Sulle scelte del PCI fine anni 1950: il milazzismo (II parte)

Gli storici sottolineano che ci furono rapporti fra milazzismo e mafia. Ma la scelta di Macaluso non fu solo un “errore” del PCI siciliano, ma fu anche figlia della teoria del tentativo di un fronte antimonopolista contro la depredazione della Sicilia.


Sulle scelte del PCI fine anni 1950: il milazzismo (II parte)

 

Gli storici sottolineano che ci furono rapporti fra milazzismo e mafia. Ma la scelta di Macaluso non fu solo un “errore” del PCI siciliano, ma fu anche figlia della teoria del tentativo di un fronte antimonopolista contro la depredazione della Sicilia.

di Luigi Ficarra

(Per la prima parte http://lacittafutura.it/culture/pci-milazzismo-prima.html)

Ci furono rapporti fra milazzismo e mafia, come sottolinea lo storico Umberto Santino, dicendo che l'assessorato diretto dal monarchico Pivetti era frequentato dal capomafia Paolino Bontade e dai suoi amici.

Lo stesso Renda, allora deputato regionale, non nega nella sua “Storia della Sicilia” “l'incidenza della mafia nel secondo e nel terzo governo Milazzo”. Il prof. Giuseppe Marino, che fa il discorso storico più serio e di ampio respiro, dice che, sì, vennero rimossi i mafiosi Vanni Sacco e Genco Russo dal controllo dei due principali consorzi di bonifica - (assessore all’agricoltura - egli ricorda - era nel primo governo Milazzo il missino Grammatico) -, ma, anche se il fatto fu percepito come importante, rimase - egli scrive - marginale, perché trattavasi “dell'abbattimento di realtà residuali, della mafia di campagna”. – “I governi Milazzo - scrive ancora Marino - non si avvidero del nuovo corso mafioso a preminente caratterizzazione urbana. - .... Anzi lo favorirono e vi parteciparono” E spiega pure che “i potenti cugini Salvo appoggiarono il milazzismo”.

Marino sottolinea altresì che non tutti i comunisti concordavano con Macaluso e la sua tattica trasformista, realizzata nell'alveo del peggiore “sicilianismo”; e ricorda che Mario Ovazza, capogruppo allora del PCI all'assemblea regionale, nei suoi “appunti inedit” del 1993, ebbe a scrivere che “fu costretto a partecipare ad un incredibile Comitato, presieduto dallo stesso Milazzo, il cui compito ufficiale era quello di appagare le crescenti richieste per "inserire a posti di sottogoverno elementi collegati con la maggioranza milazziana". “Fui felice - dice sempre Ovazza - quando, (per le resistenze manifestate), fui sostituito da Cortese”.

Il milazzismo in sostanza si svelò essere, nel suo insieme, una grande operazione trasformista, nell’alveo del più becero e reazionario sicilianismo; e fu il bacino di coltura di quella politica di compromessi al più basso livello e di sostanziale compartecipazione alla gestione del potere borghese sotto la copertura di un’opposizione di facciata, contro cui poi combatté con tutte le sue forze  il compagno Pio La Torre fino al sacrificio della vita, come ben scrive Adriana Laudani nel libro di Sorrentino e Mondani “Chi uccise Pio La Torre”.

Va detto però dire che la scelta di Macaluso non fu un “errore”  del PCI siciliano, ma fu figlia diretta della teoria del fronte antimonopolista in coerenza alla concezione dello Stato, quale Stato dei monopoli, e non, invece, quale era ed è, espressione e mediazione dell’interesse generale capitalistico.

Teoria, questa dello “Stato dei monopoli”, propria della III internazionale.  Ed è per questo motivo che Togliatti, come ricorda Marino in “Storia della mafia”, in coerente applicazione di detta teoria, in un convegno tenutosi a Palermo a cavallo dell’operazione Milazzo, diede a questa un fondamento teorico-politico, perché, si disse, veniva così costituito un fronte contro la rapina della Sicilia da parte dei monopoli, da parte dello Stato dei monopoli.

Espressione piena di tale linea, sicilianista e reazionaria, è stato in anni a noi molto vicini il governo Lombardo, appoggiato dal PD siciliano. Quel Lombardo, che ebbe come consulente il vate degli industriali La Cavera e che fu prima alleato del suo sodale Cuffaro.

Oggi, di fronte al declino storico del capitalismo europeo, che in Italia si traduce in una pesante stagnazione e regressione, c’è un Sud non più da tempo funzionale neppure allo sviluppo capitalistico del paese, con una forza lavoro non più competitiva rispetto a quella degli africani e dei cittadini dell’est Europa. In esso la condizione giovanile, che raggiunge punto di disoccupazione oltre il 50%, è tragica; ed il destino di tutto il territorio meridionale è di trasformarsi nel recinto di quella che Marx chiamava “sovrappopolazione stagnante”.

Al massimo si coglie in questa situazione la disfatta del M.O., i risultati di quella politica del vecchio PCI di bassa compartecipazione in Sicilia e altrove, specie nel Sud, alla gestione del potere borghese. Politica che oggi si manifesta tramite un suo vecchio rappresentante storico, Napolitano, che plaude alla bestia trionfante del capitalismo alla Marchionne e al suo sodale, Renzi, che sta portando a termine l’opera di Berlusconi e Monti di distruzione delle difese del M.O., delle sue casematte: Statuto dei Lavoratori, CCNL e libera rappresentanza nei luoghi di lavoro.

La strada da proporre alle nuove generazioni non è certo la rivolta disperata, come quelle di “Alcara Li Fusi” e di “Bronte” del 1860 e/o come quella indistinta di Licata del 5 luglio 1960, ma quella di un ripensamento profondo delle cause che hanno portato a questa disfatta politica e che faccia quindi i conti, anche e soprattutto a livello teorico, col passato riformista del M. O.

Un ripensamento che recuperi in particolare in Sicilia la memoria storica del movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani del 1893 - 94; delle lotte per l’occupazione delle terre del primo dopoguerra e quelle del ‘44 – ‘50. Movimento, quest’ultimo, politicamente sconfitto dalla riforma agraria del dicembre 1950, definita dalla sinistra di allora una <<controriforma>>, il cui progetto di legge, è bene ricordarlo, fu elaborato dall’agrario on. Milazzo. Una vera controriforma, il cui attore principale fu il mercato, consentendosi e comunque non impedendosi che i grandi proprietari, anticipando l’applicazione della legge, vendessero direttamente a terzi, contadini compresi, le superfici migliori oltre il limite consentito di ben duecento ettari e realizzarono in tal modo, dice Renda, circa trenta miliardi: una vera manna, una sorta di piano Marshall che mise a disposizione della borghesia agraria ingenti capitali, destinati in parte alla trasformazione capitalistica delle terre.

Forti dell'insegnamento svolto da Gramsci ne “La questione meridionale”, molti dirigenti del PCI di allora giudicarono negativamente detta legge, che segnò la sconfitta definitiva della lotta di classe nelle campagne siciliane, specie del movimento cooperativo. Oltre allo storico Giuseppe Marino, ed a Umberto Santino del centro Peppino Impastato, la grande scrittrice e giornalista de “L’Ora”, Giulia Saladino, in “Terra di rapina”, raccontò magistralmente come interi direttivi delle sezioni del PCI dell'isola, vista la fine miserrima delle lotte che avevano condotto, preferirono emigrare all’estero.

Anche Francesco Renda parla molto criticamente di questa controriforma agraria, che costituì una chiara opera di “rivoluzione passiva”, nel senso gramsciano del termine.

09/01/2015 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Luigi Ficarra

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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