Choosy, bamboccioni, sfigati: è così che negli ultimi anni diversi politici hanno variamente definito la generazione degli attuali trentenni; l’idea è che i giovani tardino deliberatamente a inserirsi nel mondo del lavoro, vivano a casa con i genitori fin quasi alle soglie della pensione e costituiscano un peso per la società. Dopo anni di politiche all’insegna della precarizzazione del lavoro e di tagli del welfare, si scopre che quasi tutto ciò che negli anni della Guerra Fredda veniva considerato un diritto è oggi diventato un lusso socialdemocratico di cui sbarazzarsi, un feticcio religioso che il moderno illuminismo progressista contribuisce a distruggere per far posto alla nuova mistica neoliberale. Il primo idolo da abbattere, naturalmente, è lo stato sociale: come scriveva nel 2010, in piena crisi greca, Alberto Orioli sul Sole 24 Ore, “il welfare state del Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”.
Anche la “cultura” è insostenibile, ci dice Raffaele Alberto Ventura nel suo Teoria della classe disagiata, almeno per come l’abbiamo pensata all’epoca del boom. Per dimostrare questa tesi l’autore elabora la categoria di classe disagiata, una versione più colta e meno volgare degli epiteti di cui sopra. Il nocciolo del ragionamento è presto detto: non c’è abbastanza ricchezza per tutti, il welfare allargato del secondo dopoguerra non risulta più sostenibile ed è quindi necessario ripensare le forme della democrazia. In particolare, è l’istruzione di massa a essere messa sotto accusa: a detta dell’autore viviamo in un paese “iperistruito”, che sotto l’effetto ipnotico di una ideologia fallimentare chiamata keynesismo ha vissuto per anni al di sopra delle proprie possibilità.
Ora però i nodi vengono al pettine, e il saggio di Ventura ci aiuta a fare i conti con il grande rimosso della classe media occidentale: il colonialismo? No, il diritto allo studio. In nome di questo diritto sono state sperperate ingenti risorse e a causa di esso un’intera generazione è oggi sul lastrico: si tratta appunto della “classe disagiata”, che a furia di inseguire l’ideale borghese della realizzazione intellettuale rischia l’estinzione nel breve futuro. Sorprendentemente, nella visione dell’autore, non è il precariato a costituire il maggior impedimento per i giovani a riprodursi, ma la loro terribile ostinazione a studiare troppo e sempre più a lungo. Con la conseguenza che essi sono “troppo ricchi per rinunciare alle loro aspirazioni e troppo poveri per realizzarle”: troppo ricchi, perché nel corso degli anni hanno potuto accumulare un capitale culturale che li spinge a coltivare certe velleità intellettuali, e troppo poveri, perché il loro stipendio (quando c’è) spesso non basta nemmeno per pagare l’affitto e, cosa ancor più grave, i risparmi dei genitori sono stati spesi per finanziarne gli studi. L’unica soluzione a questa impasse consiste evidentemente nella riduzione dei consumi culturali e, probabilmente, in una buona dose di umiltà: non possiamo essere tutti “creativi”, pittori o registi, accademici o musicisti, qualcuno deve pur sfornare il pane.
Certamente, come l’autore mette in luce, esiste un problema legato alla “svalorizzazione dei titoli di studio” causato dalla loro proliferazione: master, tirocini di ogni tipo, stage ecc. contribuiscono da un lato a rendere estremamente macchinoso l’inserimento nel mondo del lavoro e, dall’altro, comportano la rapidissima obsolescenza dei titoli intermedi, con la conseguente svalutazione dei titoli e degli sforzi per ottenerli. Eppure il realismo dell’argomentazione non riesce a nascondere un tono decisamente antidemocratico (“democratizzare l’accesso ai beni posizionali significa semplicemente inflazionarli”) né a evitare il paradosso per cui se da un lato si individua correttamente il dato problematico che “nella maggior parte dei paesi occidentali studiare resta vantaggioso per chi può permetterselo”, nondimeno si finisce per suggerire una forma mitigata di società descolarizzata (secondo una formula di Ivan Illich) in sintonia con la recente proposta governativa di ridurre gli anni scolastici al fine di favorire la produttività. Si tratta di una prospettiva che potrebbe essere definita come “decrescita culturale”; la “corsa ai titoli di studio” genera infatti un fenomeno non molto dissimile da quello della “corsa agli armamenti” – ovvero il rischio della mutua distruzione assicurata -, e la soluzione, in un caso come nell’altro, consiste nel disarmo reciproco: se tutti scegliessimo volontariamente di ridurre i nostri consumi culturali, i nostri titoli di studio ecc., questi ultimi riacquisterebbero il valore perduto.
Eppure, da questo punto di vista, sarebbe il caso di tranquillizzare l’autore del saggio: i numeri dei laureati in Italia sono inferiori a quelli del resto d’Europa, il ricambio accademico è praticamente azzerato grazie a una illuminata politica di non-finanziamento e la disoccupazione giovanile coinvolge anche le mansioni “pratiche”.
In ogni caso, la ricetta di Ventura non è affatto nuova: c’è la crisi, il debito che diventa insostenibile e, naturalmente, l’austerità. Abbiamo studiato troppo e non ce lo possiamo più permettere; fra le righe si coglie la constatazione che la cultura non è per tutti, perché l’istruzione ha un costo. La principale preoccupazione dell’autore consiste nel fatto che il sistema scolastico delle democrazie europee (in questo caso francese, ma si potrebbe generalizzare), ispirato a un’ideologia egualitaria che mira a insegnare agli studenti di ogni estrazione sociale idee e abitudini borghesi, genera nei meno abbienti aspirazioni in contrasto con l’insufficienza dei mezzi a disposizione per realizzarle (“la scuola si prefigge d’inculcare valori e abitudini della classe borghese senza preoccuparsi che questi possano entrare in conflitto con le risorse materiali presenti e future degli studenti”: insegna cioè, dice Illich, a “pensare da ricchi e vivere da poveri”).
E così l’idea dell’emancipazione sociale attraverso una cultura diffusa viene bollata come residuo socialdemocratico da abbandonare se si vuole evitare la bancarotta individuale e collettiva; non è tuttavia ben chiaro come dovrebbe strutturarsi un modello d’istruzione alternativo, anche se la conclusione logica dovrebbe consistere nella necessità di un’educazione differente in base al reddito: solo in tal modo infatti si potrebbe insegnare ai poveri a pensare da poveri (per ribaltare la frase di Illich), il che risolverebbe a monte il problema della “classe disagiata”. Ma l’autore non si spinge a tanto, e si limita a esprimere la sua ostilità nei confronti dello stato sociale tramite allusioni sparse contro “la più sacra delle istituzioni”, cioè il sistema educativo, oppure, citando Ricolfi, contro il “neoumanismo planetario che mira a generalizzare lo status di signore” (nella prima edizione).
Sembrerebbe quasi che Ventura abbia accolto certe preoccupazioni di Nietzsche, il quale, rispetto ai propositi timidamente riformisti delle classi dominanti della sua epoca, scriveva rammaricato che “si è reso l’operaio abile al servizio militare, gli si è dato il diritto di associazione, il diritto di voto: c’è dunque da stupirsi se oggi l’operaio sente già la sua esistenza come una miserrima condizione? […] Se si vuole uno scopo, si deve volere anche i mezzi: se si vogliono schiavi, si è stolti a educarli da padroni”. In effetti anche per Ventura il ceto medio sente con angoscia la “miserrima condizione” della sua esistenza, e ciò proprio in ragione dell’istruzione ricevuta... dal momento che non è chiaro quale sia la conclusione da trarre, ci si limita qui a segnalare la singolare assonanza: nella denuncia delle conseguenze nefaste di una certa sovra-educazione l’autore si trova in ottima compagnia.
Egli ha buon gioco nel mettere in luce la contraddizione fra stato de iure delle massime democratiche e situazione de facto, dal momento che il principio dell’uguaglianza conserva tutt’oggi il carattere formale di una semplice enunciazione. Ciononostante, non si deduce dal testo la necessità di un lavoro (politico) sulla realtà concreta, poiché “cambiare il mondo suona ormai al di là delle nostre possibilità”; piuttosto, si avverte con urgenza il bisogno di una decostruzione critica dei “pericoli della democratizzazione”, ovvero dell’ideologia che condanna gli uomini a una logorante “rivalità degli eguali”. Come sostiene Enrico Pitzianti sul Foglio, l’autore de La teoria della classe disagiata punta il dito contro “il lato oscuro dell’uguaglianza”, e tanto basterebbe per inquadrare correttamente l’interesse di classe che Ventura difende, al netto delle citazioni di Marx e delle requisitorie dal sapore francofortese contro la massificazione della cultura.
L’origine di questa ideologia “universalista” si afferma storicamente, secondo l’autore, con il ’68. La contestazione coinvolge infatti non soltanto la morale e i costumi, ma anche la gerarchia di una società rigidamente divisa in classi; da qui in poi, si potrebbe aggiungere con il verso di una famosa canzone, “anche l’operaio vuole il figlio dottore”, senza nemmeno mettere in conto i pericoli economici che l’uguaglianza comporta e di cui ci rende accorti la lettura de La teoria della classe disagiata. La rivoluzione culturale del ‘68, sostiene Ventura in una precedente versione del libro, consiste nell’idea che “tutti dovranno vivere e pensare come dei borghesi, ed essere nel loro piccolo artisti o filosofi, anche a costo di rovinarci”. Se la critica ai presupposti teorici del ’68 (che ormai da diversi anni costituisce quasi un genere saggistico a sé) ha messo in luce il carattere tragicamente contraddittorio del ribellismo velleitario di una larga parte del movimento studentesco, nondimeno bisogna sottolineare, in opposizione a quanto affermato dall’autore, che non sta di certo nell’aspirazione democratica il problema ideologico di fondo del ’68. Certamente, come è noto, l’eredità della controcultura libertaria è stata produttivamente impiegata negli slogan pubblicitari del tardo capitalismo; tuttavia rimane quantomeno parziale indentificare tout court il ’68 con le rivendicazioni delle facoltà occupate, quando esso costituì anche lo stimolo per una stagione di spiccata combattività operaia e di importanti conquiste sindacali. Ventura non sembra tenere in considerazione questo aspetto quando afferma che “resta il problema di come finanziare tutto questo desiderio liberato” e, sulla scia di una lunga tradizione, finisce per tacciare di “insostenibilità” le politiche redistributive frutto di legittime lotte sociali, che “non sappiamo più come finanziare”.
Dopo avere sbrigativamente ricondotto la retorica del desiderio al keynesismo, l’autore procede a dimostrare che si tratta in entrambi i casi di un “modello di crescita del tutto irrealistico”. Come infatti lo “sviluppo ipertrofico dello Stato aveva iniziato a produrre nuove disfunzioni”, così l’ideologia del ’68 aveva gettato le basi del nuovo immaginario edonistico, con l’effetto di contribuire allo sviluppo di una ideologia del consumo materiale e immateriale impossibile da sostenere. In realtà, a ben vedere, questa equazione non regge, per il semplice fatto che la contestazione studentesca aveva le sue radici nella critica dell’autorità, quella dei padri e quella dello Stato, della morale e della religione, a cui soltanto in un secondo momento sarebbe seguita la liberazione del desiderio. Ora, se il keynesismo è una forma di capitalismo di Stato che vede proprio nell’intervento pubblico il suo maggiore motore di sviluppo, è evidente che la controcultura libertaria si rivolgeva precisamente contro questo modello, e non può quindi in alcun modo costituirne la forma ideologica (si pensi ad esempio a Michel Foucault, uno dei più aspri critici delle ambiguità del welfare state).
Per rimanere nel campo degli esempi letterari frequenti nel libro, si potrebbe dire che Julien Sorel, protagonista de Il rosso e il nerodi Stendhal, si trovi esattamente nella condizione descritta da Ventura: figlio di un falegname, egli è troppo povero per coltivare le proprie ambizioni politiche e intellettuali. Nella sua situazione l’unico modo per scalare la società (oltre alla professione militare) è costituito dalla carriera ecclesiastica, per la quale tuttavia non nutre alcuna vocazione. Nonostante riesca effettivamente a ottenere un titolo nobiliare, egli finirà per soccombere sotto il peso delle condizioni oggettive di una società francese in piena Restaurazione. Ventura probabilmente direbbe che fu a causa delle sue aspirazioni, e se Julien Sorel avesse continuato a fare il falegname, come suo padre, non sarebbe finito sulla ghigliottina. E in effetti la lista di vittime della cultura potrebbe continuare; mentre però prima si rischiava la condanna a morte, oggi siamo invece destinati al declassamento, solo che non che ne rendiamo conto. L’amara conclusione, tratteggiata per accenni e allusioni mai del tutto esplicite, è una sola: a inseguire l’ideale di una “improbabile” emancipazione sociale si finisce per sollevare pericoli ancora maggiori, dal momento che “le parole d’ordine di questa nuova società”, ovvero libertà, eguaglianza e fraternità, “sembrano condannarci a una competizione senza fine”.
Un accenno particolare merita poi l’uso sbrigativo del termine “classe”: Ventura non ritiene infatti di dovere sostenere la sua analisi con un dato empiricamente verificabile (quanti sono, dati alla mano, i membri effettivi di tale classe parassitaria e improduttiva?) né approfondire la composizione strutturale di questa ipotetica classe disagiata, il cui minimo comune denominatore consiste nell’immaginario condiviso costituito da simboli e aspirazioni ricorrenti, come in un recente saggio dedicato all’analisi della aspirational class (The Sum of Small Things: A Theory of the Aspirational Class di Elizabeth Currid-Halkett). Questa categoria, data del tutto per scontata, non riflette in alcun modo una classe, semmai un insieme di individui accomunati da un generico capitale culturale e da una non ben determinata mansione intellettuale. Inoltre, si potrebbe dire con Simone De Beauvoir, classe disagiatanon si nasce, ma si diventa: in altri termini, chi decide di diventare gallerista o architetto farà quasi certamente parte della classe disagiata, mentre chi decide di investire il proprio tempo in una gravidanza probabilmente no – e ciò indipendentemente dal contesto sociale in cui queste scelte si svolgono. Va da sé che un’ipotesi di questo tipo finisce per occultare sistematicamente ciò che in realtà vorrebbe contribuire a spiegare, dal momento che la “classe” di cui si tratta nel saggio è un gruppo definito unicamente da una determinata riserva di riferimenti ideali e non da una qualche omogeneità economica. E proprio qui sta, a ben vedere, la debolezza più evidente nell’intero ragionamento. La categoria di classe disagiata infatti, per quanto suggestiva a livello simbolico, non regge sul piano analitico: non solo non è chiaro quali siano le mansioni intellettuali “improduttive” che la caratterizzano, ma soprattutto non si capisce in che modo due individui che attingano a due patrimoni quantitativamente del tutto diversi (mettiamo ad esempio, il figlio di un manager e il figlio di un commesso) dovrebbero appartenere in linea di principio alla stessa classe, per il solo fatto di desiderare la stessa cosa (mettiamo, una carriera accademica).
Ventura sostiene poi che la classe disagiata sia pervasa da un infruttuoso “ottimismo irrazionale”, cioè da una visione incantata del mondo, che è invece tutt’altro che pronto a fornire uno stipendio in cambio di una sceneggiatura ben scritta. Ora, se Gramsci com’è noto contrapponeva ai sogni idealistici un ben più concreto “pessimismo della ragione”, Ventura nel suo libro porta avanti un radicato “cinismo della ragione”, a cui evidentemente segue una forma di “pessimismo della volontà”, che altrove ha identificato nel coraggio della rinuncia: “Io ammiro molto quelli che si tirano fuori, a ogni livello del loro percorso. Quelli che hanno famiglie borghesi ma non s’iscrivono all’università. Quelli che iniziano e poi decidono che vogliono andare a fare i cuochi o i liutai. Quelli che fanno i figli a ventidue anni” (http://www.bastonate.com/2017/09/07/raffaele-alberto-ventura/). In diverse occasioni l’autore individua giustamente nelle classi subalterne che decidono di entrare nel gioco a somma zero dell’accesso “ai lussi dello spirito” le vittime principali del meccanismo di svalutazione complessiva del capitale culturale proprio perché, com’è ovvio, in queste condizioni “studiare costa sempre di più”; eppure, anziché riflettere sulle condizioni di un ampliamento sociale dei benefici legati all’istruzione (ipotesi bollata nella prima edizione del saggio come “speranza emancipatrice” e “illusione crudele”), egli ritiene più vantaggioso per le classi inferiori il tirarsi fuori da questa competizione. Anche qui, si tratta dell’ideale di una riduzione volontaria del proprio capitale culturale in favore di una non meglio specificata attività pratica, il che solleva alcune questioni. In primo luogo è tutto da dimostrare che così facendo non si corra il rischio del “declassamento”, ovvero il pericolo più immediato, secondo Ventura, a cui è esposta la classe disagiata; inoltre, sembra evidente che questo tipo di rinuncia riguardi non tanto le famiglie borghesi, i cui patrimoni possono garantire la continuazione degli studi senza troppe difficoltà, quanto piuttosto coloro che partono da una condizione di svantaggio economico, per i quali scommettere su un futuro precario risulta ancora più rischioso. Indubbiamente il saggio costituisce una efficace narrazione della condizione di stallo di una parte della generazione millennial, per quanto rimanga al livello di una semplice critica dell’immaginario, mentre risulta molto sospetta l’idea che la rinuncia individuale costituisca di per sé una forma di resistenza praticabile. Il prototipo del comportamento virtuoso, per Ventura, suona come un invito dal tono paternalistico alle classi meno abbienti a rinunciare alle ambizioni che possono essere soddisfatte solo da un numero ridottissimo di individui - che probabilmente abitano nel centro di Roma o di Milano - e il cui diritto naturale a essere élite viene costantemente minacciato da un “esercito di riserva dei disoccupati sovraistruiti”.
Le problematiche affrontate si inseriscono all’interno di un quadro macroeconomico più generale, dal momento che il saggio si struttura su due piani: il primo privilegia una lettura di lungo periodo e si mantiene al livello di una critica sistematica dal sapore catastrofista, per cui il capitalismo in crisi non può essere riformato in alcun modo e non rimane che aspettare il collasso definitivo nel futuro prossimo, mentre il secondo piano si concentra sulla fenomenologia della classe disagiata, che è poi il vero oggetto dell’indagine. Nel complesso, si ha la sensazione che l’impalcatura teorica che vorrebbe fornire sostanza all’analisi del “ceto medio impoverito” rimanga sullo sfondo in modo disorganico: mentre infatti il tentativo di contestualizzare la critica dell’immaginario millennial all’interno di una riflessione macroeconomica risulta convincente in particolare nel mettere in luce la radice coloniale della ricchezza occidentale, ben più problematica appare la conclusione, ispirata a una forma di apparente pragmatismo, di una insostenibilità dei consumi culturali sulla base delle disfunzioni strutturali dell’attuale sistema economico.
Rimane da capire perché questo libro, salutato da più parti come manifesto di una generazione alla deriva e insieme tentativo di fare i conti con le proprie responsabilità soggettive, pur rimanendo nei fatti una riflessione implicitamente ammiccante all’ideologia delle élite liberali europee (come si vede, ad esempio, nel ricorso acritico all’austerity come esito inevitabile dell’”incapacità strutturale delle nostre economie tardocapitaliste e postindustriali di produrre ricchezza”, nella rivalutazione delle ragioni dei creditori, nelle allusioni contro il “sancta sanctorum del posto fisso” ecc.), riscuota un certo successo soprattutto in ambienti di sinistra, dove si cerca deliberatamente di non vedere l’elefante che si aggira per la stanza. La risposta probabilmente risiede nella capacità di fotografare con estrema precisione una parte del disagio esistenziale della generazione definita “choosy” fornendo, come è stato sottolineato, “una narrazione – qualsiasi narrazione” (https://www.che-fare.com/valerio-mattioli-33780-battute-contro-la-teoria-della-classe-disagiata/), sebbene, bisogna aggiungere, si tratti di un autoritratto spesso compiaciuto e soddisfatto del proprio spleen. Se le cose stanno così, si può dire che abbiamo fatto rientrare dalla finestra ciò che con il postmoderno avevamo fatto uscire dalla porta: se proprio quella della classe disagiata rappresenta una narrazione, si tratta allora di una narrazione colpevolmente parziale, che vede nella rinuncia e nella resa volontaria gli strumenti necessari di una liberazione possibile. Si dà il caso però che i soldati in prima linea nella crociata della “decrescita culturale” siano in questo caso i rappresentanti delle classi subalterne, i quali secondo l’autore gioverebbero prontamente dei benefici legati all’abbassamento dell’età scolare e alla riduzione dei consumi culturali (il che significa: meno spesa pubblica), mentre per i (pochi) figli dei ricchi la cultura sarà sempre sostenibile, almeno nella forma di un investimento privato.