Riflessioni sul lavoro produttivo e improduttivo

Riflessioni aperte che sottopongo al dibattito per una elaborazione di una nozione di lavoro produttivo fuori dallo schematismo.


Riflessioni sul lavoro produttivo e improduttivo

Introduzione

Il modo migliore per studiare un “oggetto” complesso come per esempio l’organizzazione sociale è quello di scomporlo, osservarne le sue parti costituenti, classificarle e vederne la “sostanza” di cui sono fatte, le qualità. Il secondo passaggio è quello di riunirle e di vederne il comportamento “organico”, sviluppare le contraddizioni tra le differenti parti per consentire l’affacciarsi della visione d’insieme. Questo approccio, che è un aspetto della dialettica, è fondamentale per esaminare il mondo economico sociale in cui viviamo, è l’abc di un approccio marxista. E a questa metodologia di analisi voglio ispirarmi in questo scritto in cui cerco di entrare nel merito del concetto di lavoro produttivo. La tesi che cerco di presentare in questo scritto è che osservando le cose da un punto di vista particolare delle singole funzioni soggettive del lavoro cogliamo le differenze qualitative di ogni lavoro ma tali differenze, se non sviluppate e riorganizzate in un discorso organico, non consentono di comprendere fino in fondo il funzionamento sociale e universale del modo di produzione.

Dove Marx affronta la questione del lavoro produttivo?

Oltre a un breve passaggio nel primo libro del Capitale, Marx affronta la questione del lavoro produttivo e improduttivo in alcuni scritti che sono rimasti fuori dalla stesura finale del progetto del Capitale. Vi sono varie ipotesi al riguardo forse una questione di tempo, di progettualità. Altri studi evidenziano che i medesimi concetti siano stati sintetizzati e rielaborati nel capitale, dato che uesti scritti sono precedenti al Capitale e hanno ricevuto un’attenzione inferiore dallo stesso Marx rispetto ad altri lavori nella stesura del primo libro del Capitale. Questo deve essere tenuto presente. Gli scritti a cui faccio riferimento sono le “Teorie sul plusvalore” (1862 circa) e i “Risultati del processo di produzione immediato” (1864 circa). Quest’ultimo scritto è stato escluso dallo stesso Marx dalla stesura finale del primo libro del Capitale (1866).

Qual era il suo obiettivo politico?

In questi testi a me appare evidente come la necessità principale per Marx fosse quella di portare fuori il concetto di plusvalore purificandolo da quella serie di confusioni, più o meno volute, che ne determinavano uno svilimento. Una su tutte quella che dominava in alcuni ambienti borghesi la quale sosteneva che ogni lavoro fosse lavoro produttivo. Era evidente che l’interesse intorno a questa narrazione: mascherare il rapporto di sfruttamento. Marx ingaggia una battaglia contro questa tesi partendo dalla definizione smithiana di lavoro produttivo e provando a depurarla estraendone il nucleo vitale che in sostanza si può ridurre a questo: è produttivo ogni lavoro che produce un plusvalore sia esso lavoro che si materializza in una merce “durevole” sia esso lavoro cognitivo.

Il contesto storico

Il contesto in cui Marx scrive vede ancora una presenza consistente di artigiani, di lavoratori in proprio cioè figure lavorative che scambiano il loro lavoro con reddito. Questi ultimi non hanno un rapporto di lavoro salariato quindi il loro lavoro, non producendo plusvalore nemmeno per se stessi, non ingrossa nessun capitale. Ed è proprio per distinguere questi lavori (improduttivi), che Marx definisce di transizione – intesa tra sistemi di produzione differenti – da quelli che prevedono un rapporto di sottomissione al capitale, che egli insiste sulla necessità di trattare il tema del lavoro produttivo.

La sussunzione reale del lavoro al capitale

Nelle medesime pagine che ho citato si scorge il tentativo di Marx di proiettare oltre la sua fase storica le condizioni di sfruttamento. Egli in più punti sostiene che le figure improduttive, oggetto della sua analisi, sono figure di transizione (transizione dal vecchio al nuovo mondo). Egli sostiene infatti che l’affermazione del modo di produzione capitalistico su scala mondiale assorbirà ogni settore artigianale. Se all’epoca era possibile classificare il lavoro produttivo come quel lavoro che sostanzialmente si cristallizzava in una merce durevole, distinguendolo da un lavoro improduttivo che era per lo più realizzato in un servizio alla persona, con lo sviluppo stesso del modo di produzione e la conseguente sussunzione di tutto il lavoro al capitale anche i servizi alla persona sarebbero divenuti oggetto della produzione capitalistica.

L’angolo visuale

Nel definire il lavoro produttivo le cose cambiano a seconda della prospettiva che scegliamo: lo stesso lavoro che nel sistema capitalistico può essere definito produttivo, per esempio la costruzione di armi, non lo è assolutamente in una prospettiva socialista. Dunque è necessario fissare come prima cosa il sistema di riferimento che in questo scritto è quello interno al capitalismo e quindi il problema che mi pongo è arrivare a definire se un lavoro (o settore) è produttivo o meno all’interno del sistema di produzione capitalistico. Chiarito questo primo punto rimane da svolgere un’altra osservazione: un conto è assumere il punto di vista particolare del singolo capitale un altro conto è assumere il punto di vista dell’intero sistema di produzione capitalistico. Questi due elementi, particolare e generale, sono coesistenti e in relazione dialettica. 

Dal punto di vista del singolo capitale

Il singolo capitale, e il capitalista che lo impersona, non ha una visione generale della società, ma è interessato solo al profitto, quale che sia la produzione e quale che sia il settore all’interno del quale ricade la sua particolare produzione. Non ha importanza, a questo livello particolaristico di analisi, domandarsi se il settore in cui è incardinata la specifica produzione è produttivo o meno, se quella specifica produzione sia legata a un processo di emancipazione dell’uomo, se è un servizio o una merce il risultato della sua opera. Qui la teoria marxiana è molto chiara. Se noi ci chiediamo se il lavoratore che lavora alle “dipendenze” di un capitale, in qualsiasi settore produttivo, per esempio nel settore della logistica, è un lavoratore produttivo allora la risposta è immediata: non vi è alcun dubbio che esso lo sia. Infatti egli è produttivo nei confronti del capitale che lo ha sottomesso se a fine giornata il suo lavoro è stato produttivo di plusvalore cioè se a fine giornata oltre a riprodursi in quanto forza lavoro ha prodotto un certo surplus value.

Dal punto di vista di un intero settore. 

Settore industriale, agricolo e delle costruzioni.

Questi settori organizzati capitalisticamente sono semplici da esaminare in quanto il risultato del lavoro in questi settori è una immensa raccolta di merce durevole la quale può essere scambiata e, tranne i casi di improduttività causata da obsolescenza del ciclo, realizzarsi in reddito e plusvalore. E pertanto non v’è alcun dubbio che essi siano settori produttivi.

Settore dei servizi (esempio logistica)

Questi settori si sviluppano sul neovalore prodotto da altri settori: non producono merci essi stessi ma si “nutrono” delle merci prodotte da altri. Allo stesso tempo la loro esistenza garantisce la realizzabilità, il “furto” o la circolazione del plusvalore. Dunque divengono necessari nel sistema di produzione capitalistico in quanto intervengono su quei fattori (ritmo, intensità, forze produttive) che determinano la dimensione reale del plusvalore. La “logistica”, per esempio, rappresenta un elemento decisivo per la circolazione del capitale; tra le merci che circolano non vi sono solo beni di consumo ma anche semilavorati e materie prime, essa è “il pezzo di catena di montaggio” che collega due o più fabbriche adiacenti nella catena del plusvalore pertanto la “logistica” è da considerarsi legata al processo di concentrazione del capitale cioè di un ampliamento di scala nella produzione quale garanzia di maggiori profitti. L’ampliamento di scala, ossia la possibilità di lavorare una maggiore quantità di materie prime e semilavorati, al pari dello sviluppo tecnologico si traduce in una maggiore massa di plusvalore prodotto

I settori dei servizi dunque sviluppatisi in seno al capitalismo sono necessari alla sua esistenza il che equivale a dire che sono necessari al produzione di plusvalore.

Dal punto di vista del Capitale. 

Il sistema di produzione nel suo complesso, cioè il mondo economico-sociale di tipo capitalista, non è semplicemente la sommatoria di tanti capitalisti ma è uno sviluppo delle contraddizioni esistenti tra capitalisti, tra le classi, il tutto rapportato allo sviluppo delle forze produttive. 

Per essere più chiari: se il singolo capitalista è talmente miope da non interessarsi in alcun modo di quegli aspetti della vita sociale dove “non appare immediatamente” il plusvalore, anzi generalmente questi settori (come i servizi pubblici) vengono da egli etichettati come improduttivi, diversamente è per il sistema di produzione nel suo complesso, per il Capitale, il quale invece riconosce l’importanza e la necessità di tutta una serie di servizi di interesse collettivo (collettivo inteso tra i capitalisti) e non può fare a meno di gestirli al livello dello Stato [1] essendo questo il luogo deputato alla gestione degli interessi comuni della classe dominante. Vediamo alcuni di questi servizi e perché essi sono necessari e produttivi. In altri termini sorge una contraddizione tra interesse particolare del singolo capitale e interesse generale del sistema capitalistico. Vediamo qualche esempio

Scuola pubblica 

Questo settore rappresenta un esempio notevole di quello che è un interesse collettivo, anche tra i capitalisti, ma non è un interesse immediato per il singolo capitalista. Se ci limitassimo a osservare che il salario degli insegnanti è formato togliendo una parte del neo-valore prodotto in altri settori per mezzo della tassazione noi giungeremmo a una prima considerazione: questi lavoratori della scuola non essendo alle dipendenze di un capitale non producono plusvalore per nessuno e inoltre scambiano il loro lavoro con reddito quindi sono improduttivi.

Ma se ampliamo la visuale ci rendiamo conto di alcune cosette: esistono solo pochi Stati al mondo ove non sia sviluppata la scuola pubblica fino alla scuola superiore questo perché la scuola interviene direttamente sui ritmi di lavoro. Senza la scuola pubblica il singolo fabbricante dovrebbe attrezzarsi per formare i propri lavoratori affinché essi abbiano quel minimo di capacità cognitive utili a tenere la forza lavoro ai ritmi delle macchine storicamente sviluppatesi e a tenerla in salute per il più lungo periodo utile possibile cioè fino a che il costo per tenerla in salute non diviene eccessivo rispetto al profitto che essa realizza.È evidente che senza istruzione la forza lavoro non sarebbe produttiva e inoltre si ammalerebbe precocemente data l’incapacità di riflettere perfino sui propri regimi alimentari. Se ogni singolo fabbricante dovesse formare i propri lavoratori una parte cospicua del proprio plusvalore andrebbe persa. Da qui nasce la necessità, per la classe dominante nel suo complesso, cioè al livello di Stato, di organizzare la scuola pubblica quale interesse comune tra i capitali di tenere alti i ritmi di lavoro e l’intensità del lavoro. 

A tale scopo i lavoratori della scuola vengono pagati con una parte del valore prodotto in altri settori, attraverso la tassazione sul salario (da qui la definizione di salario indiretto) e in parte minore da una colletta tra i produttori (tassa sui profitti). Quindi non solo i lavoratori e le lavoratrici della scuola sono potenziali agenti del plusvalore in quanto la loro azione agisce sui ritmi ma il loro stipendio viene anche dalla tassazione dei salari. 

Sanità

Per la sanità pubblica possiamo seguire il medesimo ragionamento di prima. La sanità pubblica, in regime capitalistico e con rapporti di forza favorevoli alla classe capitalista, tendenzialmente si sviluppa per assicurare l’intensità del lavoro crescente ossia che il soggetto della produzione, sia in grado di poter tenere attiva la propria forza lavoro al massimo delle potenzialità nel periodo di sfruttamento. Ogni interruzione per malattia infatti rappresenta una perdita di profitti, peggio ancora se un’intera nazione dovesse contare su una sanità precaria ciò avrebbe notevoli ripercussioni sulla qualità della forza lavoro disponibile.

Se sanità e istruzione fossero totalmente privatizzate i costi di questi servizi aumenterebbero enormemente perché non solo scomparirebbe il principio di progressività, che almeno per ora è garantito nelle imposte e che assicura ai meno abbienti i servizi sociali, ma inoltre comparirebbero nel mercato altri “parassiti”, cioè i proprietari della “fabbrica scuola” e “fabbrica sanità”, i quali richiederebbero la loro fetta di plusvalore. In questo scenario l’istruzione e la sanità diventerebbero dei servizi per pochi con enormi ricadute sull’intero sistema di produzione. Negli Stati in cui ciò si palesa questo è oggetto di forte dibattito pubblico, ma a parte quelle speciali cliniche e scuole “per ricchi”, nei paesi in cui avviene una privatizzazione massiccia di questi settori ciò è da mettersi in relazione con l’espansione dell’esercito industriale di riserva ossia una crescente sovrappopolazione relativa che avendo il solo scopo di tenere bassi i salari può vivere anche in condizioni di indigenza e ignoranza.

Forze armate

Assicurano la continuità del processo lavorativo e cioè che tutte le giornate vengano lavorate ai ritmi prestabiliti, che la legge borghese venga rispettata e la proprietà privata possa continuare a esercitare il proprio dominio in piena sicurezza. Facciamo un esempio molto particolare: l’ordine pubblico allo stadio di calcio. Chi è andato a vedere una partita di calcio avrà notato questa coincidenza: all’interno dello stadio vi sono gli steward, alle dipendenze della società che ospita la partita e che hanno lo scopo principale di verificare il possesso del biglietto, al fianco dello steward opera il poliziotto la cui funzione (principale) è quella di consentire il corretto funzionamento della macchina di plusvalore (90 minuti di partita). Lo steward e il poliziotto a volte cooperano addirittura. Entrambi assicurano che la “macchina” si accenda e operi correttamente. Senza il poliziotto la macchina non partirebbe o si spegnerebbe e il plusvalore dello steward, del calciatore, dell’amministratore, etcc.. non si realizzerebbe. In assenza del poliziotto la proprietà dovrebbe appaltare un servizio di polizia privato che inciderebbe sul costo della merce prodotta: il biglietto della partita diventerebbe costosissimo e impossibile per larghe fasce della popolazione. Il calcio allo stadio si trasformerebbe da fenomeno di massa a fenomeno minore con una ricaduta sull’indotto e sull’egemonia.

Funzioni pubbliche centrali 

La costruzione di una strada, di una scuola, di un ospedale di un dipartimento di polizia, costituisce la condizione di esistenza materiale per la realizzazione dei servizi precedentemente illustrati e dunque segue il medesimo ragionamento. Tutte queste funzioni in capo a un ente pubblico (di tipo borghese) in quanto sono di interesse comune, l’ente pubblico è destinato a mediare tra interessi particolari. 

Conclusioni

Tutte quelle funzioni “pubbliche” che ho descritto precedentemente agiscono, in ultima istanza, sui sul ritmo, sull’intensità del lavoro, tendenzialmente però ciò non è visibile ai lavoratori di questi settori mentre all’operaio di fabbrica è direttamente visibile lo sfruttamento e l’appropriazione “indebita” di una quota di neo-valore da parte del capitale, di qui l’importante necessità di ragionare in termini particolari e distinguere la funzione d’avanguardia che hanno alcuni lavoratori rispetto ad altri e non fare di tutta un’erba un fascio

Potremmo giungere a una prima parziale risposta al quesito iniziale: è improduttivo il lavoratore che è superato dallo sviluppo del modo di produzione e delle forze produttive tutti gli altri sono produttivi ma non tutti vedono direttamente il risultato delle loro azioni. 

Allora il lavoro improduttivo non esiste più?

A parte i lavori che ancora oggi esistono e si scambiano con reddito (domestico, artigiano etc..) io credo che l’improduttività è da intendersi come una questione che può essere trasversale e cioè essere una caratteristica sia in ambito “privato” che “pubblico”. Negli enti pubblici per esempio sono sicuramente improduttive quelle “rendite di posizione” di un certo sovrannumero di notabilato la cui funzione è esclusivamente l’intermediazione tra interessi privati e interessi generali, come pure sono improduttive molte aree in cui si svolgono lavori con modalità e tecniche superate dalla storia. 

Ma ciò vale anche per il settore privato. Quando sul mercato, grazie allo sviluppo delle forze produttive, si presentano sistemi di lavoro più evoluti i medesimi lavori che continuano a essere svolti con metodi antiquati divengono generalmente improduttivi, (a meno di non pagare la forza lavoro o pagarla pochissimo) perché il loro plusvalore è irrealizzabile in quanto a parità di qualità la merce sarebbe troppo cara per essere vendibile. Oppure nelle fasi della maturità di un determinato ciclo produttivo, cioè quando la massa di lavoro vivo è giunta a lavorare a ritmi che oscillano intorno a quelli della macchina (il che diviene possibile per l’obsolescenza della macchina, obsolescenza dell’organizzazione o semplicemente per il fatto che l’operaio conosce la macchina al punto che riesce a superarla) allora si creano delle porosità nel ciclo produttivo che si traducono in “improduttività relativa” dovuta a bassa intensità, ciò impone al fabbricante dei licenziamenti per chiudere le porosità e un cambio di organizzazione e infine, se vuole sopravvivere, una ristrutturazione del parco macchine. 

In sintesi: 

  1. È un residuo del passato modo di produzione, è isolato, castale, non inserito in una forma organizzata socialmente cioè in una catena del valore? Non più produttivo.
  2. Ha un minimo di organizzazione, inserito socialmente sul piano quanto meno nazionale, è nelle linee di sviluppo delle forze produttive? Produttivo

I settori non produttivi vengono tendenzialmente superati dal sistema di produzione. La produttività di un’attività andrebbe valutata rispetto alla sua organicità nello sviluppo sociale del modo di produzione e non rispetto alla merce/servizio che produce o all’essere legata alla fabbrica privata o a quella statale. La distinzione secondo la quale attività come la “logistica” o la “scuola” siano consumo di energia necessaria mentre l’operaio è produzione di energia, mi pare una determinazione empirica valida sul piano astratto cioè quando si classificano le differenti qualità ma che perde di valore sul piano generale. Io credo che il plusvalore appare immediatamente in alcuni punti della catena del valore, ma esso è il frutto dell’opera sociale in quanto ogni funzione organizzata socialmente interviene nella produzione di plusvalore. Il maestro aumenta i ritmi, l’infermiere aumenta l’intensità, il militare aumenta la durata della giornata lavorativa, la logistica, mediante la connessione delle catene di produzione, centralizza il capitale innalzando il limite del plusvalore ideale. Questi che ho citato sono tutti fattori moltiplicativi del plusvalore.

Questo non significa che tutti i lavori sono uguali o che ormai l’operaio è solo una piccolissima parte del tutto e le battaglie della lotta di classe nella fabbrica siano ormai un “residuato bellico” di un glorioso passato. Gli operai sono avanguardia perché vedono direttamente lo sfruttamento per il plusvalore, sono una grande maggioranza a livello internazionale.

Questa posizione che qui ho esposto sul lavoro produttivo potrebbe approdare anche a un altro lido sbagliato che è quello che vede il modo di produzione capitalistico come un tutto-organico, un unico macrosistema organizzato e centralizzato. Anche questa deriva è sbagliata perché se è vero che sul piano generale tutte le attività inserite nel modo di produzione sono produttive è anche vero che, all’esame particolare, segmenti differenti del ciclo produttivo possono risultare momentaneamente più profittevoli della media da cui sorge la conflittualità interna del modo di produzione a diversi livelli di aggregazione per accaparrarsi queste maggiori fette di plusvalore.

 

Note:

[1] Già Marx ed Engels chiariscono la funzione dello Stato quale elemento necessario alla classe dominante per esercitare il proprio dominio politico. Lenin riprendendo da Engles e Marx, e nel contesto italiano Gramsci, chiariscono, che lo Stato è un elemento inevitabile fin tanto che esiste il conflitto di classe ed è la struttura che meglio assicura la democrazia nel campo della classe dominante e la coercizione sulla classe sfruttata. Lo Stato borghese è dunque il prodotto di due necessità: la necessità di dominio della borghesia (il che significa, in ultima analisi sul piano economico, la tenuta di un determinato saggio di sfruttamento che assicuri il dominio di classe) e la necessità della borghesia di organizzare i propri interessi interni.

19/02/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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