Cosa sono le scienze sociali (II parte)

Come si costituiscono le scienze sociali? La loro nascita costituisce un complesso processo di transizione legato anche alle grandi trasformazioni sociali che segnano l’avvio della modernità.


Cosa sono le scienze sociali (II parte)

Prosegue da Parte I

Proseguendo l’esposizione, ripeto che le scienze sociali nascono, certo sulla scia delle scienze naturali, nel momento in cui le istituzioni sociali non sono più considerate un fatto naturale immodificabile e fondate sul mandato divino. Nascono quindi sulla spinta dell’Umanesimo e del Rinascimento, in un momento in cui l’uomo si attribuisce il ruolo di attivo trasformatore della natura e della società, operando per la sua stessa emancipazione e autorealizzazione. E ciò è favorito dal superamento dello Stato assolutista e dall’emersione della borghesia che crea la società civile e innesca la graduale separazione di quest’ultima dalle istituzioni ecclesiastiche dopo 150 anni di guerre di religione, che avevano insanguinato l’Europa. In conseguenza di queste trasformazioni si costituisce uno nuovo “ceto ideologico”, per usare le parole di Marx, che osserva il mondo terreno, le attività umane, i problemi della convivenza sociale e prefigura l’avanzamento complessivo dell’umanità.

Secondo Eugenio Garin e secondo la prospettiva totalizzante, da me condivisa, l’attività scientifica deve essere studiata come parte importante di una comunità sociale, come del resto si deve fare per la politica, l’arte, la letteratura, la lingua, la tecnica etc. Garin ha anche messo l’accento sull’importanza della tradizione ermetica, legata alla figura di Ermete trismegisto (personaggio ignoto, l’aggettivo vuol dire tre volte grandissimo), e costituente un insieme di temi filosofici e mistici di epoca ellenistica, divenuta nota agli europei grazie alla traduzione dei testi neoplatonici fatta da Marsilio Ficino (1433-1499), che attraverso l’interesse per la magia naturalis contro quella cerimoniale avrebbe favorito l’emergere dello spirito scientifico e non l’avrebbe ostacolato, come si era ritenuto in precedenza. In analogia alle teorie antropologiche della magia (si pensi al famoso Ramo d’oro di George James Frazer), per la magia naturalis i fenomeni della natura anche straordinari sarebbero generati da cause puramente naturali e quindi non costituirebbero miracoli; tali cause sarebbero basate sulle relazioni di simpatia e di antipatia tra le cose. Una volta che gli esseri umani vengono a conoscenza di questi specifici rapporti, acquisiscono essi stessi la capacità di produrre eventi eccezionali. Si pensi per esempio alla famosa pietra filosofale, che grazie alle sue proprietà intrinseche sarebbe stata in grado di conferire l’immortalità, la sapienza e di trasformare tutti i metalli in oro, metallo presente in diverse quantità in tutte le forme naturali. Per dirla con Frazer, nella magia naturalis appare la concezione naturalistica della causa e l’idea di azione a distanza, che scalzeranno la forza determinante della Provvidenza, intesa come causa ultima. 

Concezioni di questo genere sono state sviluppate da autori come Giovanni Battista Della Porta (1535-1615), Pico della Mirandola (1483-1494), Giordano Bruno (1548-1600) e sono depositate anche nella cosiddetta teoria delle segnature secondo la quale ogni ‘segno’ non è casuale ma ha un significato. Per esempio, secondo un’idea primordiale di causalità (il simile agisce sul simile), l’itterizia, che fa ingiallire la pelle, si cura ingerendo l’oro; cura che solo pochi si potevano permettere. Oppure un organo malato del corpo umano si cura con le piante che ne ricordano la forma. Un altro esempio è dato dalla fisiognomica, secondo cui ai tratti del volto corrispondono certe caratteristiche psicologiche, per esempio le labbra carnose sarebbero segno di un comportamento lascivo, quelle sottili paleserebbero una forte ambizione.

Le figure di spicco del Rinascimento come Copernico, Keplero e Galileo, che scopre l’importanza della matematica per la metodologia scientifica, aspetto sconosciuto agli aristotelici, non erano così distanti da queste concezioni. Per esempio, anche se scettico, Galileo faceva oroscopi per incrementare i suoi guadagni, Newton (1643-1727) invece era appassionato di alchimia e di teologia, come dimostra la sua vasta biblioteca.

In definitiva, sulle orme degli studi innovativi di Garin, la storiografia moderna non stabilisce più una cesura netta tra concezioni magiche e scientifiche, anche se queste ultime da un punto di vista strutturale e sostanziale a un certo punto si distaccano dalle prime, introducendo elementi quali la formulazione precisa dei problemi, la sperimentazione, la matematizzazione e abbandonando le influenze neoplatoniche diffuse dall’ermetismo.

Generalmente si parla di rivoluzione scientifica per riferirsi alle innovazioni realizzatesi nel XVII secolo e attribuite in particolare alla riflessione dal già citato Newton, che fondò la fisica classica, benché ci siano storici della scienza che individuano un rapporto di continuità tra l’attività intellettuale del medioevo e gli albori dell’età moderna anche in ambito scientifico.

Comunque, la rivoluzione scientifica non costituisce un fenomeno semplicistico, giacché si dispiega in un lungo processo di transizione in coevoluzione, possiamo affermare, con le trasformazioni sociali; elementi rilevanti che innescarono questo straordinario processo furono: l’abbandono del principio di autorità, l’apporto degli artigiani e dei tecnici, che mostrava l’utilità delle innovazioni all’emancipazione umana, la lotta dell’ermetismo contro l’aristotelismo, evolutosi in senso naturalistico, la concezione dell’universo come infinito (Bruno) contrapposto al tradizionale universo gerarchizzato della Scolastica. Con questo cambiamento di paradigma si assegnava all’uomo moderno un ruolo diverso da quello giocato dall’uomo medievale, e si legittimava la sua espansione complessiva in senso materiale e spirituale. Si pensi al famoso canto XXVI dell’Inferno dedicato a Ulisse della Divina Commedia, il quale è stato condannato da Dio con il “folle volo”, perché ha voluto infrangere per il desiderio della conoscenza i limiti imposti all’umanità, superando le celebri colonne d’Ercole presso lo stretto dell’attuale Gibilterra. 

Nel XVII secolo lo scienziato o filosofo naturale aveva acquistato una funzione sociale definita, il suo lavoro era ormai istituzionalizzato e furono create istituzioni che alimentavano e organizzavano la ricerca scientifica come l’ Accademia dei Lincei nel 1610 in Italia, la Royal Society nel 1660 in Inghilterra.

Naturalmente anche il declino del feudalesimo, l’emergere di nuova classe (la borghesia), che per farsi avanti doveva spodestare le precedenti, giocò un ruolo fondamentale, ponendo le basi del carattere psicologico e morale del cosiddetto homo faber, che ha nella mani il suo destino ed è disposto a tutto per costruirlo. Questa metamorfosi sociale rendeva necessaria la critica della società tradizionale e la teorizzazione di nuove forme di vita associata, che poi nella sostanza si realizzarono con un compromesso tra nuovi e vecchi padroni (v. connubio tra aristocrazia e borghesia in Gran Bretagna vegliato dallo sguardo benevolo della monarchia, ormai impresentabile per molte ragioni).

Come si è detto, in questo complicato contesto, dopo le scienze naturali, nascono quelle sociali, che tentano di applicare i nuovi metodi per studiare la politica, la morale, l’economia, i diversi sistemi sociali, l’arte, il linguaggio etc. In particolare, un’idea guida è rappresentata dal concetto di legge, ripreso dal dominio naturale, secondo cui come esistono regolarità e correlazioni nella natura, analogamente debbono essere presenti nella vita sociale. Tra 600 e 700 la società viene intesa come “quadro e trama di relazioni, di rapporti di qualsiasi ordine e natura, come organizzazione della vita collettiva, coscienza vivente, organismo di idee, fucina di astrazioni, rete di leggi e di riti, infrastruttura di convenzioni e di consensi” (Enciclopedia Einaudi, vol. 13, voce Società di Giovanni Busino, p. 4).

In questo quadro, che delinea la società come un tutto organico, si colloca anche la riflessione marxiana che individua il filo rosso della storia umana nella produzione e nel lavoro, strutturati diversamente a seconda dei contesti storico-sociali, ma che sempre si esprimono nella relazione uomo / natura mediata dalla forma sociale. Per Marx l’elemento propulsore del movimento storico, intrinseco a quelle che chiamerà formazioni economiche-sociali, è rappresentato dalla lotta di classe, che lui modestamente dichiara di non aver scoperto. 

Un altro aspetto da prendere in considerazione è dato dall’espansione europea fuori dal continente, dove si erano già formati forti stati nazionali che costituivano un limite all’allargamento dei confini, espansione dovuta anche alla necessità di procurarsi prodotti preziosi, che per l’affermarsi dell’Impero ottomano non potevano più giungere dall’oriente. In questa fase si realizzano le prime scoperte geografiche, che hanno come scopo l’estensione dei commerci e la tratta degli schiavi, dando avvio a quei processi che Marx descrive nel cap. 25 del libro primo del Capitale, nel quale analizza il contributo dato anche dalla colonizzazione all’accumulazione capitalistica.

La colonizzazione rende indispensabile l'osservazione e lo studio di popoli diversi, dai quali emerse che molti aspetti del comportamento umano assai variabili non sono tutti riconducibili a un’ipotetica natura umana innata, a fattori puramente biologici, a differenze razziali e a fattori ereditari, ma sono in gran parte determinati da aspetti sociali, culturali e geografici, legati alle caratteristiche dell’habitat e allo sforzo degli esseri umani di adattarsi ai diversi ambienti, alle loro risorse, al clima. Tutto ciò non poteva, tuttavia, avvenire a caso, ma dovevano esserci delle correlazioni da scoprire tra ambiente, forma sociale, costumi, religione. Per fare degli esempi, la costituzione di ampi insediamenti genera la divisione sociale del lavoro e sostituisce quella precedente basata per lo più sul sesso e l’età. Le religioni monoteistiche, caratterizzate dalla visione unificante della realtà, sono senz’altro connesse al formarsi dello Stato, quale istituzione monopolizzante la forza e la coercizione. 

La scoperta di nuove forme di vita sociale, che gli europei finirono col distruggere, sterminandone gli attori sociali, generò stupore tra gli scopritori, essendo essi conquistatori, viaggiatori, commercianti, ecclesiastici, e stimolò una profonda riflessione sulla relazione tra uniformità della natura umana e sua straordinaria variabilità nelle sue manifestazioni concrete. 

Dal panorama fin qui tracciato possiamo dedurre che anche in questo caso si scontrano due impostazioni contrapposte: da un lato c’è chi mette l’accento sull’immensa mutevolezza umana e, pertanto, adotta prospettive idiografiche e relativistiche; dall’altro, c’è chi sostiene che, nonostante la variabilità sociale e culturale, vi sono elementi che accomunano a livello biologico, mentale, sociale le diverse genti che popolano il mondo. Del resto, siamo membri di una stessa specie. Non solo, le diverse forme di organizzazione sociale si fondano su elementi essenziali, senza i quali non sarebbero tali. La riflessione su questi elementi essenziali è stata ampia, profonda e sviluppata da autori assai differenti e appartenenti a discipline diverse. Mi limiterò a ricordare Sigmund Freud e Claude Lévi-Strauss, i quali hanno spiegato l’importanza del tabù dell’incesto, che sembra essere una regola universale, nella costituzione della forma sociale. Con esso si afferma la regolamentazione della vita sessuale e - come sostiene il fondatore della psicoanalisi – l’indispensabile repressione, che poi sfocia in certe determinazioni del comportamento. 

Come si diceva, un altro elemento fondativo della socialità è dato dalla necessità di produrre per sopravvivere e riprodursi, e quindi l’inevitabilità del lavoro cui è condannato Adamo nella Bibbia per espiare la sua colpa. Scrive Marx: “Il processo lavorativo…è attività finalistica per la produzione di valori d’uso, appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da qualsiasi forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana” (Il Capitale, L 1, Editori Riuniti, Roma 1997: pp. 126-128). 

Spesso i relativisti hanno accusato Marx di essere etnocentrico e essenzialista, per aver per esempio valutato in senso positivo il colonialismo e ipotizzato l’esistenza di un’essenza umana. Non sono della stessa opinione e ritengo che Marx abbia sviluppato un’antropologia essenzialistica relativizzata

Questa antropologia si fonda sul presupposto che la storia umana si dispieghi secondo un filo rosso, costante ma plastico allo stesso tempo, un elemento concreto di continuità, che non ostacola la realizzazione della varianti nelle diverse formazioni economico-sociali, descritte sulla base della letture del tempo, nelle Forme economiche precapitalistiche, che passano da una forma all’altra secondo processi non unilineari. L’utilità del presupposto sta nell’aver coniugato universale e particolare, struttura e processo, arricchendo le ottocentesche tematiche evoluzioniste in una prospettiva pienamente dialettica.

 

18/02/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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