(n.d.r.: Pubblichiamo questa interessante e approfondita analisi sulle modalità di riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e sulle possibili conseguenze in termini di produttività, salario accessorio, contrattualistica e sulle ricadute di tipo psicologico ed esistenziale sui lavoratori, con una opportuna distinzione tra le possibilità nelle grandi imprese e quelle nelle piccole. Lo facciamo volentieri anche se il punto di vista del nostro collettivo politico è che la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario (e di sfruttamento), per noi una rivendicazione strategica, debba avvenire anche in assenza di incremento della produttività per ora di lavoro, visto che tale riduzione è possibile in virtù degli incrementi verificatisi nell'ultimo mezzo secolo e che la rendono una risposta necessaria alla piaga della disoccupazione).
Da alcuni mesi la CGIL sta avanzando una proposta di riduzione dell’orario a parità di salario. L’idea è che diminuire il numero di giornate lavorative settimanali sarebbe facilmente conseguibile perché il minor carico fisico e psicologico che ne risulterebbe per il dipendente, unito all’incremento del tempo libero personale, comporterebbe effetti psicologici positivi in grado di farlo lavorare meglio e con più energia e consentendogli di mantenere agevolmente lo stesso livello di produttività settimanale. A nostro parere la diminuzione dell’orario verrebbe realizzata attraverso un sistema di turnazione più vario e differenziato di quelli mediamente esistenti oggi: la riduzione del periodo settimanale di attività aziendale, a partire dagli impianti dell’industria manifatturiera e per finire con la logistica e gli uffici, sarebbe infatti non solo in netta controtendenza rispetto a quanto sta avvenendo sia in Italia che nel resto delle economie avanzate, ma produrrebbe un esagerato calo di produttività che non potrebbe mai essere compensato dall’ipotetico effetto psicologico di cui sopra.
La proposta del Segretario CGIL Landini ha incontrato un’apertura del Ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che si è detto disponibile a valutare l’ipotesi in quanto potrebbe condurre a un “aumento di produttività e di occupazione”. Allo stesso tempo anche altri sindacati stanno intervenendo sul tema. Durante il recente Convegno UIL dal titolo “Ripensare il capitalismo” sono state approfondite alcune questioni correlate, all’interno di una proposta già articolata sul piano progettuale e che ruota attorno alla riduzione del 20% delle ore lavorate a parità di stipendio entro il 2050. La discussione ha condotto a esaminare aspetti interessanti, come la possibilità che si liberi tempo per i lavori domestici e di cura familiare o il fatto che la riduzione dell’orario di lavoro potrebbe andare a impattare più sul genere maschile che su quello femminile.
Non è un caso, in effetti, che l’introduzione della flessibilità oraria e di un sistema articolato di turnazione prese le mosse proprio dall’ingresso massivo delle donne nel mercato del lavoro, come mezzo per permettere loro di coniugare i lavori domestici e di cura con l’occupazione [Sennett, 1998; Betti, 2019]. Queste innovazioni si svilupparono sia nelle fasce alte di impiego che tra operai e impiegati di basso livello contrattuale, secondo due percorsi distinti.
Nel primo caso la turnazione flessibile introdusse la possibilità di lavorare su progetti, “aree di lavoro”, ecc., rendendo il professionista meno vincolato alla definizione della mansione. Ciò rese possibile un’organizzazione aziendale interna sempre più mutevole e adattabile man mano che ci si avvicinava ai livelli alti o medio-alti (impiegati di alto livello, manager, consulenti interni, ecc.): una sorta di “rete” organizzativa, più che un’organizzazione stabile, che a seconda delle opportunità di mercato e delle specifiche esigenze potesse rapidamente e senza costi cambiare forma, spostando persone da un compito all’altro, chiudendo reparti che non servono più e aprendone di nuovi, convertendo rapidamente il lavoro dei consulenti esterni all’impresa in compiti pratici e attuativi, ecc. Nel tempo questo tipo di turnazione ha portato chi vi era soggetto a orari di lavoro informali (non contrattualmente definiti), lunghissimi ed estenuanti, altamente compromissori dell’aspetto privato della vita personale.
Il contesto economico e il significato della proposta
In questa sede, però, siamo interessati a esplorare il secondo caso, quello dei lavori operai e degli impiegati di basso livello. L’ipotesi è che gli imprenditori vogliano utilizzare la turnazione flessibile per rendere possibile l’utilizzo degli impianti (sia industriali che logistici) h 24, per sette giorni la settimana. Verifichiamone insieme i presupposti.
Individuiamo due tipologie di turnazione fondamentali: “a rotazione”, per cui tutti i lavoratori passano, alternandosi, attraverso i vari tipi di turni previsti in azienda; “fissi”, ma con monte ore lavorativo differenziato (ad esempio: una parte dei dipendenti potrebbe lavorare 12 ore per 3 o 4 giorni, comprendenti i fine settimana, contro un’altra parte che lavorerebbe nei turni infrasettimanali).
Nel complesso identifichiamo anche due tipi di rischi: abbassamento del costo del lavoro; aumento della produttività oraria del lavoro. Per quanto riguarda il primo, ipotizziamo che in virtù dell’intercambiabilità dei turni e dell’utilizzo continuo degli impianti vengano cancellate o ridotte le maggiorazioni dovute per festivi, notturni e straordinari (e le relative maggiorazioni contributive, a carico del capitalista), e che nel corso del tempo si sviluppi una tendenza generale ad aumentare l’orario lavorativo. Relativamente al secondo premettiamo che l’alleggerimento del carico fisico e psicologico non ci sembra poter essere sufficientemente rilevante per andare a costituire un fattore di incremento dei profitti che non sia puramente simbolico. Secondo poi, esiste un enorme margine di recupero della vivibilità dell’attività lavorativa, considerevolmente erosa negli ultimi decenni anche a causa dell’utilizzo delle nuove tecnologie. Del tutto naturalmente la forza-lavoro tenterebbe di recuperarne una parte, laddove possibile, mentre nel grosso dei casi si produrrebbe un aumento del livello di controllo sullo svolgimento della mansione, perpetrato secondo modalità e ritmi predefiniti dall’azienda. Dunque, non è questo il punto. L’aumento della produttività per ora lavorata deriverebbe piuttosto dal fatto che l’utilizzo continuo degli impianti e dei macchinari renderebbe possibile un impiego complessivamente più efficace degli stessi (riduzione dei tempi di avviamento, superamento di una parte delle interruzioni del flusso produttivo o logistico), specie se in una migliore coordinazione con le fasi precedenti e successive della filiera produttiva (lavorazioni intermedie, spostamenti logistici, approvvigionamento di materiali, distribuzione, ecc.).
Vorremmo ora riflettere sul fatto che, mentre l’abbassamento del costo del lavoro è oggettivamente conseguibile con la turnazione flessibile, l’aumento della produttività oraria è una possibilità che l’imprenditore può essere in grado di cogliere oppure no. Oltralpe si trovano abbondanti esempi di abbassamento del costo del lavoro dovuti a differenziazione dei turni. Ascoltiamo questo lavoratore immigrato svizzero, dipendente della multinazionale Advaltech in una fabbrica di cialde per il caffè: “[Lavoriamo su] tre turni: 8 ore la mattina, 8 ore il pomeriggio, 7 ore e un quarto di notte. Il lavoratore cambia turno ogni quattro giorni e quindi non riusciamo ad avere un sonno regolare, perché appena ci abituiamo a un turno dobbiamo subito ricambiare abitudine. Le 48 ore previste tra un turno e l’altro non bastano affinché il corpo si abitui al cambio turno, perché cambiare ogni 4 giorni non fa bene. Quindi ci sono persone che vengono assonnate, con mal di gambe, mal di schiena, emicrania… Praticamente quasi tutti i dipendenti hanno questi disturbi, ma lo stress è tantissimo e coinvolge tutti senza eccezioni. Ecco perché stiamo facendo pressioni affinché ci cambino i turni: abbiamo lamentato questi problemi ai nostri superiori, per cui nelle prossime settimane vedremo se ce li cambieranno. Ci hanno già detto, però, che un turno regolare dal lunedì al venerdì non ritornerà mai, perché l’azienda ci andrebbe a perdere. Fino a settembre 2021, infatti, lavoravamo su tre turni, dal lunedì al venerdì. Erano mattina, pomeriggio e notte. Sabato e domenica c’erano due gruppi di lavoratori, che lavoravano 12 ore. Il sabato veniva maggiorato del 50% e la domenica del 100%. Successivamente l’azienda ha fatto partire un “progetto pilota”: 4 mattine, 48 ore di riposo, 4 pomeriggi, 48 ore di riposo, 4 notti, 48 ore di riposo. I turni sono difficili. È capitato anche un incidente sul posto di lavoro, un signore di 55 anni che è stato trasportato in ospedale e per due mesi non è venuto al lavoro. Soprattutto il turno da notte a mattina è il più difficoltoso di tutti, in quanto è difficile cambiare l’orario del sonno e ci sono infatti difficoltà fra tutti i dipendenti. In questi mesi stiamo cercando di fare pressioni sull’azienda: abbiamo avuto 2-3 confronti coi nostri superiori, i quali hanno rifiutato di ritornare ai vecchi turni. Loro dicono che in Svizzera non ci sono più fabbriche che lavorano su questi vecchi turni. Quindi loro stanno facendo di tutto per avere un guadagno, sia sul dipendente che sull’orario del dipendente. Noi stiamo facendo di tutto per farci cambiare i turni, però le sensazioni sono negative. Forse ci daranno un altro sistema, ma non i turni dal lunedì al venerdì. Stiamo discutendo moltissimo in queste settimane, perché cambiare ritmi di vita ogni 4 giorni è veramente difficile, siamo esausti e con questi turni non ce la facciamo più”[1].
Da allora è passato quasi un anno e i lavoratori hanno ottenuto un sistema di turnazione a “doppio binario”: un gruppo fa dal lunedì al venerdì, con alternanza fra turni di mattina, pomeriggio e notte, mentre l’altro lavora per tre giorni a 12 ore, comprendenti sempre i fine settimana. Prima erano state previste maggiorazioni per il lavoro notturno e festivo mentre ora, nel caso dei turni di 12 ore, le maggiorazioni “festive” non si applicano più [2]. Né prima né dopo si applicavano maggiorazioni per gli straordinari, che invece fino al 2021 venivano riconosciute. E siamo in Svizzera, non in Italia.
Dicevamo che non sempre è possibile ottenere un aumento della produttività per ora lavorata. Ciò perché la turnazione flessibile diventa remunerativa solo se si presuppone un investimento, anche ingente, che stimoli i necessari adeguamenti del sistema produttivo. Sostanzialmente ci stiamo riferendo alle possibilità di sviluppo della coordinazione della specifica filiera produttiva e a ciò che essa presuppone e comporta. I presupposti sono l’esistenza di una rete infrastrutturale nazionale molto sviluppata e integrata, nonché un sistema di raccolta e condivisione dati molto sviluppato. L’Italia è una nazione con molte piccole e medie imprese, cui spessissimo anche le grandi esternalizzano molte fasi lavorative. Ciò significa che la filiera produttiva, che comprende le varie fasi di lavorazione e di movimentazione logistica delle merci presenti sul suolo nazionale nonché, eventualmente, la distribuzione ai clienti finali, presenterebbe una scarsa integrazione (mancanza di coordinamento fra i vari passaggi). E per l’appunto questa condizione, nonostante possa essere temporaneamente funzionale, in generale non è desiderabile. Non lo è perché generalmente l’imprenditore guadagna di più nelle fasi finali e iniziali della filiera, che in quelle intermedie, per cui è importante che le aziende ivi collocate posseggano una quota sufficiente di controllo sul resto della catena. Essendo collocate alle estremità, dunque, hanno bisogno dell’integrazione di filiera per poter meglio esercitare il controllo e dirigere il processo.
Parlando delle fasi iniziali e finali ci riferiamo a passaggi come: assemblaggio dei componenti finali (a maggior ragione se ad alto tasso di sviluppo tecnologico); lavorazioni con alto contenuto di competenza specialistica; distribuzione finale ai clienti; progettazione; ricerca e sviluppo; elaborazione dell’informazione; marketing; gestione della proprietà intellettuale; commercializzazione; assistenza post-vendita [3]. In questi contesti è importante evitare ogni minimo spreco di tempo (il che automaticamente si traduce in ritmi lavorativi più intensi e investimenti tecnologici), ogni inefficienza e così via, proprio perché ogni minimo ritardo o disfunzione costa di più che nelle fasi intermedie. Dunque, l’imprenditore attivo in questi passaggi sarà maggiormente interessato a ottenere, oltre al maggior controllo, la migliore efficienza.
Far rimanere la merce il meno tempo possibile nei magazzini, così come il far lavorare gli impianti produttivi 24/7 a pieno regime di attività o il sincronizzare i passaggi logistici può impedire che il valore dell’intero processo produttivo venga compromesso. Quindi lo stesso imprenditore sarà anche interessato a estendere, per non dire “imporre”, il maggior controllo e la migliore efficienza su tutta la filiera.
Ma l’integrazione ha un costo, e in genere piuttosto ingente. Sarà, di conseguenza, meno interessato a farlo quello attivo nelle fasi a basso valore aggiunto: assemblaggio componenti poco costosi, o a basso contenuto tecnologico, o relativi alle fasi iniziali della produzione, o intercambiabili (cioè, non esclusivi di un solo tipo di merce), ecc.; logistica relativa a queste fasi; lavoro manuale non specializzato; lavoro impiegatizio non specializzato. Specie se si tratta di piccole e medie imprese (PMI), aventi un capitale limitato.
Abbiamo visto che l’applicazione su larga scala (anche nei settori produttivi e logistici), a livello settimanale, della riduzione dell’orario a parità di produttività, comporta lo sviluppo di un’organizzazione del lavoro atta a gestire ritmi lavorativi più intensi, così come abbiamo visto che gli interessi in gioco sono grandi. È perciò che lo diciamo senza mezzi termini: il pericolo sta nel fatto di non disporre dei rapporti di forza adeguati a gestire il processo di riorganizzazione dei turni e orientarlo in un’altra direzione. Per quanto sulla carta sarebbe possibile, le questioni politiche rimangono pur sempre questioni pratiche.
È conclamato che il capitalismo italiano soffra di una difficoltà di integrazione delle filiere produttive e che la grande diffusione di PMI faccia da freno ai tentativi di superarla [Simonetti, Violi, Fiorentino e Confindustria, 2018; Bologna, 2018]. In Italia c’è chi può investire sull’aumento della produttività e chi no, e c’è chi da questi investimenti trarrebbe grande profitto (ad esempio chi già controlla segmenti di filiera più estesa e dispone di capitale a sufficienza, e quindi può sincronizzarli in maniera relativamente agevole) e chi no. Le PMI, generalmente, “no”.
Queste puntano in particolar modo sullo sviluppo delle reti d’impresa, dei gruppi IVA e delle partite IVA di gruppo, sul finanziamento statale dei processi di ammodernamento produttivo (come il cosiddetto Piano Nazionale Industria 4.0, che infatti non riceve finanziamenti ingenti) e della rete infrastrutturale nazionale (rete di trasporto e sviluppo integrato delle diverse modalità di trasporto, infrastrutture tecnologiche, come il 5G, ecc.), sulla deregolamentazione del lavoro (“false partite IVA”, cooperative scarsamente controllate, flessibilità in entrata, lavoro grigio e nero, facilitazioni burocratiche), sul rilascio di permessi e condoni, anche connessi al pagamento della forza-lavoro, e via dicendo. Il Governo Meloni riceve una considerevole quota di sostegno politico proprio da questo settore economico e sociale.
Le grandi imprese, dal canto loro, propendono ognuna per lo sviluppo della concentrazione dei capitali in poche aziende, l’acquisizione delle aziende minori o il loro assoggettamento a norme contrattuali che comunque le vincolino a una forma di dipendenza. Alla deregolamentazione del lavoro preferiscono il suo deprezzamento; ai finanziamenti statali, la detassazione degli utili e degli oneri d’impresa. Insomma: non sono interessate a perdere nemmeno una briciola del loro vantaggio competitivo sulle PMI. Il PD sembra essere stato, negli ultimi anni, il rappresentante più conseguente di questo settore.
Per quanto concerne il Governo, Urso ha rilasciato una dichiarazione degna di nota: “Dobbiamo stare attenti che [la flessibilità sui turni] non diventi un incentivo all’emigrazione interna verso le grandi fabbriche del Nord che possono fare di più su questo fronte [corsivo nostro]”. “Loro” sanno benissimo che per rendere remunerativa la flessibilità sui turni si debba presupporre un’adeguata capacità di sviluppo dell’integrazione di filiera e che, in termini di concorrenza sul mercato, ciò significhi maggior potere alle grandi imprese e meno alle PMI. Probabilmente sanno anche che, in caso di un aumento della concentrazione di capitali non sostenibile dall’economia italiana (vale a dire: poca convenienza per le grandi imprese a investire sull’integrazione di filiera, perché non c’è il retroterra economico, politico, infrastrutturale e in parte anche giuridico su cui questa dovrebbe innestarsi), verrebbe a mancare parte di quella dinamicità imprenditoriale ancor oggi parzialmente derivante dal tessuto di PMI, una volta indebolitosi.
Congresso CGIL: gli sviluppi della questione
Il XIX Congresso della CGIL si è concluso il 18 marzo. Nelle settimane e nei mesi precedenti, nonché al Congresso stesso, sulla riduzione dell’orario sono occorsi contributi da parte dei maggiori esponenti delle principali forze politiche della sinistra parlamentare. Questi sono apparsi essere palesemente convergenti, al punto da dare l’impressione che il tema sia una componente fondamentale dell’asse politico che si sta sviluppando tra CGIL, PD, M5S e SI.
Il Segretario Landini si è detto “consapevole che questo significa ridurre l’orario individuale delle persone ma [anche] essere pronti ad aumentare l’utilizzo degli impianti o l’apertura dei servizi anche su più giornate” [4]. Il Segretario della Camera del Lavoro di Prato, Pancini, ha affermato che “c’è bisogno di un nuovo modello di sviluppo locale, che favorisca la crescita delle aziende, attraverso la strutturazione in reti produttive e la loro aggregazione”. “Il livello raggiunto dalla tecnologia è tale che si può aumentare la produttività dell’intero sistema, con l’innovazione e la qualificazione delle produzioni e dei processi produttivi”, a patto che si raccolga la sfida alla “diffusione di nuove soluzioni tecnologiche ed il conseguente cambiamento dei paradigmi produttivi”. Esiste, secondo Pancini, “la possibilità di avviare la sperimentazione nelle imprese più strutturate e meglio organizzate del manifatturiero, abbandonando l’idea che l’orario ridotto si debba confinare solo nelle aziende del settore finanziario o dei servizi” [5]. E se la Schlein si limita a dire che "la settimana di 4 giorni lavorativi può migliorare la qualità del lavoro e il tasso di occupazione, restituire tempo di vita e benessere alle persone, stimolare la produttività e ridurre le emissioni climalteranti” [6], dal palco del Congresso Giuseppe Conte propone di partire “da quei settori ad alta complessità tecnologica” [7].
Sembra che nelle rappresentazioni di questi esponenti politici la riduzione dell’orario a parità di salario sia già legata alle questioni degli investimenti produttivi, della remunerabilità dei settori e della sincronizzazione di filiera, seppur probabilmente in una forma differente dalla nostra. Ciononostante potrebbero verificarsi oscillazioni e incongruenze, che al livello della comunicazione politica andrebbero forse a finire per condensarsi nel dilemma: “puntare sull’aggregazione delle PMI e la loro capacità di diversificazione produttiva o sulle possibilità, propria delle grandi aziende, di innovazione tecnologica e sincronizzazione di filiera?”. Le organizzazioni politiche succitate appaiono compattamente posizionate attorno la medesima visione strategica.
Questa novità può essere spiegata. Da un lato, la proposta di riduzione dell’orario consente con buona probabilità di avere un impatto positivo sul coinvolgimento di una parte dei ceti lavoratori, rendendo possibile allo stesso tempo utilizzare la tradizionale identità politica lavorista della sinistra come leva e produrre un rafforzamento dell’immagine di quelle organizzazioni, oggi gravemente compromessa. (Tra l’altro, dopo il lockdown 2020 e l’aumento del lavoro da casa, in famiglia, tra la forza-lavoro si è diffusa un’attenzione ancora maggiore per la questione del tempo libero, che pure risultava già molto sentita).
Dall’altro lato, invece, questa proposta permette di rappresentare interessi imprenditoriali, rinnovando la capacità di risultare attrattivi agli occhi delle grandi imprese e di una parte delle PMI. In riferimento a queste ultime, la presenza del partito di Conte sembra essere al momento un ingrediente imprescindibile, per quanto probabilmente sia la capacità di visione del PD il fattore principale all’interno del progetto politico. Se giocata coi tempi e le modalità giuste, posto nella forma della riduzione dell’orario quello dell’ammodernamento produttivo potrebbe risultare un terreno favorevole per la sfida alle forze di governo.
Clicca qui per vedere una schematizzazione dell’articolo, a cura di Alma Valenzuela.
Note:
[1] Intervista raccolta il 20/07/2022, corsivo nostro.
[2] Situazione da ottobre 2021: 4 franchi all’ora per il notturno; 5 per i turni pomeridiani sabatini e domenicali e 10 per quelli notturni; 8 ore di riposo per il lavoro durante le festività, che assolutamente non è facoltativo, ma nessuna maggiorazione salariale.
[3] Chiaramente esistono settori complessivamente a maggior valor aggiunto e altri più “poveri”, per così dire, per cui ovviamente con l’assemblaggio finale e la distribuzione degli i-Phone si guadagnerà più che con l’assemblaggio degli ingredienti di un prodotto dolciario industriale e la distribuzione di questo nei supermercati. Inoltre, l’estrazione di materie prime sarebbe anch’essa una fase di grande interesse economico ma non ci è possibile sviluppare il discorso in questa sede.
[4] Adnkronos, Lavoro, Landini: “Settimana 4 giorni obiettivo strategico sindacato”, 17/01/2023, corsivo nostro.
[5] Lorenzo Pancini, Riduzione orario. In https://www.cgilprato.it/riduzione-orario-pancini-cgil-avviare-la-sperimentazione-anche-a-prato/, corsivo nostro.
[6] Antonio Piccirilli, Stretta sui contratti a termine e salario minimo: l'agenda socialista di Elly Schlein, Today.it, 28/02/2023.
[7] Giuseppe Conte, Intervento al XIX Congresso CGIL, 16/03/2023. Il M5S, in realtà, propone anche sgravi contributivi alle imprese che assumano con orario ridotto, ma non approfondiamo per ragioni di spazio, corsivo nostro.
Bibliografia:
Betti, 2019: Eloisa Betti, Precari e precarie: una storia dell'Italia repubblicana, Ed., Carocci, Roma, 2019.
Bologna, 2017: Sergio Bologna, Logistica: innovare le imprese, qualificare il lavoro, per vincere la sfida di Industria 4.0, Intervento al convegno CGIL dal titolo 'Logistica e Manifattura 4.0 Container e Computer: la Sfida della Digitalizzazione Lavoro, Infrastrutture, Imprese', Centro Congressi Cavour, 2017 (reperibile qui)
Sennet, 1998: Richard Sennet, Corrosion of Character: The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W.W. Norton and Co, New York, 1998, Trad. Italiana L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, ed. Feltrinelli, 1999.
Simonetti, Violi, Fiorentino e Confindustria, 2018: Un sud che innova e produce, vol. 6: Il valore delle filiere produttive nel nuovo contesto competitivo e innovativo, tra Industria 4.0 e Circular Economy, Giannini Editore, Napoli, 2018. Capp. II (Lucia Simonetti) e VIII (Francesco Violi, Paolo Fiorentino, Centro Studi Confindustria).
Schematizzazione dell’articolo a cura di Alma Valenzuela