Quando il fine pena è mai. Ripensare l’ergastolo

Alcune considerazioni sull’utilità e legittimità dell’ergastolo, anche dopo i recenti fatti di cronaca che parlano di suicidi, violenze, sopraffazioni dietro le sbarre, perché la vita in carcere non sia una vita a perdere, ma un vero percorso rieducativo per il reinserimento sociale del condannato.


Quando il fine pena è mai. Ripensare l’ergastolo

Pubblichiamo l’articolo di Ciro Cardinale, sebbene la nostra redazione non si sia confrontata ancora sul tema dell’ergastolo. Avvertiamo quindi il lettore del fatto che l’opinione in seguito riportata non condensa la posizione della redazione (che, qualora dibatterà sull’argomento, potrà pur sempre convenire con C. Cardinale), ma quella dell’autore. Auspichiamo pur sempre che il seguente scritto possa essere fonte di interesse e riflessione.

Tra le ultime vicende che hanno occupato di recente le prime pagine dei giornali e dei siti web, ci sono anche quelle che riguardano il mondo penitenziario [1], con le cronache dei suicidi in carcere di detenuti e poliziotti penitenziari, delle proteste, dei vari episodi di violenze di diverso tipo che si verificano sempre più spesso dietro le sbarre, o delle possibili soluzioni offerte dal Governo o dai parlamentari di diverso orientamento politico. Esse pongono all’attenzione dell’opinione pubblica sempre più prepotentemente un problema che riguarda la giustezza della pena detentiva, la sua modalità di espiazione, la sua durata e la gestione dell’universo penitenziario in generale, anche (e soprattutto) in connessione con la finalità rieducativa assegnata alla pena dall’articolo 27 della nostra Costituzione. Tutto questo assume una veste del tutto particolare quando il fine pena è mai, come nell’ergastolo, sulla cui legittimità occorre ritornare a discutere, specialmente oggi, col sistema penitenziario in crisi che pone problemi di coerenza tra la finalità rieducativa della pena e le modalità della sua esecuzione.

L’ergastolo, un po’ di storia. Come ci ricordano anche gli studiosi [2], fino al XVI secolo il carcere era solo un luogo di custodia, non di pena, perché questa per definizione era la pena di morte, detta anche pena capitale, dal latino caput, essendo essa la prima, la più importante delle pene che potevano essere inflitte a chi commetteva un reato. L’ergastolo, dal latino ergastulum, indicava invece un luogo di lavoro forzato, dove un privato cittadino poteva tenere rinchiusi in catene per punizione gli schiavi che si erano comportati male. Quando non si ricorreva alla pena di morte, perché magari il reato commesso non era poi così grave da essere punito con la vita, secondo il dettato biblico “occhio per occhio, dente per dente” [3], oppure perché si voleva essere più clementi, si tendeva invece ad aggredire il patrimonio del colpevole, con la confisca dei suoi beni, o il suo corpo, con la tortura, le pene corporali, il bando o l’esilio. Ad un certo punto però la Chiesa e gli studiosi di diritto canonico posero in dubbio la giustezza della pena di morte, ritenuta troppo crudele ed eccessiva, anche alla luce della morale cristiana, puntando invece alla reclusione a vita come misura alternativa alla pena capitale, con l’idea che isolare per sempre il colpevole di un reato dalla società lo avrebbe spinto a riflettere sul male inflitto agli altri e a pentirsi, riavvicinandolo così a Dio. In questo modo gli si salvava l’anima e pure la vita. Ma abolire la pena di morte non fu così facile, finché non arrivò l’Illuminismo e con esso l’idea che lo Stato ha dei limiti e non può fare tutto ciò che vuole. La pena di morte venne allora progressivamente sostituita da un suo surrogato, il carcere a vita, considerato una pena più umana rispetto a quella capitale. Ma è davvero così? Essa col tempo è stata infatti caricata di tante e tali sofferenze aggiuntive che, paradossalmente, qualcuno ha rivalutato la pena di morte e la sua crudele ma istantanea azione esecutiva; anziché fare morire il condannato poco alla volta, giorno dopo giorno, lasciandolo rinchiuso per tutta la vita nel profondo di una cella buia, umida, senz’aria, con poco cibo e acqua e i ferri ai polsi e alle caviglie, senza alcuna possibilità di venirne fuori e perpetuando in tal modo la sofferenza [4]. Ma, nonostante tutto, oggi la pena detentiva perpetua ha surclassato di gran lunga quella capitale, ormai quasi del tutto sparita, almeno nei cosiddetti Stati democratici [5], mentre aumentano sempre più le condanne al carcere a vita e le leggi che prevedono reati punibili con esso, tant’è che appare necessario oggi rivederne criticamente la sua funzione e la sua concreta applicazione, alla luce anche della finalità rieducativa assegnata alla pena dalla nostra Costituzione repubblicana.

L’ergastolo in Italia. Nella nostra legislazione penale l’ergastolo compare nel 1889 all’interno del codice penale Zanardelli come pena massima applicabile ai criminali, dopo l’abolizione della pena di morte. Il successivo codice penale Rocco del 1930, voluto dal Governo Mussolini e ancora oggi in vigore, pur se emendato e aggiornato, reintroduce la pena di morte (abolita poi di nuovo nel 1944), dando inizialmente all’ergastolo un ruolo secondario. Oggi la pena detentiva perpetua - la pena più grave applicabile - si può infliggere solo per i delitti più gravi, come l’omicidio aggravato, la rivelazione di segreti di Stato a scopo di spionaggio politico o militare, la strage che provoca la morte di una o più persone, il sequestro di persona a scopo di estorsione seguito dalla morte del sequestrato, ed altri. L’ergastolo è caratterizzato dalla sua perpetuità (il c.d. fine pena mai), dalla sua esecuzione in appositi stabilimenti, le case di reclusione, dall’obbligo del lavoro, anche all’aperto, come strumento di reinserimento sociale. Esso non è soggetto a prescrizione, come non si prescrivono neppure i delitti puniti con l’ergastolo, e col tempo successive riforme legislative hanno progressivamente eroso il suo carattere perpetuo, per cui attualmente è possibile che il condannato all’ergastolo ritorni in libertà a certe condizioni. Dal 1962 [6] infatti l’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale dopo avere scontato almeno 28 anni di pena, dando prova di buona condotta. Nel 1986, poi, la riforma Gozzini [7] ha introdotto ulteriori agevolazioni per i detenuti, tra le quali anche la riduzione del tempo minimo (da 28 a 26 anni) perché il condannato all’ergastolo possa accedere alla liberazione condizionale e la possibilità di uscire temporaneamente dal carcere in relazione ai progressi compiuti durante il suo percorso rieducativo (dopo 10 anni il condannato può essere ammesso al lavoro all’esterno e ai permessi-premio; dopo 20 anni alla semilibertà). Questo processo di apertura (è proprio il caso di dirlo…) verso la temporaneità dell’ergastolo si è però arrestato negli anni ’90 del secolo scorso, a causa della c.d. legislazione di emergenza varata all’indomani delle efferate stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia, facendo compiere un salto indietro di trent’anni al nostro sistema punitivo. E così nel 1991 [8] i condannati per alcuni gravissimi delitti, tra cui quelli di mafia e terrorismo, possono essere ammessi ai benefici penitenziari, alla liberazione condizionale, alle misure alternative alla detenzione solo se hanno collaborato con la giustizia. È questo il c.d. ergastolo ostativo, basato su una presunzione di pericolosità del condannato che non collabora e che per ciò stesso dovrà restare per sempre in carcere. La stessa legislazione emergenziale ha poi individuato un ulteriore tipo di ergastolo (quello c.d. di terzo tipo), che consente ai condannati di alcuni gravi reati (sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, sequestro di persona a scopo di estorsione seguiti dalla morte della vittima) di essere ammessi ai benefici previsti dalla legge solo dopo avere effettivamente scontato almeno ventisei anni di pena. Questo in linea di massima il funzionamento dell’ergastolo nel nostro ordinamento penale. Che poi esso possa davvero contribuire “alla rieducazione del condannato”, secondo quanto afferma l’articolo 27 della Costituzione, è ovviamente tutt’altra questione.

Senza volere entrare qui in tecnicismi giuridici, non essendo questa la sede più adatta per farlo, possiamo solo dire in estrema sintesi che la Corte costituzionale, il massimo organo di controllo sulla conformità delle leggi alla Costituzione, ha più volte respinto ogni dubbio sulla legittimità costituzionale dell’ergastolo sollevato dai giudici penali, ritenendolo sempre in linea con l’articolo 27 della Costituzione, negando che “funzione e fine della pena sia il solo riadattamento dei delinquenti”, sottolineando che il sistema della liberazione condizionale previsto nel nostro ordinamento giuridico permette il reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile dopo avere scontato un tot di pena e affermando che con le varie modifiche legislative, introdotte negli ultimi anni, oggi la pena dell’ergastolo “non riveste più i caratteri della perpetuità” che aveva un tempo [9].

Non possiamo che prendere atto dell’alto parere espresso da questo insigne collegio, ma ci permettiamo di ricorrere alle parole di un noto giurista per dire che “se rieducazione deve intendersi come offerta di aiuto al condannato perché possa aumentare le sue chances di vivere nella società rispettandone le regole, questa idea cozza frontalmente con una pena la cui idea di fondo è la definitiva espulsione del condannato dal consorzio civile. [L’ergastolo, quindi,] prendendo il posto della pena di morte, si propone come una «pena fino alla morte»” [10]. In quanto pena perpetua l’ergastolo si presenta come l’espressione di un estremismo punitivo che esclude a priori la possibilità stessa della risocializzazione; inoltre, proprio per il suo carattere perpetuo, esso fa a pugni con le esigenze di individualizzare la pena al singolo condannato, condizione essenziale per soddisfare la sua finalità rieducativa, ledendo in questo modo anche un altro principio costituzionale, quello di eguaglianza, sancito all’articolo 3 della Costituzione, che permette trattamenti differenti solo di fronte a situazione effettivamente diverse. Anzi, proprio sotto questo profilo la pena perpetua determina un’ulteriore ipotesi di disparità di trattamento, basata questa volta sulla sua effettiva durata, che non dipende più dalla gravità del reato commesso, ma dalla durata della vita del condannato stesso. Facciamo un esempio per capirci meglio. Un omicidio viene commesso da due complici, uno di 20 e l’altro di 50 anni. Entrambi sono condannati all’ergastolo con la stessa sentenza e per lo stesso fatto. Per effetto dell’allungamento della vita media delle persone però potrà accadere che il primo potenzialmente sconterà una pena più lunga e per un numero maggiore di anni rispetto al secondo, determinando chiaramente una disparità di trattamento in casi simili. Ancora, l’articolo 27 della nostra Costituzione sancisce pure che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Ma siamo davvero sicuri che una pena che duri per sempre, come l’ergastolo, non sia per sé stessa inumana? L’ergastolo, insomma, si espone alle stesse critiche a cui è soggetta la pena di morte. Entrambe si basano infatti su una equazione assolutista che esige il prezzo della vita (o della libertà per sempre, il che è in fin dei conti lo stesso) del reo in cambio della vita (o di altro bene giuridico equivalente) altrui. Se la persona e la sua tutela è il centro e fine ultimo del nostro ordinamento, l'ergastolo priva il condannato proprio del suo status di persona, assoggettandolo ad una pena che già a metà del ‘700 Cesare Beccaria definiva come “più dolorosa e crudele della pena di morte” [11].

Queste per grandi linee le premesse teoriche sull’ergastolo in Italia, che fanno dubitare fortemente della sua legittimità ed utilità concreta quale strumento idoneo a punire il colpevole di gravi delitti o a evitare che altri li commettano, grazie alla forza convincente della sua deterrenza. In passato tanti si sono espressi contro di esso [12], ma ancora oggi appare lontano il momento in cui si potrà parlare seriamente della sua abolizione, sostituendolo con una pena temporanea anche di lunga durata. Ogni tentativo di abrogare l’ergastolo, renderlo meno afflittivo, consentire un più facile ritorno del condannato alla vita libera si è finora sempre scontrato col timore che esso possa essere avvertito dalla pubblica opinione come un abbassamento della guardia di fronte alla criminalità, soprattutto mafiosa [13]. Qualsiasi riforma sul punto richiede allora un processo molto lungo, profondo e intenso, condotto sul piano culturale, sociale, politico, giuridico per cambiare l’idea ancora oggi comune e sicuramente demagogica che più carcere significhi anche maggiore sicurezza collettiva, anche perché il dolore e il danno causati alla vittima non diventano certo più lievi o vengono sufficientemente ripagati solo se sottoponiamo il reo a una pena più lunga o più dura. Esigenze retributive garantiste esigono poi che la pena sia sì afflittiva, ma anche umana e proporzionata alla gravità del reato commesso e certamente sotto questo duplice profilo non lo è l’ergastolo. La società dovrebbe allora aprirsi a percorsi diversi, di riconciliazione, senza cadere nel populismo giustizialista, nella tendenza a trasformare i problemi sociali in emergenze di ordine pubblico, di sicurezza, di giustizia alle quali reagire in maniera più o meno dura. Occorrerebbe inoltre avere una classe politica veramente coraggiosa e lungimirante, in grado di adottare provvedimenti che vadano ben oltre il sentire comune, non sempre corretto, tenendo anche in debito conto che l'abolizione dell'ergastolo dovrà avvenire nell'ambito di una riforma globale del codice penale e di tutto il sistema delle pene. Nell’attesa allora di questa riforma copernicana, si potrebbe fare qualcosa già da subito, diminuendo i casi in cui applicare la pena dell'ergastolo e abbreviando il termine per concedere ai condannati la liberazione condizionale. Ma il vero problema diventa a questo punto un altro. Vediamo ogni giorno come ormai il carcere è destinato ad essere sempre più la discarica dei relitti sociali, dove abbandonare i poveri, gli emarginati, chi si trova in difficoltà, mentre la vita in carcere non riesce più, nonostante tutti gli sforzi compiuti dalle istituzioni penitenziarie più illuminate e scrupolose, ad essere davvero un percorso di rieducazione, ma una vita a perdere. E i recenti suicidi dietro le sbarre lo dimostrano, non essendo certo essi un segno di civiltà.

 

Note:

[1] Tra i tanti v. Luciana Cimino, Carceri, opposizioni via dalla commissione, il manifesto, 24 luglio 2024; Patrizio Gonnella, Più detenuti in condizioni peggiori. L’effetto delle politiche securitarie, ivi; o i miei articoli apparsi su questo giornale: Sovraffollamento delle carceri e possibili soluzioni e Ancora sull’emergenza carceri. Il ddl che aumenta i giorni di liberazione anticipata.

[2] Davide Galliani, Una introduzione alle forme e alle criticità della pena perpetua; Emilio Dolcini, Fine pena: 31/12/9999. Il punto sulla questione ergastolo; Antonio Salvati, Profilo giuridico dell’ergastolo in Italia.

[3] Esodo, II, 21-23.

[4] Nasce da qui l’immagine dei condannati alla pena perpetua come sepolti vivi, elaborata nell’Ottocento da John Stuart Mill, che dubitava del fatto che la pena perpetua potesse considerarsi davvero più lieve rispetto alla pena capitale, che consegna un uomo al breve dolore di una rapida morte.

[5] In Europa ben otto Stati non conoscono neppure la pena detentiva perpetua. Si tratta di Portogallo, Norvegia, Serbia, Montenegro, Croazia, Bosnia-Erzegovina, San Marino e Andorra. In cinque (Islanda, Lituania, Malta, Paesi Bassi e Ucraina) la pena detentiva è davvero perpetua, senza possibilità di riduzione a certe condizioni, come accade invece in tutti gli altri Stati europei, compresa l’Italia (Emilio Dolcini, cit.).

[6] Legge 25 novembre 1962, n. 1634.

[7] Legge 10 ottobre 1986, n. 663.

[8] Decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito nella legge 12 luglio 1991, n. 203.

[9] C. cost., 21 novembre 1974, n. 264; id., 28 aprile 1994, n. 168. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre ritenuto che la pena perpetua può considerarsi compatibile con l’articolo 3 della CEDU, la Convenzione europea sui diritti dell’uomo (“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”), solo se riducibile, consentendo sempre il ritorno del condannato in libertà, anche se a certe condizioni.

[10] Emilio Dolcini, cit. Sono tanti i giuristi che hanno assimilato l’ergastolo alla pena di morte (Francesco Carnelutti definiva la pena perpetua una “pena di morte diluita giorno per giorno”; per Aldo Moro l’ergastolo è “crudele e disumano non meno di quanto sia la pena di morte”). 

[11] Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, 1764.

[12] Non è questa ovviamente la sede per ripercorrere il denso e risalente dibattito intorno alla necessità di modificare o abrogare l’ergastolo.

[13] Non dimentichiamo che il referendum del 1981 sull’abrogazione dell’ergastolo è stato respinto con il 77,37% dei voti contrari.      

 

04/08/2024 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Ciro Cardinale

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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