Stud pensa nell’angolo (seconda parte)

Il suono della campanella decreta la fine di un round e l’inizio dei ricordi di Stud, pugile di 41 anni. La voce del padre operaio lo richiama all’importanza dell’istruzione, l’unico mezzo attraverso il quale si può sperare in qualcosa di più che una vita di stenti. Scorre il tempo che si fa storia, nella patria della libertà ineguale, con i suoi miti, il suo vangelo del dominio, che ingabbia l’uomo e le sue potenzialità, ingaggiando una lotta ben diversa da quella del ring.


Stud pensa nell’angolo (seconda parte)

Segue dalla prima parte.

Round 6

Capisco.

Il caprone se ce ne ha ancora da dare, deve far crescere un po’ quelli di Thompson.”

E a me è andato bene tutto. I soldi mi servono per pagare le rate. Non so quante, ma ne ho ancora da pagare.

Ma tu Bobby, che mi conosci da prima di mia moglie, con la quale ho passato meno tempo che con te. Che ho fatto da padrino a due figli tuoi e tu a uno dei miei. Tu Bobby, gli potevi almeno dire a quello stronzo fricchettone che caprone lo dice a un balordo dei suoi?

Capisco.

A 41 anni devo prendermi un po’ di colpi di questi puledri in ascesa e con tempesta ormonale in atto, se voglio pagare quelle stramaledette rate.

Ma cosa c’entra il caprone?

Io devo pagare le rate Bobby e mi sono tenuto il caprone – anche se il pugno l’ho stretto così tanto sotto il tavolo, che le unghie mi si sono conficcate nel palmo.

Ma tu? Certo, lo conosco il ritornello: siamo nella stessa barca, ecc…ecc…Figlio di puttana. Ma tu hai pagato tutte le rate di quella cazzo di casa. Hai da parte il gruzzoletto. Mettendoci pure la piccola pensione che prenderai come allenatore e tirando le somme, ci puoi campare, no?

E allora per principio, ecco, me lo aspettavo da te. Ora mi guardi mentre il tampone mi gonfia il naso – ehi Tom non è il naso di un orango, non ne entra più – con degli occhi lacrimosi. Quasi come quando sentisti che ce l’avrei fatta contro quella furia di argentino. Lo sentisti eh, Bobby?

Il fatto è che tu vedevi quel ragazzo che avevi cresciuto tra la puzza della palestra e la carne e le uova che ti toglievi di bocca pur di fargli mangiare qualcosa che servisse a far sviluppare i suoi muscoli.

E sentivi dentro te che quel ragazzo di 24 anni era proprio pronto per la sua occasione. Lo sentivi.

Quello che non sentivi era la voce di mio padre. Perché era dentro me Bobby. E mi chiedeva se avevo fatto tutti i compiti. E prima di dirlo prendeva sempre fiato, neanche dovesse fare un’immersione nel lago.

L’argentino ne aveva prese tante quel giorno. Non avevo la tua certezza, ma, come è che si chiama? Ah già, il calcolo delle probabilità. Avevo buone probabilità Bobby, questo sì. Ma non significa che avrei vinto, anche se la voce di mio padre non si fosse fatta sentire. Perché sono probabilità. E quando il prof ci faceva l’esempio di un’urna contenente 100 palline, di cui 1 sola bianca e il resto nere, io mi alzai dicendo che era vero quello che diceva lui, che probabilmente uno di noi bendato avrebbe preso al 99% una pallina nera, ma c’era sempre la possibilità che pescasse quell’unica bianca. Lui mi guardava e mi diceva che in quel momento non era importante ai fini, ai fini, com’è che diceva quel tizio inamidato. Beh era qualcosa che aveva a che fare col concetto e con l’uscire fuori tema. Forse tre riprese fa lo avrei ricordato. Ma adesso, sai Bobby – datti un contegno Cristo! – non ricordo più. Non riesco a guardarti con quella faccia lì Bobby. Mancano ancora nove riprese. Meglio che guardi Tom. Ehi Tom tu non senti niente perché riesco solo a respirare a bocca aperta. Ho fame d’aria Tom. Nella mia testa però ti parlo Tom.

Tom il solitario. Tom senza nessuna donna che lo aspetta a casa. Tom il misterioso di cui si sa poco e quel poco è pure tutto confuso. Ehi Tom chissà se arriviamo a mille, se conto le parole che ti ho sentito dire. No Tom, non le ho contate. E adesso non ci riuscirei proprio. Anche le rate che devo pagare si accatastano fino ad un certo punto nella mente, poi si perdono nel vuoto.

Vai Tom. Vai e butta un po’ d’acqua sulla faccia.

Round 7

Dovevamo festeggiare la vittoria che mi dava la possibilità di arrivare all’argentino. Bobby era al settimo cielo e ci portò tutti al ristorante “Meraviglie d’Oltreoceano”, tutto pitturato d’oro e tanto caro quanto pacchiano.

Tu eri felice per quanto uno lo possa dire guardando la tua faccia sempre uguale, Tom. Ma già un po’ di quella felicità era volata via, vero Tom, quando Bobby disse che era una parola francese quella che aveva pronunciato e calcò la mano dicendo - la Francia sai Tom? In Europa, lo champagne, le ballerine al Moulin Rouge. Le hai mai viste gambe dritte tu, Tom? - Così disse, lo ricordo bene, molto meglio del numero di rate.

E tu diventasti più serio, come quando devi svolgere i tuoi compiti. O gli ordini di Bobby che è lo stesso, anche se nel tuo lavoro, ormai sai tutto a menadito e un secondo come te, se lo sognano anche quelli che ambiscono alla cintura. Sì e te lo confermo, anche se tu non puoi sentirmi, perché non ce la faccio neanche a dire sì a Bobby che adesso si è ringalluzzito e si agita con le sue direttive. E io gli faccio sì con la testa, come mia madre quando diceva al vecchio che aveva sentito che il figlio di George era al verde.

Arrivò poi quel cameriere e chiese se eravamo pronti per ordinare. Appena un filo di voce e ti sentimmo dire - Hamburger e abbondanti patate.

E lì per te, quel che rimaneva della gioia della giornata, andò fu annientato. Bobby ti guardò col sorriso già pronto. Ma aspettò qualche secondo. Deve esserti sembrata una vita, eh Tom?

Tu guardasti il cameriere e poi la tovaglia e con la mano seguivi i ricami mentre Bobby ti diceva che non eravamo al fast food di fronte alla palestra. Che se avevi bisogno di un aiuto con il menu, potevi tranquillamente chiedere a lui e che il signore avrebbe pazientato qualche minuto se tu non eri pronto – e qui anche il cameriere ti guardò con un po’ di cortese alterigia, imbaldanzito dalle parole di Bobby.

Ma io ti capii sai Tom? Tu lo avevi fatto per non dare fastidio. Per pesare sul conto, poco come la tua discreta presenza in palestra o sul ring.

Una volta tirai avanti fino alle due e Bobby ti impose di seguirmi. Tu ti addormentasti. Figurati, non l’ho mai detto al brontolone. Ed io ti osservai. Sembravi un bambino. Poi d’improvviso iniziasti a parlare nel sonno. Sì Tom, nelle mille parole che ti avrò sentito dire sono conteggiate anche quelle.

Mamma. Mamma, Buck.

Poi facesti una pausa. Forse nel sogno stavi ascoltando la risposta. Poco dopo riprendesti.

Mi fa male mamma. Tanto male. Ed ha un brutto odore.

Non so chi sia questo Buck. Nessuno sa niente di te, tranne che un giorno arrivasti con la corriera dal tuo paesino di vattelapesca.

Il reverendo ti ospitò per una paio di settimane e tu facesti lavoretti nei giardini di qualche cittadino di buon cuore. Poi Bobby ti prese con sé. Cercava uno per pulire i cessi, mettere in ordine, e soprattutto aprire e chiudere la palestra, quando lui non poteva. Iniziò a fidarsi di te, vide che lavoravi come un mulo senza lamentarti mai, che non avevi famiglia e distrazioni e così decise di iniziarti – già disse proprio così – ai segreti del secondo. E da allora su e giù per le scalette del ring, con quel forsennato che su tre parole te ne diceva quattro poco gentili.

Sai, la zucca ce l’ho sempre avuta buona nonostante i colpi presi. Ed io ho pensato che ti hanno terrorizzato tanto. La paura te l’hanno messa dentro.

Poi ti sei ritrovato così bello e fatto. Uno stomaco adulto da riempire. Un barbiere da pagare per non essere arrestato come barbone. E ti hanno detto, che fai lì imbambolato Tom? Ma di cosa hai paura Tom? Schiodati! Nessuno ti da’ niente su questa palla impazzita nell’universo. Ma tu la paura ce l’avevi dentro. Non bastava un’esortazione a farla svanire. Sarebbe stato come toglierti un organo vitale e poi dirti: ed ora che fai muori? Continua a vivere e a sbattere il culo anche senza polmoni.

Ma ora Tom, mi serve il tuo braccio. Le gambe mi sorreggono ancora, ma devo essere già dritto. Quindi aiutami, come sai fare tu. In silenzio.

Round 8

Oooh. Mmmm.

Già. Ehi. Sì. Acqua, aria. Sì.

Quarantuno meno ventidue. Può essere mio figlio?

Un figlio che le dà al padre. Ah, ah, ah.

Però questo giovane toro ha troppa fretta. No, non continuerò dicendo “come tutti i giovani d’oggi”. No. Non la sopporto quella frase di accompagnamento. Io ero un “giovane d’oggi” di vent’anni fa. Ma non mi sentivo accomunato così strettamente ad una massa di cui conoscevo solo lo spicchio infinitesimale del mio paesello. Ero io. Ascoltavo dischi che per gli altri erano già vecchi. Per i film invece ero aggiornatissimo.

Ero giovane e vecchio nello stesso tempo. Come tutti, forse. Ehi non fare filosofia. Un caprone filosofo. Ah, ah, ah.

Vedo di nuovo la sagoma del vecchio. Hai ancora qualcosa da dirmi, papà?

I compiti? Li ho fatti i compiti, papà. Ho continuato a farli anche dopo che ti abbiamo accompagnato al cimitero, funerale di terza classe. A quelli come noi non spetta più di un mazzo di fiori di plastica e un uomo vestito di grigio che ti dice parole stereotipate e guarda continuamente l’orologio, perché ne deve fare altri tre di viaggi stamattina per sbarcare il lunario.

E mica ce l’ho con lui, con il becchino. No. Penso che anche lui avrà una moglie come Cecily, forse un po’ più chiacchierona. Avrà anche lui dei figli. Un primogenito a cui dirà di fare i compiti. Di farli bene se non vuole tirare a campare come lui, che ogni giorno per vivere deve ricordarsi della morte. Guardarla bene nella sua faccia più definitiva. Da vicino, come la barba da togliere per chi paga l’extra e vuole “un viso liscio come quando mi aspettava all’altare” o ancor più vicino, con gli occhi strabuzzati a cercare un pelo sotto una narice da cui non esce più un filo d’aria. Nel dolore sempre uguale di case dagli odori sempre diversi. Nei pasti più appetitosi che ti aspettano a casa, preparati da una moglie più chiacchierona di Cecily che sta attenta alla gastrite e ha paura che i vestiti si sfilino di dosso per la magrezza - ma è che un becchino grosso da fastidio, è invadente-. Ma lei ribatte che non sono solo un becchino, che c’è la vita attorno. Ma io non le rispondo, lei è più chiacchierona di Cecily - ma chi sarà mai questa Cecily – e allora lo dico a me. Che più la vita mi circonda e più mi sento becchino. E immagino queste facce che ridono di terrore uscendo dalle montagne russe, mentre si imbiancano rigide con le mani giunte, stridendo col colore vivace del miglior vestito – come quando mi aspettava sull’altare -. E noto quel tizio che mi ha guardato sussurrando alla fidanzata qualcosa su di me. Come se non sapessi che ha detto che secondo lui con questa faccia, mentre tutti si divertono al luna park, non posso che fare il becchino. O al massimo un assicuratore. Ma del ramo vita, qualcosa insomma di definitivo. Vita o morte. Non come quelli del ramo danni. Sai quelli sono come zio Charlie, sì quello simpatico. Sono venditori. Con la battuta facile. Chiacchieroni incalliti, l’opposto di Cecily – chissà perché mi è venuto in mente questo nome.

Ma ho da fare l’ottavo – Cristo ancora l’ottavo – e come un filmato rivisto all’indietro, tutti rientrano in quella fessura da cui sono usciti.

Lo zio Charlie e la sua mano sudaticcia e il sorriso perenne da cartolina natalizia, il ragazzo del luna park che abbraccia la ragazza, la guarda, le tocca il culo – dai George c’è un bambino lì – e ha l’espressione di uno che soppesa soddisfatto la mercanzia, il becchino che immagina il suo funerale e spera che non gli capiti uno grosso, perché non va bene uno grosso vicino al suo corpo rigido, e poi Cecily, il vecchio, e quel bambino di dieci anni che ammira il padre che si spezza la schiena ma è un testone che non capisce che già quella è proprio una gran cosa, altro che Mister Fantastic, che viene disegnato quando compie un gesto eroico, quando salva l’intera città dai cattivi, ma poi negli altri giorni che fa? Ed ha problemi a pagare le bollette? A volte deve rinunciare al pollo nel fine settimana? Ed io posso studiare papà, fare i compiti, diventare anche ingegnere aerospaziale, ma se non entrerò da quella cazzo di porta con la tua dignità, beh allora sarà stato tutto inutile.

I compiti li ho continuati a fare papà, ti dicevo. Li ho fatti allenandomi tutti i giorni e a volte di notte. Stando attento al mangiare. Bere un cicchetto solo a capodanno. Ed ogni volta che mi venivano meno le gambe e il fiato io pensavo alle tue mani piene di tagli, calli, macchie di nero ormai permanenti, che seguivano le righe dei libri e dei quaderni, forse solo fingendo di capirne le parole, mentre avresti voluto buttarti sul divano, magari direttamente a letto.

Li battevo i miei avversari. Ma non facilmente. Grazie al lavoro, papà.

Quale lavoro: due uomini che si picchiano in mutande?

Fu la sola cosa che dicesti quando ti comunicai che quella cosà lì, sì insomma, la palestra di Bobby, quella dove ero andato tutti i giorni dell’anno tranne la domenica e le feste comandate, sempre dopo aver fatto i compiti, a volte per tornare la sera stanco e mangiare senza fame la giusta quantità di tutti i santissimi valori nutrizionali, anche in quelle sere d’inverno in cui il gelo penetrava facilmente il vecchio cappotto militare di chi sa quale cugino, che mi arrivava fin quasi ai piedi all’inizio e sembrava poco più di un giubbino alla fine, un gelo che mordeva la carne delle cosce passando tra i buchi di una tuta in cui erano più i rammendi di Cecily che il tessuto originario.

Ecco quella cosa lì io volevo farla per sempre. Cioè fin quando mi era possibile fisicamente. Insomma avevi capito, volevo farla come…lavoro.

Due uomini che si picchiano in mutande?

Una sola volta venisti a vedermi. Chissà quanti sforzi avrà dovuto fare la silenziosa Cecily per parlare e convincerti. Forse sarà stato proprio il disorientamento di apprendere che aveva tutte quelle parole in corpo la tua donna, che tu trovavi ancora bella e desideravi i sabato sera, quando ci era permesso di stare fuori un po’ di più e i piccoli non si spiegavano quello spreco di un gelato in inverno, mentre i ragazzini sorridevano dandosi pacche immaginando di sapere più cose di quelle che conoscevano e i grandi erano in silenzio. Io ero più in silenzio di tutti e mentre ne approfittavo per allenarmi al sacco che avevo appeso all’olmo, pensavo che era proprio bello. Ma proprio bello. Che tu fossi ancora innamorato della mamma e lei di te. Cioè non fraintendermi vecchio. Tu e la mamma eravate sempre i più belli per me. Ma eravate molto diversi dalla foto che campeggiava sull’unico mobile degno di portare questo nome e in cui sorridevate allo zio Fred, il giorno delle nozze. Ed io leggevo di quell’attore bellissimo che dopo tre anni lasciava quella diva fantastica. Di quel giornalista famoso che si separava dalla moglie, la famosa scrittrice. Nel nostro quartiere il gioielliere Folkstein aveva perso la testa per una ballerina, dicevano le mamme allo studio del dottor Perkins. Invece di ringraziare Iddio di aver trovato una brava ragazza, più giovane di lui di dodici anni, bella, dolce, intelligente, che gli manda avanti la casa meglio di una serva - non mancavano mai di aggiungere sempre le mamme in attesa, mente il dottor Perkins usciva e diceva di star zitte che quello non era un posto per fare pettegolezzi. E loro aggiungevano, sottovoce questa volta, - già certo, perché si tratta di un uomo, come lui. Tutti pronti a calarsi i calzoni al primo frusciare di gonnelle e poi magari a spettegolare, loro, della stessa ragazza, al circolo o mezzo andati al bancone del bar.

Continua sul prossimo numero.

12/08/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Sergio Cimino

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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