Cari compagni, buon Natale… se volete

Anche tra compagni ci si dedica spesso all'uso della rabbia impotente, piuttosto che centrare l'attenzione ai problemi concreti degli oppressi seguendo la lezione di Marx, Lenin, Gramsci e Pasolini.


Cari compagni, buon Natale… se volete

Come ogni anno, la gelida aria cristallina del 24 dicembre arriva accompagnata dal pensiero di porgere gli auguri. Un’usanza che sa un po’ di seccatura perché la mente, stremata dai mille impegni quotidiani, deve ancora sforzarsi per non dimenticare qualcuno ed offenderlo con la trascuranza. Una seccatura ancora più forte per un militante nelle forze socialiste, che deve discernere tra i compagni che aspettano di ricevere il messaggio o la telefonata, e quelli che invece ne risulterebbero irritati.

E così che, nell’attesa che la caffettiera emani i suoi gorgoglii e che l’odore del caffè si espanda dal fornello della cucina fino alle narici sonnolente per ristorare e risvegliare il corpo ancora intorpidito, ci si distrae dal dilemma augurale sperando di trovare un po’ di leggerezza nei social.

Ed ecco qui, invece, che la questione si riaffaccia più preoccupante perché, sotto i post in cui qualche compagno ha desiderato esprimere un pensiero di buon auspicio legato alla ricorrenza feriale, si scatena una lotta a ferri corti tra i compagni che rispondono all’augurio e i compagni che rimproverano l’autore dello scritto, e i suoi sostenitori, per traviare dalla dottrina politica. Come se i partiti politici dovessero occuparsi di religione! Una guerra stupida che fa liberare tutta la bile, la rabbia e l’odio che andrebbero invece riversati nelle lotte sociali.

È in questi frangenti che le membra vengono pervase dallo scoramento prodotto dalla visione di un tale degrado culturale che dilaga fra quelle persone che dovrebbero rappresentare l’avanguardia popolare e spingere le masse alla consapevolezza della propria condizione di sfruttamento e porre le basi per un movimento di riscossa e di riscatto. E invece si litiga e ci si scanna, come acerrimi nemici, divisi in bande barricate nella propria stupidità!

Una cosa che si ripete ogni qual volta un papa, affacciatosi dal balcone di Piazza San Pietro, esterna pensieri contro le ingiustizie sociali. C’è chi riprende quelle affermazioni osannando il pontefice, e chi subito a sparare con la tastiera. Senza preoccuparsi, invece, del fatto che alcune cose sarebbe naturale che fossero proferite anche da noi, ma nella quotidianità e non solo in sporadici discorsi pubblici. Invece si attende la massima papalina e, giunto al culmine il picco degli indici di ascolto di questa, ci si trincera in un mutismo serrato e nel disimpegno a diffondere l’ideale di eguaglianza che sta alla base delle nostre lotte e della nostra esistenza.

Si fanno molte citazioni, per dare, ai contesti descritti, una parvenza di intellettualismo, e chi fino a ieri scriveva per difendere, a spada tratta, il diritto alla libertà di culto solo per far dispetto alla destra nazionalista e conservatrice, oggi si riscopre un intollerante a qualsiasi religione. Ci si è dimenticati la lezione pratica di Gramsci che, pur dichiarando apertamente il proprio ateismo, non perdeva occasione di aprire il confronto col mondo cattolico, ospitandolo anche nelle pagine del suo giornale, conscio che avrebbe coinvolto larga parte di quegli strati popolari lontani dal movimento comunista, ma che con i comunisti condividevano, in larga parte, gli ideali di giustizia ed eguaglianza.

Un po’ come si fa contro i movimenti xenofobi. Si limita l’attività di contrasto, esclusivamente, a rispondere ai capi delle formazioni emergenti della destra, facendogli da cassa di risonanza e rafforzando in tal modo la loro posizione sull’opinione pubblica. Altresì, si marca ulteriormente, a favore di quest’ultimi, la divisione fra popolazione autoctona e immigrati, limitando la battaglia politica ai temi dell’immigrazione, e dimenticando di trattare anche tutto il resto, anziché seguire l’insegnamento di Marx. Il quale suggeriva di unire lavoratori del paese e lavoratori stranieri in un’unica istanza, invece di trattare le denunce di sfruttamento in vertenze separate, privilegiando quelle che fanno guadagnare più visibilità e spingendo i lavoratori dell’altra, per reazione, a porgere l’orecchio ai proclami dei nazionalisti (che poi, a dire il vero, dei migranti e delle condizioni delle tendopoli ci si ricorda solo a seguito di qualche incendio od omicidio, dopodiché queste cose vengono presto dimenticate insieme a tutte le promesse di impegno, e l’extracomunitario viene utilizzato solo come pallottola da sparare contro l’avversario politico). Non di meno, nell’ennesima guerra di parole, polarizzando la discussione su posizioni pro e contro migranti, si spingono molti elettori di sinistra a votare, in contrasto ai nazionalisti, quel Partito Democratico che, giunto al governo, è stato quello che ha prodotto le peggiori politiche sia contro i migranti che contro la popolazione locale in generale attaccando, pesantemente, lo Statuto dei Lavoratori e promuovendo la pratica della contrattualizzazione del lavoro precario, favorendo così i padroni ai quali, anche sotto il governo dem, non sono mancati fiumi di contributi economici per tramite delle casse pubbliche dello Stato.

Ma proprio sui temi del lavoro sparisce l’entusiasmo politico dei militanti da tastiera. Se tutta la verve utilizzata in temi minori (i diritti sociali sono inaccessibili senza le basi economiche individuali derivate dalle garanzie al diritto a un lavoro sicuro) fosse stata utilizzata per difendere il diritto a un lavoro sicuro, e in sicurezza, forse sarebbe stata più dura, per i vari governi alternatisi, sia di centrodestra che di centrosinistra, ridurci allo stato attuale.

Sono poche le polemiche che denuncino l’ampio tasso di disoccupazione coi larghi margini di povertà. Quasi nulla sul tema del lavoro al nero. Inesistenti quelle sull’orario di lavoro che, specie nel Mezzogiorno, consiste in una settimana lavorativa che si aggira tra le 60 e le 70 ore a fronte delle 40 stabilite dalla legge (con salari drasticamente inferiori rispetto alla paga sindacale). Solo il governo in carica, parlando di bonus per l’emergenza pandemica in corso, si è lasciato sfuggire qualcosa sul tema, dicendo che bisognerà pensare anche ai lavoratori al nero, molto diffusi specialmente al sud. Un’affermazione che è passata in sordina, senza critiche, velando in tal modo la sua gravità, perché con questa dichiarazione, lo Stato attesta, esplicitamente, di conoscere il fenomeno e la sua portata, ma di volerlo tollerare ignorandolo e, anzi, aiutarlo anche a sopravvivere, piuttosto che prendere provvedimenti.

Ed in questa situazione, tuttavia, non mancano però le critiche verso molti ragazzi che, per crearsi un futuro stabile e avere un impiego decente, si arruolano nell’esercito o nelle forze di polizia (quanto mancano i discorsi di Pasolini!). Criticati di essere servi del potere, del potere che i contestatori però non si impegnano  ad abbattere impedendogli di continuare a sfruttare ogni essere umano. Quasi quasi che si rimprovera chi, con l’arruolamento, si è soltanto voluto sottrarre al giogo della schiavitù padronale. Un rimprovero perpetuo che non si limita ai casi di abuso, ma è costante, perché si vede negli uomini in divisa il simbolo del potere e su di loro si scarica la rabbia che, vigliaccamente, non si ha il coraggio di scaricare sui detentori del potere, dimenticando che, se consideriamo la tipologia e la pericolosità del lavoro e lo si compara con lo stipendio, anche il poliziotto è uno sfruttato, un uomo sfruttato che risponde agli ordini imposti solo per un pezzo di pane e di sopravvivenza al giorno. Una situazione che dovrebbe capire ogni buon comunista che vorrebbe prendere ad esempio, non dico Pasolini, ma Lenin, che coinvolse ampi strati dell’esercito e delle forze di polizia nel movimento popolare che, impugnando le armi, pose fine all’impero degli zar attraverso la Rivoluzione d’Ottobre e la presa del Palazzo d’Inverno. Così andarono i fatti, con buona pace di coloro che vorrebbero cambiare il mondo disegnando arcobaleni e gridando “peace and love”, ma le rivoluzioni non si fanno urlando frasette rimate in stile post-sessantottino abbinate ad un abbigliamento folkloristico e ad accessori psicotropi quali contenitori di alcolici o sostanze psichedeliche (ah! l’austerità e la serietà dei dirigenti che un secolo addietro fondarono il PCd’I, oggi, latitano!).

Ma forse, l’ho fatta troppo lunga, nonostante i temi trattati vadano di gran lunga approfonditi e molto ancora ci sarebbe da dire e da aggiungere! Questo 24 dicembre, ancora più degli altri giorni, sentirò la mancanza di Pasolini, di Gramsci, di Lenin, di Marx, e di tanti altri. Leggerò, con distrazione, polemiche sterili, senza intervenire e, quando i gorgoglii della caffettiera si faranno più intensi e sincopati, e l’aria sarà impregnata dell’odore del caffè, penserò a tutti voi compagni e, mentre le mie labbra si poggeranno sulla tazzina per saggiare il primo sorso del mattino, vi manderò, con la mente, i miei auguri di buon Natale… se volete.

26/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Gaetano Errigo

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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