La classe operaia non esiste più!
I lettori dei grandi giornali italiani hanno avuto infine l’annuncio del definitivo trapasso della classe operaia. Qualche giornale si è spinto a dichiarare finita anche la borghesia e la società industriale nel suo insieme. Il tutto certificato dall’ISTAT e quindi, secondo i giornali, oggettivo.
Che cosa dice, veramente, l’ISTAT
A dire la verità, il Rapporto ISTAT 2017 non si permette di dichiarare deceduta la classe operaia o addirittura le classi come categoria utile all’analisi. L’entusiasmo di molti giornalisti è fuori luogo.
La discutibile operazione svolta dall’Istituto di Statistica è diversa. In questo rapporto gli autori hanno provato a costruire una nuova classificazione delle famiglie italiane.
Storicamente, il contributo più importante all’analisi delle classi in Italia è stato quello di Sylos Labini che col famoso Saggio sulle Classi Sociali usava un’impostazione marxiana per cui la definizione effettiva delle classi è data dalla maniera in cui le famiglie si procurano il reddito (rendita, salario etc), utilizzato come un’approssimazione per “misurare” i rapporti di produzione. Nella classificazione di Sylos Labini si hanno quindi sei classi: la borghesia, la piccola borghesia con tre sotto categorie, la classe operaia e il sottoproletariato.
Dalla fine degli anni ’80 ha via via preso piede la classificazione elaborata dal sociologo Schizzerotto insieme a vari colleghi. Nella classificazione di Schizzerotto la suddivisione è data dalla posizione nella professione (autonomo, dirigente, operaio etc) degli occupati e dal settore di attività. In questa maniera si hanno borghesia, classe media impiegatizia, piccola borghesia urbana, piccola borghesia rurale, classe operaia urbana, classe operaia rurale.
In ogni caso, rimane una classificazione legata alla divisione del lavoro, e l’ISTAT dice esplicitamente che “resta valida la portata concettuale di questa classificazione che – all’aumentare della complessità della società – mantiene comunque un’ottima capacità interpretativa”.
Proprio per interpretare meglio la complessità della società, l’ISTAT propone ora una classificazione che dovrebbe affiancare quella classica. In questa classificazione l’aspetto principale è il livello di reddito, in particolare la capacità di spesa - cui sono aggiunte altre discriminanti come la posizione nella professione, la cittadinanza italiana o meno, l’occupazione o la disoccupazione, il titolo di studio, il numero dei membri nella famiglia.
Ne consegue quindi una classificazione vede la società italiana così suddivisa:
Milioni d’individui | Spesa media mensile (€) | |
Famiglie a basso reddito con stranieri | 4,73 | 1696 |
Famiglie a basso reddito con soli italiani | 8,28 | 2848 |
Anziane sole e giovani disoccupati | 5,42 | 1700 |
Giovani blue collar | 6,19 | 2396 |
Famiglie tradizionali della provincia | 3,64 | 3183 |
Famiglie degli operai in pensione | 10,5 | 2021 |
Famiglie d’impiegati | 12,2 | 3011 |
Pensioni d’argento | 5,25 | 3098 |
Classe dirigente | 4,57 | 3810 |
Per ora, limitiamoci a notare che per i pensionati si spende la parola “operai”, mentre per i lavoratori attivi si preferisce usare l’inglese blue collar.
Le critiche
L’operazione condotta dall’ISTAT in nome della complessità della società, ha attirato molte critiche. Oltre a quelle degli ambienti militanti, è stato lo stesso Schizzerotto, insieme ai sociologi Barbagli e Saraceno, a produrre una critica asprissima pubblicata dal sito LaVoce.
Secondo i tre sociologi, la classificazione proposta dall’ISTAT mischia la causa (la classe) con la conseguenza (reddito, istruzione e così via), creando quindi più confusione, esattamente il contrario di quanto dovrebbe fare un buon lavoro di categorizzazione.
Il rapporto è inoltre criticato nel punto in cui sostiene che le nuove categorie produrrebbero identificazione, più di quanto non facciano le classi “tradizionali”. Schizzerotto e gli altri critici non trovano prove di questa nuova identificazione all’interno del rapporto.
Infine, i tre sociologi lamentano che se davvero si applicasse questa nuova classificazione, si renderebbe molto più difficile lo studio comparativo con l’estero, dove vige lo schema di classi elaborato da Goldthorpe, fondamentalmente compatibile con lo schema di classi elaborato dallo stesso Schizzerotto. La confusione, infine, renderebbe molto difficile anche gli studi interni all’Italia.
Noi e l’ISTAT
Un’ultima ammonizione risuona nella critica di Schizzerotto, Barbagli e Graziani: gli istituti di ricerca privata cadono spesso nel tranello di inventare categorie sempre nuove pur di restare “alla moda”.
Un tranello in cui spesso sono caduti anche i marxisti. “Il Novecento è finito! La classe operaia non esiste più!”, è un ritornello che è risuonato più nei congressi delle organizzazioni militanti che nei salotti della borghesia. Il marxismo occidentale è andato alla spasmodica ricerca di nuove classi che sostituissero il vecchio arnese della classe operaia, dal cognitariato al resistente nomade.
Oppure, i marxisti hanno ripetuto all’infinito il ritornello della necessità di aggiornare l’analisi della composizione di classe. Alcuni elementi di questa nuova analisi sono stati forniti dai Clash City Workers col loro utilissimo libro “Dove sono i nostri?”.
È evidente che rimane molto da fare. La lezione che possiamo apprendere dalla vicenda del Rapporto ISTAT è che senza un lavoro rigoroso su questo campo non andremo lontano.