Come denuncia Gramsci è lo stesso sviluppo storico (che ha prodotto la società capitalista) che, accentuando la divisione del lavoro e la specializzazione delle mansioni, tende a incrementare il divario fra dirigenti e masse, in primis nelle associazioni politico-sindacali. Nella “fase primitiva dei partiti” prevale il leader carismatico; si tratta d’una fase “in cui la dottrina si presenta alle masse come qualcosa di nebuloso e incoerente, che ha bisogno di un papa infallibile per essere interpretata e adattata alle circostanze” [1]. In tal modo si palesa una contraddizione fra scopi democratici dei partiti – imposti dal crescente ruolo delle masse nella vita politica – e le loro strutture oligarchiche. D’altra parte la disciplina di partito, per Gramsci criterio essenziale per giudicarne la capacità espansiva, è giustificata dal fatto che l’adesione dei membri alle sue regole interne avviene in modo spontaneo, di modo che: “la necessità è già diventata libertà” (7, 90: 920).
Si tratta di comprendere come esista “una sola politica, quella realistica, per raggiungere il fine voluto e che pertanto occorre stringersi intorno e obbedire proprio a quel principe che tali metodi impiega per raggiungere il fine, perché solo chi vuole il fine vuole i mezzi idonei a raggiungerlo” (14, 33: 1690-691). Il novello principe, avendo di mira la fondazione e in seguito la consolidazione di una nuova forma statale, assume di necessità un “carattere militare-dittatoriale” (13, 13: 1572) impostogli da tale fase di scontri decisivi per il potere. Ogni classe sociale si raggruppa nel concetto in un solo partito politico, è, dunque, necessario nella fase costituente di quest’ultimo “basarsi su un carattere «monolitico» e non su questioni secondarie, quindi attenta osservazione che ci sia omogeneità tra dirigenti e diretti” (13, 6, 1760). D’altra parte è proprio il fine di realizzare uno Stato più avanzato dal punto di vista sociale e democratico (quale potere delle masse popolari) a rendere “quasi sempre necessario (…) un partito fortemente accentrato” (2, 75: 236) [2]. Del resto, a parere di Gramsci, la stessa natura dei partiti di massa moderni è in quanto tale antidemocratica, in quanto un gruppo ristretto di intellettuali domina in modo sostanzialmente assolutistico su delle masse incapaci di un reale pensiero autonomo e critico: “si presentano pertanto due forme di «partito» che pare faccia astrazione [(come tale)] dall’azione politica immediata: quello costituito da una élite di uomini di cultura, che hanno la funzione di dirigere dal punto di vista della cultura, dell’ideologia generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà frazioni di uno stesso partito organico) e, nel periodo più recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile (spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo indirettamente per interposta persona e per «interposta ideologia»). La massa è semplicemente di «manovra» e viene «occupata» con prediche morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa di età favolose in cui tutte le contraddizioni e miserie presenti saranno automaticamente risolte e sanate” (17, 37: 1940).
D’altra parte, se nei sindacati e nei partiti riformisti lo scarto fra dirigenza e masse ha un fondamento di classe (intellettuali piccolo-borghesi e militanti proletari), nel partito rivoluzionario non essendoci tale differenza la contraddizione fra scopi democratici dei partiti e loro direzione oligarchica tende per Gramsci a venir meno: “la questione diventa puramente tecnica – l’orchestra non crede che il direttore sia un padrone oligarchico – di divisione del lavoro e di educazione” (2, 75: 236). In tal caso, il dirigente (del partito rivoluzionario) deve svolgere una funzione “costituente” volta al conseguimento di quei fini politici della cui realizzazione le masse stesse saranno protagoniste e non considerarle “uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via” (6, 97: 772). Da qui la imprescindibile differenza che vi è fra i partiti rivoluzionari e i partiti che pur presentandosi in questa veste svolgono, di fatto, una funzione controrivoluzionaria (ogni allusione al fascismo è puramente voluta): “la funzione di polizia di un partito può dunque essere progressiva e regressiva: è progressiva quando essa tende a tenere nell’orbita della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare al livello della nuova legalità le masse arretrate. È regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta estrinseca» (14, 34: 1691-692) [3].
Il progressivo sostituirsi nei partiti politici della direzione collettiva al dominio carismatico porta a un ulteriore sconvolgimento degli schemi interpretativi del positivismo. L’intellettuale collettivo, prodotto del legame organico fra masse, “partito, gruppo dirigente e tutto il complesso, bene articolato”, si sostituisce all’intuizione “sorretta dalla identificazione di leggi statistiche” del singolo dirigente nella conoscenza e nella selezione dei bisogni reali delle masse popolari da cui trarre indicazioni per un programma politico fondato mediante la “«compartecipazione attiva e consapevole», per «con-passionalità»” (11, 25: 1430) dei singoli membri fusi nell’organismo collettivo. Lo stesso “processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale (cioè prodotto dall’esistenza ambiente di condizioni e di pressioni simili) diventa” – mediante lo sviluppo di “partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa” – sempre più “consapevole e critico” (ibidem). In caso contrario si rischia che nelle svolte decisive del corso storico i dirigenti passino al loro effettivo partito di provenienza lasciando la massa degli iscritti incapace di direzione politica. Allo stesso modo nei frangenti storici decisivi il partito corre il rischio di perdere la propria determinazione sociale se in esso prevale la “forza consuetudinaria a conservatrice” (13, 23: 1604) della burocrazia che si pone per sé in contrapposizione alla massa.
Onde evitare il tradimento dei capi (intellettuali tradizionali) nelle svolte decisive o più semplicemente ogni scollamento fra intellettuali e masse, che renderebbero i militanti di un partito mero “accessorio” complementare e subordinato ai dirigenti-intellettuali, è indispensabile la formazione di “intellettuali organici” alla classe (operaia/proletaria), in un processo “legato a una dialettica intellettuali-massa; lo strato degli intellettuali si sviluppa quantitativamente e qualitativamente, ma ogni sbalzo verso una nuova «ampiezza» e complessità dello strato degli intellettuali è legato a un movimento analogo della massa di semplici, che si innalza verso livelli superiori di cultura e allarga simultaneamente la sua cerchia di influenza, con punte individuali o anche di gruppi più o meno importanti verso lo strato degli intellettuali specializzati” (11, 1: 1386) [4].
Occorre, dunque, “lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa lavorare a suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa per diventarne le «stecche» del busto” (11, 1: 1392). La funzione fondamentale del partito politico è quella “di elaborare i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come «economico», fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori” (12, 1: 1522). In tal modo gli intellettuali tradizionali membri del partito tendono a fondersi con gli intellettuali organici. I subalterni possono elaborare i propri intellettuali organici unicamente mediante il partito politico, i quali, dunque, a differenza degli intellettuali organici alla borghesia, si formano “direttamente nel campo politico e filosofico e non già nel campo della tecnica produttiva” (ibidem).
Per Gramsci le élite rivoluzionarie di tale partito, essendo composte da intellettuali organici alla loro classe di riferimento, non hanno valore di per sé, ma mirano a divenire, osserva acutamente Gramsci, “funzioni specializzate” di organismi di massa “complessi e regolari” (13, 18: 1676), che non puntano a perpetuare la loro funzione direttiva, ma sono organiche a una massa sociale resa omogenea e compatta, al punto da potersi costituire in intellettuale collettivo.
Note:
[1] Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977, p. 233. D’ora in poi citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e il numero di pagina di questa edizione.
[2] D’altronde, osserva a ragione Gramsci ancora a questo proposito, “questo principio ha importanza politica perché la verità teorica che ogni classe ha un solo partito è dimostrata, nelle svolte decisive, dal fatto che aggruppamenti vari, ognuno dei quali si presentava come partito «indipendente», si riuniscono e bloccano in unità. La molteplicità esistente prima era solo di carattere «riformistico», cioè riguardava questioni parziali, in un certo senso era una divisione del lavoro politico (utile, nei suoi limiti); ma ogni parte presupponeva l’altra, tanto che nei momenti decisivi, cioè appunto quando le questioni principali sono state messe in gioco, l’unità si è formata, il blocco si è verificato” (15, 6: 1760).
[3] Gramsci prosegue la sua dinamica critica del rapporto fra Partito e masse con un’altra significativa riflessione che conviene citare per intero: “cosa sarà la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della vita interna di una organizzazione politica? come essa nasce, i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà, adunque, essere più vasta e comprensiva. Si dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con la sua fiducia, con la sua lealtà, con la sua disciplina o li avrà criticati «realisticamente» disperdendosi o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma questa massa sarà costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà sufficiente seguire i congressi, le votazioni, ecc., cioè tutto l’insieme di attività e di modi di esistenza con cui una massa di partito manifesta la sua volontà?” (13, 33: 1629-630).
[4] Gramsci cita l’esempio emblematico del radicale Clemenceau che “non si curava di sapere se le masse, una volta scosse dalle vacue declamazioni dei capi, non avrebbero saputo trovare nel loro seno dei direttori capaci di condurle verso delle regioni che i capi della democrazia non potevano neppure sospettare” (10, 40: 1324).