La pubblicazione della lettera aperta “contro il declino dell’italiano a scuola”, scritta dal Gruppo di Firenze e firmata da uno stuolo di 600 professori universitari, ha suscitato un forte dibattito, non privo di polemiche.
Con un testo dal tono spocchioso e paternalistico, questi baroni, dall’alto delle loro cattedre accademiche, si rivolgono direttamente al Presidente del Consiglio, al ministro dell’istruzione ed al Parlamento, lamentandosi delle carenze linguistiche e grammaticali degli studenti italiani: i giovani non sanno più scrivere, non conoscono la grammatica e commettono errori da terza elementare. Tutto è ridotto ad una questione formale e tecnica, politicamente neutra, senza nessuna analisi di quello che è il problema reale: lo smantellamento del sistema di istruzione pubblica e statale perpetrato in maniera scientifica e sistematica dai governi che si sono succeduti dal 2008 ad oggi, ma che affonda le sue radici già nelle riforme Berlinguer e Moratti.
In trent’anni di scellerate riforme, sono state distrutte le basi costituzionali della scuola statale, attraverso un lungo processo di aziendalizzazione che ha trovato la sua piena realizzazione con la Legge 107 del governo Renzi.
La scuola-azienda è innanzi tutto la scuola del “saper fare”, che sostituisce le conoscenze con le competenze, la didattica con i progetti, perché l’importante è essere competitivi sul mercato, sbaragliare le altre scuole con un’offerta più accattivante e, soprattutto, accedere ai finanziamenti, non solo pubblici, ma anche privati.
Il paradigma della produttività e della competitività ha definitivamente sostituito quello della collegialità, e l’unica legge che governa la scuola è, ormai, quella del profitto. L’istruzione è una merce, e gli studenti sono ridotti a semplici consumatori.
La lettera dei 600 lamenta le carenze degli studenti italiani, ma non fa il benché minimo riferimento ai tagli indiscriminati che hanno depauperato la scuola statale delle risorse materiali, intellettuali e culturali necessarie. Basti ricordare gli 8 miliardi di tagli operati dal duo Gelmini-Tremonti.
Ma, soprattutto, è stata completamente snaturata la sua funzione essenziale, quella di educare al pensiero critico, formando menti libere, capaci di mettere in discussione la visione del mondo ed i modelli imposti dalle classi dominanti. Da fucina di pensiero critico e luogo di formazione di cittadini consapevoli, la scuola statale è stata trasformata in un’azienda “modello Marchionne” dove, non solo si riproducono gli stessi meccanismi di sfruttamento, controllo e gerarchizzazione, ma si attua una produzione in serie, in ottemperanza ai dettami neoliberisti, di menti omologate e perfettamente plasmate all’ideologia dominante.
Gli studenti non sanno più scrivere correttamente? Questi grandi luminari dovrebbero ben sapere, che esiste un nesso indissolubile tra pensiero e linguaggio. L’obiettivo delle riforme che hanno distrutto la scuola statale era proprio questo: disabituare i giovani a pensare, ad argomentare, a discutere, a confrontarsi.
Tutto va in questa direzione: l’eliminazione del modulo alla scuola primaria, fiore all’occhiello del sistema scolastico italiano, con il ritorno al maestro unico; la riduzione delle ore delle discipline umanistiche; l’aumento del numero degli alunni per classe; l’ossessione per i quiz a crocette, mascherata da esigenza di una presunta oggettività, sotto l’egida dell’INVALSI.
L’ultimo capitolo di questo processo è stato scritto dal governo Renzi con l’introduzione della cosiddetta alternanza scuola-lavoro, che toglie i ragazzi dalle aule durante le ore curriculari, privandoli del loro diritto allo studio, per farli sfruttare come forza-lavoro gratuita da imprese, multinazionali e banche. Insomma, il disegno è chiaro: la scuola deve plasmare giovani precari da gettare, come carne da macello, in un mercato del lavoro sempre più vorace, regolato dal Jobs act. Se non hanno le basi linguistiche e culturali, ancora meglio. Saranno sfruttati e asserviti più facilmente..
Ma, dov’erano questi baroni universitari quando docenti e studenti in piazza e in ogni luogo possibile, protestavano per difendere il diritto allo studio e mettevano in campo le loro proposte? Forse, arroccati nei loro feudi, chiusi in una botte di ferro? Forse, a scrivere articoli e saggi sulla valutazione ed il merito? E perché solo adesso si lamentano, con il tono tipico di chi pontifica senza alcuna intenzione di scalfire quel sistema di cui sono parte integrante?
In un’ipotetica risposta del governo e del MIUR alla lettera dei 600, probabilmente, ci sarebbe scritto: “Grazie, abbiamo fatto del nostro meglio, l’obiettivo è stato raggiunto”.
La risposta reale, invece, deve scaturire da noi, dal mondo della scuola, dai docenti e dagli studenti che stanno pagando a caro prezzo le conseguenze di queste riforme. Ma non è sufficiente. La battaglia per la difesa della scuola pubblica e per il diritto allo studio deve connettersi alle altre lotte contro le politiche neoliberiste, per ricostruire quella coscienza di classe necessaria a superare le frammentazioni e la “guerra tra poveri” che il capitalismo produce, e per cambiare lo stato di cose presente.
Arianna Ussi, è docente precaria attiva nel movimento degli insegnanti e dirigente comunista