nessun motivo. L’economia della guerra è, di fatto, ancora l’economia del mondo. Prendiamo il caso della nostra pacifica, democratica e costituzionalmente avversa alla guerra nazione: il governo Draghi, non meno che il governo precedente e quello precedente ancora e così via, non si risparmia per quanto riguarda la sempre agognata difesa, stanziando col recovery plan ben 17 miliardi di euro [1]. Sì, perché i 25 o 26 miliardi circa stanziati annualmente dall’Italia non erano già sufficienti, in quanto la “difesa” è sempre il fiore all’occhiello di ogni Stato che si dichiari democratico e che, come nel nostro caso specifico, “ripudia la guerra” [2]. Ebbene sì, l’Italia ripudia la guerra, a parole, ma la fomenta coi fatti. Ne sanno qualcosa in Kuwait o in Qatar o ancora in Egitto ecc. [3], i quali attendono sempre con gran trepidazione la scorta proveniente dal paese dei mandolini. Quella polveriera che è il Medio Oriente non trova le armi, come si suole dire, “sotto i cavoli”, ma ne riceve, ogni anno e in gran quantità, da tutti quei paesi che imbandendo lo show per l’opinione pubblica dichiarano pace e amicizia, mentre dietro le quinte fomentano la morte senza il minimo scrupolo. È questo il gioco della liberaldemocrazia: come Giano guardava contemporaneamente al passato e al futuro, essa guarda contemporaneamente alla pace e alla guerra, mostrando al popolo la faccia buona, quella che ripudia, e al capitale la faccia bellica, quella che ammazza. Chi, meglio degli Stati Uniti d’America, può ergersi a emblema di questo dualistico stato di cose? Il suo è sempre stato il gioco delle parti, del poliziotto buono e di quello cattivo: difendiamo il mondo dalla “minaccia” esterna impinguando il nostro arsenale bellico, ma solo per “precauzione”, e, contemporaneamente, “esportiamo democrazia” solida (concreta, tangibile come le mine antiuomo che smembrano i corpi dei bambini o come i missili lanciati dai droni con spietata imperturbabilità). 

Con o senza la pandemia, la situazione rimane invariata: il capitale non può rinunciare ai suoi introiti più cospicui. Le guerre nel mondo – non più di stampo novecentesco per le ovvie ragioni derivanti dallo sviluppo tecnologico – sono, a tutti gli effetti, una perenne guerra globale, un gioco giocato lontano dal confortevole tepore delle nostre abitazioni, un universo parallelo che non tange il cittadino medio, impegnato come non mai con le sfide consumistiche mondane: tra un ordine su Amazon e una serie televisiva su Netflix ecc. Il sistema capitalistico, infatti, gioca d’astuzia, distraendo da un lato il consumatore, intorpidendone il senso critico, e alimentando dall’altro le multinazionali della guerra, uno dei primi motori dell’economia mondiale. Va da sé che il capitale non può, per antonomasia, rinunciare ai conflitti fra le nazioni, perché sono proprio questi conflitti che lo tengono in piedi. Esso, di fatto, ha affrontato e sta affrontando la situazione pandemica con gli unici strumenti a sua disposizione, con l’unico gergo a esso affine, ovverosia, tramite la logica della guerra: sin da subito si è sentito parlare di “mobilitazione” contro il virus, di “guerra al virus”, di “trincee” e via dicendo. Questo perché l’animo stesso del capitalismo è guerrafondaio, e in situazione emergenziale non può che agire con i soli mezzi che conosce: distruzione, annientamento, difesa e attacco, vittoria o morte ecc. Inoltre non va dimenticato che la guerra è sempre stata uno dei principali “rimedi” del capitalismo di fronte alle crisi strutturali da sovrapproduzione. Quanto ancora fingeremo di non vedere l’innegabile paradosso che sostiene il pianeta intero? Quanto ancora lo stato di tensione – si veda a titolo di esempio l’attuale riacutizzazione dei conflitti occidente-oriente, Biden-Putin, Cina-America – potrà non sfociare in una guerra globale che annienterà l’illusoria sicurezza della società del consumo?

Nonostante la minaccia climatica – universale, inglobante, che coinvolge ogni singolo essere umano – il capitale insiste, e resiste, rigidamente sulle sue posizioni. Finge di istituire salvifici ministeri per la transizione ecologica, ma non arresta mai la produzione del nucleare. Propina “eco-bonus” alla stregua di promozioni commerciali, ma si riserva, beninteso, di stanziare la “giusta” quantità di danaro per giganti come Eni [4], baluardo, questa, di insostenibilità ambientale e trame geopolitiche di morte. Da ciò si evince che al capitalismo non interessa, realmente, sinceramente, salvare il pianeta perché è la cosa giusta da fare, ma gli interessa salvare il pianeta per salvare i propri interessi. E in questo modo scende a compromessi, dà la carota ma nasconde il bastone, si dichiara “green” ma rimane feticisticamente attaccato all’energia nucleare. Esso, in una parola, continua a essere Giano, il dio bifronte che mostra un volto buono e salvifico all’ingenuo consumatore e un volto spudorato e mortifero ai signori della guerra.

Ed è all’interno di questa logica perversa che la beneamata e democratica Europa, poco prima della pandemia, equipara il comunismo al nazismo, facendo di tutta l’erba un fascio [5]. Essa, senza pudore, sconvolge non solo la storia ma lo stesso senso logico: equipara due cose che non hanno nulla in comune, mettendo sullo stesso piano una teoria della liberazione degli oppressi con una dottrina dell’oppressione. Riducendo il comunismo al regime stalinista, al fine di giustificarne l’equiparazione con il nazismo, l’Europa ha voluto definitivamente spogliarlo dei suoi principi di uguaglianza e pace sociale, facendogli indossare la maschera, che non gli appartiene, di una volontà totalizzante e oppressiva. Ma cosa c’entra tutto questo con il continuo, e rinnovato, finanziamento della guerra anche in tempo di pandemia? Molto più di quanto non si colga a prima vista. La risoluzione testé citata è infatti il simbolo dell’immane ipocrisia liberaldemocratica (ossia del capitalismo): essa, come uno specchio che riflette in modo speculare l’immagine, fa in realtà ribaltare le accuse lanciate contro la stessa Europa, la quale cerca di nascondere la sua autentica identità bellica tramite il classico gioco del capro espiatorio. Quale sarebbe, altrimenti, il motivo di un così improvviso, spudorato e illogico attacco al comunismo? Dove starebbe la necessità impellente di mettere nero su bianco la fantomatica uguaglianza di comunismo e nazismo? L’Europa, in questo modo, fingendo di essere la paladina della democrazia e della lotta ai regimi totalitari – continuando a fare l’occhiolino a Erdogan, all’Arabia Saudita, all’Egitto e così via – non fa altro che proiettare le proprie colpe e le proprie intenzioni verso il suo nemico principale, il quale, in guisa capovolta da come essa ce lo presenta, altri non è che il comunismo. La verità, il fondo che anima la messa in scena della democrazia liberale, è solo uno, l’eterna lotta tra il bene e il male, tra il comunismo pacifista (nel senso che anche quando è costretto a usare la lotta armata, come nelle guerre di liberazione, ha come fine la convivenza pacifica degli esseri umani sul pianeta) e il capitalismo guerrafondaio, tra una visione del mondo che aborre il profitto e anela all’uguaglianza e una che trae dal profitto e dalla disuguaglianza la propria linfa vitale.

L’Italia, dunque, ripudia la guerra? Sì, allo stesso modo in cui l’Europa ripudia il totalitarismo: incarnandolo!

 

Note:

[1] https://ilmanifesto.it/lettere/regalo-di-pasqua-del-governo-17-miliardi-per-le-armi-nel-recovery/

[2] https://www.senato.it/1025?sezione=118&articolo_numero_articolo=11

[3] https://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2020/07/09/news/armi-261423378/

[4] https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/10/recovery-plan-la-protesta-di-greenpeace-a-roma-il-governo-destini-fondi-allambiente-non-alle-multinazionali-inquinanti/6032277/

[5] https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2019-0021_IT.html

09/04/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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