Non serbateci rancore se nel caso Bielorussia assumiamo posizioni critiche e in apparenza moderate. Non convince la logica che i nemici dei nostri nemici debbano essere obtorto collo alleati, arrivando a giustificarne l'operato. Possiamo essere dalla parte del popolo palestinese e libanese senza sposare in toto la linea di Hezbollah o dell'Anp, lo scenario è così complicato da indurre anche il più cauto osservatore a discernere il sostegno alle lotte dei popoli dal sostegno acritico verso fazioni etniche o religiose.
Non scomoderemo Marx o Lenin per andare diritti al sodo delle questioni, sarebbe fin troppo facile guardare a quanto sta accadendo in Bielorussia con due posizioni cristallizzate: da una parte i fautori, spesso acritici, delle rivolte popolari senza mai indagarne le cause e i registi, e dall'altra i sostenitori di Lukashenko.
Manca in Italia la conoscenza diretta delle fonti, prendiamo per buoni volantini e comunicati di gruppi ideologici di riferimento o scomodiamo le vulgate tradizionali di correnti comuniste riproducendole ideologicamente e senza mai, o quasi, guardare ai fatti reali.
È innegabile che attorno alla Bielorussia si scatenino appetiti morbosi di multinazionali e paesi desiderosi di accaparrarsi non solo le ricchezze del territorio ma anche il controllo del paese nell'ottica di accerchiare la Russia di Putin. Al contempo i rapporti tra Russia e Bielorussia sono da tempo tutt'altro che sereni.
Le primavere, arabe o di altri popoli, sono state esaltate come processi di liberazione da Governi corrotti e impopolari o finite con il solito bagno di sangue a cui è seguito qualche colpo di stato che ha riportato al potere militari e interessi imperialistici o regionali.
All'interno delle piazze ben presenti sono stati gli interessi occidentali approfittando della richiesta di libertà di stampa mettendo a disposizione dei rivoltosi network e strumenti informativi controllati dai paesi capitalistici.
Valgono, ieri come oggi, i rapporti di forza che da decenni sono del tutto sfavorevoli ai comunisti e non pensiamo che la logica rosso-bruna abbia contribuito a rafforzare il movimento antimperialista. E oltre ai rapporti di forza dovremmo guardare ai collegamenti internazionali che sono alquanto carenti limitandosi a rapporti con collettivi e partiti di riferimento che potranno anche definirsi antimperialisti e comunisti ma potrebbero, dietro alla facciata, nascondere una sostanza ben diversa, di sostegno acritico allo status quo.
Lukashenko non riscuote le nostre simpatie, come gli altri satrapi che al momento della dissoluzione dell'ex-Urss hanno conquistato il potere nei singoli paesi finendo o nelle mani di multinazionali e paesi liberisti oppure optando per una facciata comunista che di comunista ha ben poco.
Allo stesso tempo non possiamo che stigmatizzare la vecchia idea borghese secondo la quale le sole elezioni degne di essere definite democratiche finiscono con eleggere candidati amici dei paesi a capitalismo avanzato. È accaduto nel continente latino americano, avviene oggi in Bielorussia dove gli oppositori del presidente annoverano non solo ambienti vicino all'occidente o qualche lavoratore sovvenzionato dalla centrale dei sindacati filo-capitalisti ma anche settori popolari che potremmo probabilmente definire di sinistra.
Lukashenko anni fa voleva imporre la tassa ai disoccupati, a quanti non totalizzavano un certo numero di giornate lavorative scaricando sulle classi lavoratrici i costi della crisi. Dopo 26 anni ininterrotti di potere, non che la Dc o la Cdu in Germania siano stati meno longevi, gli oppositori di Lukashenko trovano sostegno anche nella pur piccola e frammentata "sinistra" bielorussa, di sicuro minoritaria, anche agli occhi dei media occidentali, rispetto a impresentabili candidati presidenziali alternativi legati mani e piedi all'occidente.
Ma commetteremmo un grave errore nel pensare che la piazza sia dalla parte del torto solo perché sventola bandiere nazionaliste o parole d'ordine occidentali. È altrettanto vero che nel corso della storia scioperi operai abbiano spianato la strada a soluzioni moderate e filo-capitaliste affermando sistemi di potere e alleanze politiche ostili agli interessi delle classi lavoratrici, il caso polacco dovrebbe pur indurre a qualche riflessione. Ma avevano ragione o torto gli operai dei cantieri di Danzica? Se pensiamo che avessero torto a rivendicare libertà e salari dignitosi il discorso finisce qui con il sostegno acritico all'esperienza comunista del secolo passato la cui rapida dissoluzione dovrebbe insegnarci qualcosa.
Da anni in Bielorussia stanno smantellando lo stato sociale, per sopravvivere il paese si è aperto all'occidente, alle privatizzazioni, i salari hanno subito riduzioni del potere di acquisto, la stessa legislazione in materia di lavoro ha contratto gli spazi di partecipazione e di democrazia come dimostra la esclusione, dalla contribuzione a fini previdenziali, dei congedi di maternità e degli anni scolastici\universitari.
Queste decisioni hanno sicuramente alimentato nella classe lavoratrice bielorussa, come nel caso della tassa sui disoccupati presentata nel 2017, una frattura tra Governo del paese e classe lavoratrice, spianato la strada alle privatizzazioni di alcuni settori dell'economia con il contenimento della dinamica salariale.
Di questo i sindacati europei dovrebbero occuparsi, inclusi quelli di base che si sono espressi, acriticamente, a favore della piazza contro Lukashenko interiorizzando una lettura ideologica, e forse filo occidentale, alla base della critica verso il sistema di potere in Bielorussia.
Chi detiene il potere ha goduto fino ad oggi di un sostegno reale, non si spiegherebbe del resto il 60% dei voti per Lukashenko anche se molti dei suoi sostenitori oggi non sono più disposti a tacere davanti a decisioni che indeboliscono il potere di acquisto e di contrattazione della classe lavoratrice bielorussa. Poi possiamo dissentire sulla spontaneità dei movimenti di piazza, documentare le influenze e i finanziamenti dei paesi occidentali o di fondazioni\onlus ad essi legati interessati alla caduta di Lukashenko.
Ma l'errore, a nostro avviso imperdonabile, sarebbe quello di non guardare alla sostanza del problema, ossia al fatto che in quel paese le condizioni di vita delle classi lavoratrici non sono tali da giustificare il sostegno di operai e impiegati al vincitore delle elezioni.
E qualora a prevalere fossero, come nel passato, le posizioni più occidentali e conservatrici, i comunisti dovrebbero solo prendersela con loro stessi, per non essere stati capaci di guidare i movimenti di protesta indirizzandoli verso un programma minimo di classe e a obiettivi di emancipazione delle classi popolari subalterne.
Sono del resto lontani i tempi nei quali, venti anni fa, Lukashenko alzava gli stipendi mensili del pubblico impiego o rifiutava di aprire le fabbriche ai privati, anche questi sono fatti incontrovertibili da analizzare. È venuta meno la vantaggiosa vendita del petrolio russo, oggi Putin impone prezzi assai più alti del passato e questa decisione ha indebolito l'economia nazionale, un argomento che da solo smaschera i luoghi comuni dei rosso-bruni.
E sempre negli ultimi anni da una parte le pressioni occidentali, dall'altra le politiche petrolifere della Russia hanno decretato una ondata di privatizzazioni e di licenziamenti che alla fine ha indebolito il welfare state locale.
Di questo, e non delle posizioni ideologiche precostituite che affondano le radici nelle impostazioni tradizionali delle correnti comuniste novecentesche, dovremmo parlare senza cadere nell'atavico vizio di parteggiare per una fazione riducendo l'analisi critica e il ruolo dei comunisti a tifo da stadio e alle discussioni sotto l'ombrellone nel caldo agostano.