Le carceri italiane non sono certamente luoghi questi così ameni come certa stampa e certa narrazione governativa vogliono farci credere, anche usando le parole di Chico Forti, il cittadino italiano rinchiuso da maggio nella prigione di Verona dopo il suo rientro in Italia per continuare a scontare qui la pena dell’ergastolo per omicidio inflittagli negli Usa. La realtà è infatti molto, ma molto diversa, come ben sanno coloro che abitano giornalmente uno dei 190 istituti penitenziari italiani come detenuti o come operatori, realtà caratterizzata da solitudine, angoscia, disperazione, sopraffazione, abusi, violenza, sovraffolamento… Secondo l’ultimo rapporto redatto dall’associazione Antigone al 31 marzo di quest’anno erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale degli istituti penitenziari di 51.178 posti complessivi [1]. Di questi, 2.619 erano donne (pari al 4,3% dei detenuti presenti) e 19.108 stranieri (il 31,3% del totale). Dal 2019 al 2020, a causa delle misure adottate durante la pandemia Covid-19, le presenze in carcere erano calate di 7.405 unità, ma subito dopo sono tornate a crescere. I tassi di affollamento più alti si registrano nelle prigioni di Puglia (152,1%), Lombardia (143,9%) e Veneto (134,4%), ma neppure le altre regioni sono considerate esenti dal fenomeno. Accanto al sovraffollamento, si va poi sempre più diffondendo un’altra piaga, quella dei suicidi.
Sempre secondo l’associazione Antigone, mentre nel 2023 sono state 70 le persone che si sono tolte la vita in carcere, già nei primi mesi di quest’anno (da gennaio ad aprile) sono stati addirittura 30 i suicidi in cella, in pratica uno ogni tre giorni e mezzo. Al di là dei freddi numeri, dietro ai quali ci sono sempre persone con i loro problemi, il sovraffollamento carcerario rimane e richiede interventi immediati e strutturali a tutela della dignità dei detenuti e degli operatori penitenziari. Non può ovviamente considerarsi risolutiva l’idea che ciclicamente rispunta ad ogni cambio di governo, soprattutto a destra, di costruire nuove prigioni, che peraltro richiederebbero tempi lunghi prima di diventare operative, e neppure quella di introdurre nuove ipotesi di reato o inasprimenti di pene per quelli già esistenti, come prevede pure il recente disegno di legge 1660 presentato il 22 gennaio alla Camera dei deputati dai ministri Piantedosi, Nordio e Crosetto, che anzi potrebbe aggravare il fenomeno qui denunciato. E allora che fare? Uno strumento di facile e immediata soluzione potrebbe essere quello di ricorrere ampiamente alle pene sostitutive al carcere.
Il decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 ha tra le altre cose inserito nel codice penale un nuovo articolo, il 20 bis, che prevede la possibilità di applicare pene sostitutive alla detenzione non superiore ai quattro anni, riservando invece la prigione ai reati più gravi e spezzando così la tradizionale equazione “pena uguale carcere” sulla quale si è sempre basato il diritto punitivo di stampo liberale e borghese [2]. La modifica non è stata solo un’operazione di facciata, ma una vera e propria rivoluzione per il nostro sistema penale, orientandolo in senso coerente con l’articolo 27, comma 3 della Costituzione (“le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) e con l’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo (“nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Essa richiede adesso un diverso approccio di giudici, difensori, imputati e (un po’ meno) pubblici ministeri nella fase di esecuzione della pena, provando anche a risolvere la piaga del sovraffollamento carcerario se correttamente applicata. L’articolo 20 bis del codice penale prevede quattro diversi tipi di pene sostitutive al carcere: 1. la semilibertà e la detenzione domiciliare, che possono essere applicate dal giudice in sostituzione della pena detentiva (reclusione o arresto) della durata compresa tra i tre e i quattro anni; 2. il lavoro di pubblica utilità, che può sostituire la pena detentiva da uno a tre anni; 3. la pena pecuniaria, infine, che può sostituire la pena detentiva non superiore a un anno. Tra le varie pene sostitutive non esiste un ordine gerarchico, per cui l’applicazione dell’una o dell’altra rientra nella discrezionalità del giudice, a meno che egli non decida di sospendere la pena, in quanto la sospensione condizionale è considerata alternativa alle pene sostitutive (se la pena è sospesa non può essere sostituita, se la pena è sostituita non può essere sospesa). La semilibertà comporta la permanenza in carcere del condannato per una parte della giornata (almeno otto ore), mentre nelle rimanenti sedici ore la persona potrà svolgere all’esterno del carcere attività di lavoro, studio, formazione professionale o altro che sia utile alla sua rieducazione e al suo reinserimento sociale. Con la detenzione domiciliare, invece, il condannato ha l’obbligo di rimanere nella propria abitazione o in altri luoghi ad essa assimilabili per almeno dodici ore al giorno. È prevista anche la possibilità che la persona possa uscire di casa per almeno quattro ore al giorno, anche non continuative, per provvedere alle proprie esigenze di vita e di salute (fare la spesa, recarsi dal medico o in farmacia). Il lavoro di pubblica utilità consiste nello svolgimento di un’attività non retribuita svolta dal condannato in favore della collettività presso una struttura dello Stato, delle regioni, dei comuni, degli enti e delle organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato, senza alcuna interferenza con le normali attività di vita, studio o lavoro della persona. Infine, la pena pecuniaria comporta il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di carcere da sostituire, somma determinata dal giudice in riferimento alle condizioni di vita, economiche e patrimoniali del condannato e del suo nucleo familiare entro un limite minimo di 5 euro e massimo di 2.500 euro per ogni giorno di pena detentiva da scontare, somma che si può pagare anche a rate. Finora però le pene sostitutive, così come sono strutturate, non hanno dato grande prova e non hanno contribuito a deflazionare il carcere, in quanto è ancora attribuito al giudice un ampio potere discrezionale di scegliere se applicarle o no e quale di esse applicare, criticità che non sono state neppure risolte dal recente decreto legislativo 19 marzo 2024, n. 31, che avrebbe dovuto introdurre correttivi al decreto 150/2022.
Altre potrebbero essere allora le strade astrattamente praticabili per risolvere il problema del sovraffollamento degli istituti penitenziari [3], ma una politicamente forte, suggerita da un autore [4], è sicuramente il ricorso ad “un indulto proprio condizionato, che consenta di commutare le pene detentive residue non superiori a tre anni nella nuova pena sostitutiva della detenzione domiciliare” e solo per alcuni reati (certamente non per quelli che destano maggiore allarme sociale, come criminalità organizzata, terrorismo, strage, ecc.). L'indulto, previsto dall'articolo 79 della Costituzione, è un provvedimento di indulgenza a carattere generale votato dal Parlamento che riguarda tutti i condannati per un determinato reato. Esso estingue in tutto o in parte solo la pena principale, che viene così condonata o commutata in altra pena; può essere anche condizionato al fatto di non commettere altri reati per un certo periodo di tempo successivo, pena la revoca del beneficio. L'indulto è diverso dall'amnistia, che invece estingue anche il reato, e dalla grazia, che è un provvedimento individuale di clemenza e non ha carattere generale. Ricorrere all’indulto condizionato permetterebbe, allora, di deflazionare le carceri con un provvedimento ad effetto immediato, applicabile automaticamente dagli uffici giudiziari senza sovraccaricarli di lavoro e accettabile da tutto l’arco parlamentare e dai cittadini, senza che abbia il sapore di un gesto di pura benevolenza verso il reo, che dovrebbe comunque scontare la pena, sia pure a domicilio, rispettando anche il principio costituzionale della sua funzione rieducativa. L’indulto però ha il limite di agire solo sulle condanne già eseguite, a differenza delle pene sostitutive, che si applicano ai processi ancora in corso.
In conclusione, riteniamo quindi che una bilanciata combinazione di questi due istituti – le pene sostitutive alla detenzione e l’indulto condizionato - potrebbero produrre sicuri effetti tangibili e immediati sulla popolazione carceraria presente e futura, fatta in buona parte di extracomunitari, sbandati, marginali, autori di reati bagatellari, quali furti o spaccio di modeste quantità di stupefacenti, e condannati che devono scontare ancora gli ultimi spezzoni di pena, che così potrebbero uscire dal carcere o non entrarci affatto, espiando la loro condanna in tutto o in o parte in forme alternative alla prigione e scaricando così la pressione esistente attualmente sugli istituti penitenziari a tutto vantaggio degli altri detenuti, che devono invece ancora restarci o andarci a causa delle gravi condanne inflitte, degli operatori penitenziari e della società tutta.
Note:
[1] I calcoli sono stati fatti dagli autori del rapporto considerando la capienza ufficiale di ogni singolo istituto. Sappiamo tutti però che molti posti non sono disponibili a causa di manutenzioni o ristrutturazioni.
[2] M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, (1975), ed. it. Torino, 2014.
[3] Come ridurre il ricorso alla custodia cautelare ai casi assolutamente necessari e per i reati più gravi, abbassare i limiti massimi edittali delle pene, in modo da rendere più ampia l’applicazione delle pene sostitutive alla detenzione in carcere, ricorrere alla depenalizzazione di altri reati, aumentare la possibilità di concedere l’espiazione delle pene fuori dal carcere, soprattutto per i reati meno gravi o per le parti residuali della condanna ancora da scontare.
[4] G. Amarelli, Sovraffollamento carcerario: aspettando l’efficientamento delle pene sostitutive, subito un indulto proprio condizionato, in Sistema penale.