“Al pomposo catalogo dei «diritti inalienabili dell’uomo» subentra la modesta Magna Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge, la quale «chiarisce finalmente quando finisce il tempo venduto dall’operaio e quando comincia il tempo che appartiene all’operaio stesso». Quantum mutatus ab illo!” [1].
In un’epoca come la nostra definita dall’ideologia dominante di globalizzazione – ovvero di tendenziale realizzazione dell’obiettivo ultimo del capitalismo: il mercato mondiale – si è sviluppato un ampio dibattito sulla necessità di regolare tale processo mediante il diritto internazionale. Quest’ultimo sembra, a propria volta, necessitare di un fondamento per superare relazioni internazionali ancora essenzialmente basate su meri rapporti di forza fra Stati. Tale fondamento è generalmente rinvenuto in un evento considerato fondativo non solamente del processo di globalizzazione, ma dell’intero mondo contemporaneo: la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Dunque, la problematica dei diritti umani, della loro salvaguardia ed estensione ha assunto un’indubbia centralità nel dibattito politico. La stessa filosofia politica contemporanea dà un grande rilievo alla questione dei diritti umani. Essi costituiscono l’essenza, il fondamento della persona, della sua dignità. I diritti umani vengono ritenuti validi non solo per il moderno occidente, ma per ogni società e ogni epoca, al punto che vengono considerati come misura dello sviluppo sociale di ogni società storica, fino ad ipotizzare un diritto di intervento, finanche armato, verso quei paesi che non li rispetterebbero.
Peraltro il richiamo ai diritti umani è tanto ampio e multiforme da farlo apparire funzionale ai più diversi progetti politici, tanto da creare certo imbarazzo persino agli apologeti della loro necessaria estensione [2]. La globalizzazione viene giustificata, se non esaltata dai suoi apologeti, in quanto necessaria alla progressiva affermazione o persino alla più o meno violenta esportazione [3] dei diritti umani in tutto l’orbe terracqueo; al contrario, i critici della globalizzazione le contestano d’affermarsi in palese violazione di essi [4]. Paesi dominati dai più diversi governi e governi espressioni delle più disparate classi sociali, ovvero tanto Stati dispotici, come ad esempio i paesi del golfo, quanto nazioni sotto la dittatura della borghesia – dall’Egitto, al Marocco agli stessi Stati uniti – o alla dittatura del proletariato come Cuba, il Vietnam, per non parlare della Repubblica democratica popolare di Corea, sono costantemente sotto attacco da parte di oppositori esterni e interni con l’infamante accusa di non rispettare i diritti umani [5].
In altri termini, i diritti umani vengono considerati indispensabili per qualsivoglia formazione sociale, al punto da ritenerli misura del livello di civiltà raggiunta da ogni mondo storico, sino ad ammettere una sorta di diritto-dovere d’intervento, anche militare, nei confronti dei paesi accusati (da parte dei loro nemici storici) di non tutelarli. Tuttavia, l’onnipresenza nel pensiero politico contemporaneo dell’appello ai diritti umani, alla loro presunta capacità di risolvere le principali contraddizioni della società contemporanea, alla potenzialità taumaturgica di poter giudicare e condannare in loro nome le più diverse situazioni, anche da opposte prospettive [6], è tale da diluirne, quando da non svalutarne del tutto la portata semantica al punto da non apparire più problematica la loro attuale definizione, tanto da non impensierire più nessuno [7]. Dunque, l’inflazione del temine nel discorso pubblico porta a una perdita di senso, favorendone un utilizzo tanto ideologico quanto acritico che ha quale risultato, più o meno consapevole, di farne smarrire il concetto, di ridurlo a un universale astratto incapace di aver presa sulla concretezza del mondo storico [8]. Tanto che già Karl Marx e Friedrich Engels denunciavano: “che colossale illusione essere costretti a riconoscere e sanzionare nei diritti dell’uomo la società civile moderna, la società dell’industria, della concorrenza generale, degli interessi privati perseguenti liberamente i loro fini, dell’anarchia, dell’individualità naturale e spirituale alienata a se stessa, e volere poi nello stesso tempo annullare nei singoli individui le manifestazioni vitali di questa società [...]!” [9]. Peraltro, la stessa critica alla retorica dei diritti umani, per quanto minoritaria, proviene dagli estremi opposti degli schieramenti politici e, nonostante punti in comune, è di segno radicalmente opposto [10].
Vi è evidentemente una difficoltà di definizione, concettuale e semantica di cosa sono i diritti dell’uomo. Per tali motivi, al fine di iniziare a districare tale nodo gordiano [11] ci è parso utile tornare a riflettere su cosa ne pensava uno dei massimi critici dell’ideologia moderna: Karl Marx [12] ], uno dei primi e grandi padri, spesso misconosciuti, tanto della riflessione sulla “globalizzazione”, quanto sulla sua origine nei diritti dell’uomo.
Ci proponiamo, dunque, di analizzare le variegate riflessioni di Marx sui diritti dell’uomo, al fine di indagarne una possibile concezione unitaria, interrogarne la validità o meno rispetto all’epoca in cui furono concepite e l’attualità per il nostro tempo. Al di là della trattazione, assai dibattuta, che Marx ne dà in Sulla questione ebraica, considerazioni o accenni su tale questione si trovano in scritti giovanili a essa precedenti – in particolare nella Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico – e seguenti, quali La sacra famiglia e L’ideologia tedesca. Infine, la problematica dei “diritti umani” è affrontata, seppur in maniera indiretta, in testi della maturità – dal Manifesto del partito comunista agli scritti storici – e si affaccia in alcune pagine de Il capitale e dei Grundrisse.
Note:
[1] Karl Marx, Il capitale, vol. I, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 339.
[2] A tal proposito, ci limitiamo a richiamare due esempi apparentemente secondari ma, al contempo, emblematici in quanto rendano bene l’idea della confusione che domina nell’uso corrente della categoria diritti umani. In una intervista al Times, la prima concessa, persino il leader dello L.R.A. ugandese, Kony, tenta di giustificare il proprio tanto assurdo quanto sanguinario progetto politico, in nome di uno Stato fondato sui Dieci Comandamenti, con il richiamo ai diritti umani. Mentre nel numero 696 di “Internazionale” un trafiletto informava che nelle elezioni delle isole Samoa si era confermato al governo il Partito per la difesa dei diritti umani, salvo aggiungere che in tale paese hanno diritto di voto unicamente i capi clan.
[3] La risoluzione 36/103 del 9 dicembre 1981 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – risalente dunque a un’epoca di maggior serietà e minor servilismo della nostra – dall’emblematico titolo di "Dichiarazione sull’inammissibilità dell’intervento e dell’ingerenza negli affari interni degli Stati", aveva proclamato: il "dovere degli Stati di astenersi da ogni campagna diffamatoria, denigrazione o propaganda ostile allo scopo di intervenire o ingerirsi negli affari interni di altri Stati" insieme al dovere di "astenersi dall’utilizzazione e distorsione di questioni attinenti ai diritti umani come mezzo di interferenza negli affari interni degli Stati, di esercitare pressione su altri Stati o di creare sfiducia e disordine entro o fra Stati o gruppi di Stati".
[4] Così il richiamo ai diritti umani è servito tanto di copertura all’imperialismo per giustificare la sua politica d’aggressione globale, quanto a chi, da posizioni più o meno radicali, la critica. Così le guerre contro Iraq, Jugoslavia, Afghanistan e Libia, come quelle in preparazione contro Iran, Venezuela e Repubblica democratica popolare di Corea vengono giustificate, talvolta anche a “sinistra”, come mali necessari per bloccare gravi violazioni dei diritti umani. Tuttavia, gli stessi movimenti contrari a tali aggressioni fondano la loro opposizione, spesso, a esse proprio in quanto violano i diritti umani.
[5] Esemplare il dibattito che vi è stato qualche anno fa sulla riforma della Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite, di cui hanno fatto parte per anni paesi considerati dall’occidente liberale al primo posto nella violazione dei diritti umani, mentre ne sono state escluse nazioni quali gli Stati Uniti che della difesa dei diritti umani hanno fatto per decenni il loro cavallo di battaglia. La riforma, patrocinata proprio dagli Strati Uniti, era finalizzata all’esclusione dalla Commissione di quei paesi che violano palesemente i diritti umani. Ciò è evidentemente una contraddizione, dal momento che dovrebbe essere proprio tale commissione a stabilire coloro che si macchiano di tali violazioni. Il paradosso è giunto all’apice al momento della votazione; in effetti, paesi come Cuba – che avevano denunciato tale riforma quale manovra di Washington per normalizzare e riportare sotto controllo occidentale la prerogativa di definire i diritti umani e, di conseguenza, anche la loro lesione – hanno poi finito con il votare a favore della riforma e sono stati eletti membri della Commissione; al contrario gli stessi patrocinatori della riforma, gli Stati Uniti e i loro alleati sionisti, si sono schierati contro e non sono stati eletti a farne parte.
[6] Qualche anno fa il segretario del circolo universitario di Rifondazione comunista mi spiegò che l’embargo, o meglio il blocco economico imposto dagli Stati Uniti a Cuba sarebbe stato giustificabile proprio in quanto volto a impedire la costante violazione dei diritti umani in atto nell’isola.
[7] Del resto la critica all’abuso ideologico del termine è testimoniata già in un articolo di Marx apparso il 10.7.1855 sul “New-York Daily Tribune”: “E per non sapere apprezzare il glorioso trattato di Vienna e il «sistema» europeo fondato su di esso, «The Tribune» è imputato d’infedeltà alla causa dei diritti umani e delle libertà”. Karl Marx e Friedrich Engels, in Opere complete, febbraio 1855 – aprile 1856, tr. it. di S. de Waal, vol. XIV, editori riuniti, Roma 1982, p. 283.
[8] “Naturalmente – come ha a ragione fatto notare Eustache Kouvélakis tutto ciò non risulta affatto da un complotto, ma rivela qualcosa di profondo, cioè un processo di disaggregazione di forme di identità o di appartenenza collettiva, situato in una congiuntura di sconfitte pesanti e ripetute subite in tutto questo periodo dai movimenti e dai progetti politici anticapitalistici.” Eustache Kouvélakis, Critica della cittadinanza; Marx e la “Questione ebraica”, tr. it. di N. Augeri, in «Marxismo Oggi» 1, Milano 2005, p. 46.
[9] Karl Marx e Friedrich Engels, La sacra famiglia, tr. it. di A. Zanardo, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 160.
[10] Sebbene anche insigni studiosi, quali Danilo Zolo, non se ne rendano conto quando sostengono: “resta ancora una volta confermata la massima, enunciata da Proudhon e ripresa da Schmitt: «Chi dice umanità cerca di ingannarti»”.
[11] Per non ricorrere alla nota soluzione tranchant di Alessandro Magno, che porterebbe a considerare l’appello ai diritti umani, al pari della globalizzazione, mera paccottiglia ideologica a uso delle classi dominanti, atta a oscurare i reali problemi sociali ed economici e il loro fondamento di classe.
[12] Un altro apparente paradosso del nostro tempo pretende, in effetti, che dopo la sconfitta della transizione al socialismo abortita nel blocco sovietico, sarebbero state finalmente bandite anche le ideologie, in primo luogo, si sottintendeva, il marxismo. Tuttavia è stato proprio Marx a introdurre e a rendere così diffuso nel dibattito scientifico la critica dell’ideologia, quale uso sofistico delle categorie da parte delle classi dirigenti, per universalizzare e naturalizzare le determinazioni storiche del loro dominio di classe.