Per il comunismo. Il concetto di classe

La crisi del Pci è dipesa anche da un’inadeguata definizione del concetto di classe. A tal fine è determinante il ruolo dei soggetti nell’attività lavorativa e le modalità del suo svolgimento. Accanto alla classe operaia dell’industria devono essere prese in considerazione oggi molte altre figure alle dipendenze di fatto del capitale per la sua valorizzazione e gli esclusi dal lavoro.


Per il comunismo. Il concetto di classe

Premessa

In un precedente articolo sulla crisi del Pci individuavo, tra gli altri, due punti fondamentali che credo abbiano minato le sue capacità interpretative e di reazione ai cambiamenti di fase del modo di produzione capitalistico. Il primo è una inadeguata definizione del concetto di classe, il secondo un’incapacità di individuare le dinamiche concrete di trasformazione materiale dei processi economico-sociali e del loro connesso riverbero ideologico. In questa sede vorrei riprendere la prima delle due questioni.

Nella storia del Pci la declinazione fondamentale del concetto di “classe” è consistita nell’identificazione privilegiata del soggetto antagonista nella “classe operaia”. Nella dinamica storico-politica e poi nell’evoluzione della teoria dell’egemonia, essa si è estesa a includere nel “blocco storico” i contadini, al punto che sulle bandiere rosse sventolavano la falce e il martello. Il grande valore di questa alleanza e la sua centralità in una fase determinata della storia contemporanea dettero, da una parte, grande forza a quel movimento nella fase in cui essa sembrava effettivamente incarnare la soggettualità preponderante. È invece sembrato che il declino di quelle istanze reali sancisse una crisi definitiva anche del partito che se ne dichiarava portavoce, almeno nel cosiddetto mondo occidentale avanzato. I mutamenti storici che hanno ridefinito decisamente le configurazioni determinate della lotta di classe hanno lasciato spiazzati un po’ tutti. Il Pci non ha trovato risposte alla domanda cruciale di come la sua teoria di riferimento, il marxismo, potesse riuscire a interpretare il mondo senza la classe operaia, che pareva esserne la pietra angolare. Questo, da un punto di vista teorico e organizzativo, è stato secondo me uno dei nodi. L’altro, altrettanto fondamentale, è stata l’incapacità di pensare alternative al capitalismo, una volta che il modello sovietico veniva dato per non praticabile a partire dalla fine degli anni Sessanta. Anche qui l’incapacità di analisi della crisi di quel modello e quindi di l’elaborazione di schemi alternativi è stata, credo, evidente [1]. Questi secondo me due temi centrali senza dare una risposta ai quali anche una ripartenza politica e organizzativa, seppur nel lungo periodo, resta difficile. In questa prospettiva, dedicherò qui alcune considerazioni a una possibile riformulazione del concetto di classe in una chiave che, da una parte, salva l’esperienza storica del movimento operaio come “figura” determinata, dall’altra individua “forme” tuttora attuali e utilizzabili in chiave politica. Se la dialettica di forma e figure è il primo concetto chiave, il secondo è l’articolazione “geograficamente” più articolata di classe nel “capitalismo crepuscolare”, in cui le figure di soggettualità si delineano maniera ancora più complessa e stratificata. 

Per una riformulazione del concetto di “classe”

1. In termini marxiani, la determinazione di classe è funzionale, vale a dire dipende dal ruolo specifico e dalle modalità determinate in cui i soggetti espletano la loro attività lavorativa. Questa determinazione obiettiva si configura a prescindere dal fatto che i lavoratori ne siano consapevoli o meno (possono in realtà pensare anche l’opposto di quello che fanno; vedi la questione dell’egemonia). La percezione fenomenica della loro forma, vale a dire dell’azione obiettiva, ha luogo a livello sovrastrutturale e si realizza in figure storiche che effettivamente agiscono; riportare queste figure alla forme, ovvero percepire il proprio fare storico-determinato come un esempio storico di una forma del produrre non è sempre semplice. È più semplice in certe fasi (grande fabbrica, operaio massa), più difficile in altre (automazione, informatizzazione). 

Sempre, ma in modo particolare quando la percezione è meno semplice, interferisce la coscienza di ceto sopra quella di classe; vale a dire che l’identificazione di sé non è più funzionale, ma basata su classificatori sociologici ed esperienziali come tenore di vita, livello di reddito, ecc. L’identificazione non è più basata sul ruolo, ma su dinamiche empirico fenomeniche data la sostanziale individualità personale come fondamento dell’aggregazione. La dialettica non appare più di classe ma caratterizza e descrive l’individuo e la sua appartenenza a un determinato ceto (o passaggio a uno superiore o caduta in uno inferiore). Si pensi al concetto tipicamente anglosassone di middle class.

2. Si diceva del carattere funzionale della classe; vediamo qualche precisazione su questo punto. La prima cosa da mettere in chiaro è che nella teoria di Marx l’altro del capitale non è l’operaio di fabbrica, ma il lavoratore salariato. Capitale-lavoro salariato è la dicotomia nella quale gli elementi del processo lavorativo (lavoro e mezzi di produzione) si articolano; è la modalità specificamente capitalistica in cui essi vanno a unirsi nel modo di produzione capitalistico. Il primo errore è quindi immaginare che questa funzione, dal lato del lavoro, sia rappresentata solo dall’operaio. Il secondo, altrettanto grave, è pensare l’uno dei due lati del rapporto senza l’altro: il rapporto di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del nesso che si instaura tra lavoro vivo e lavoro morto, tra attività lavorativa e mezzo e oggetto di lavoro; dunque capitale/lavoro salariato è un nesso e uscirne significa concepire una nuova articolazione di questa forma storicamente determinata del nesso. Essere per il superamento del modo di produzione capitalistico ha quindi un senso non velleitario solo se si lotta per una riconfigurazione del nesso, non semplicemente contro il capitale come uno dei due termini del nesso. Marx chiama “capitale” sia il nesso nel suo complesso (il modo di produzione capitalistico) sia una dei due lati del nesso (quello impersonato dal capitalista come portatore materiale di mezzo e oggetto di lavoro). L’incomprensione della differenza tra capitale come nesso complessivo e capitale come uno dei due elementi del nesso sta alla base di molti errori teorici e pratici.

La dimensione del capitale nel nesso complessivo non è semplicemente la persona del capitalista, o del manager o del facente funzione. Ciò significa che la gamma di scelte possibili che chi gestisce da posizione apicale il processo di riproduzione può compiere sia incardinata in una dinamica obiettiva complessiva che, come contesto, si colloca al di sopra delle sue possibilità decisionali. Qui non ci sono variabili indipendenti, è il sistema che si muove con una meccanica ben determinata solo all’intero della quale esiste una gamma di scelte possibili da entrambe le parti. Credere, in termini generali, che scelte arbitrarie siano in grado di orientare il processo è, per Marx, una ingenuità.

3. Si diceva che il lato del lavoro non può essere ridotto all’operaio. Quest’ultimo costituisce una delle figure storiche più significative a oggi conosciute di questa forma di movimento del sistema capitale, ma non certo l’unica possibile. Si tratta di individuare quali elementi permettano di definire funzionalmente l’appartenenza alla classe dei lavoratori. Non è quindi la compresenza nella fabbrica, il simile trattamente salariale o stile di vita e chi più ne ha più ne metta; si tratta di capire la funzione del lavoratore nel sistema e in base a essa determinarne l’appartenenza di classe. Per essere sussunto al capitale e quindi elemento della realizzazione del processo di valorizzazione è necessario:

a) scambiare la propria forza-lavoro contro capitale, ricevere un salario. Questo può avvenire nelle forme più disparate, dalle tradizionali a quelle mascherate dal cottimo o dalla partita IVA. Oppure nelle varie forme di neocaporalato virtuale possibile grazie alle nuove applicazioni smart o a siti altrettanto intelligenti. 

b) Valorizzare il capitale. La propria prestazione è parte di un processo che, nelle intenzioni del capitalista, porta alla valorizzazione del capitale investito. Ciò può avvenire anche in maniera mediata che pare salvaguardare la mia “autonomia” di lavoratore. Vedi punto 1. Contribuire alla valorizzazione del capitale non significa necessariamente produrre materialmente il plusvalore, ma anche essere parte dei processi altrettanto necessari affinché la valorizzazione avvenga: promozione, distribuzione, vendita, e via dicendo.

La prestazione avviene in modalità storicamente determinate imposte progressivamente dal modo di produzione capitalistico: carattere cooperativo del lavoro (questa cooperazione può avvenire anche tra persone che si trovano a migliaia di chilometri di distanza attraverso internet o un’applicazione). Il carattere parziale dell’attività (il lavoratore non sa più realizzare tutto il prodotto ma solo una parte). Il suo carattere addirittura d’appendice (il processo complessivo è strutturalmente autonomo e il lavoratore ne realizza un dettaglio). La dimensione sociale, vale a dire la finalità complessiva del processo che si va a realizzare, non è posta dal lavoratore ma da qualcuno sopra di lui e egli vi si deve sussumere senza che essa sia neanche da lui conosciuta nella sua complessità (il processo può sfociare nell’esclusione del lavoratore dal processo attraverso l’automazione completa).

Queste caratteristiche funzionali, di forma, possono essere “incarnate” da una moltitudine di figure diverse che restano membri della “classe lavoratrice” in virtù del loro ruolo funzionale specifico. Ciò permette di ricondurre alla stessa definizione di lavoratore una amplissima tipologia di attività, contro la parvenza ideologica della scomparsa del lavoro o della sua radicale trasformazione. Le modalità capitalistiche di espletazione sopra indicate si applicano tanto all’operaio tradizionale quanto al lavoro atipico contemporaneo. Ciò permette sia di salvare che rendere operativamente applicabile la categoria di classe.

4. Capitalismo crepuscolare. Ciò detto, bisogna considerare le dinamiche di lungo corso del modo di produzione capitalistico. Nella sua tendenza di lungo periodo, la meccanica del sistema pone la questione della crescita esponenziale della composizione tecnica del capitale (rapporto tra macchinari e lavoratori) e quindi quella di una potenziale caduta non solo del saggio, ma addirittura, relativamente, della massa del profitto. Vale a dire che l’automazione, determinata dalla produzione del plusvalore relativo, porta a un impiego sempre minore di lavoro vivo. D’altro canto, il modo di produzione capitalistico sussiste solo in quanto c’è estrazione di plusvalore dal lavoratore, quindi si crea un vincolo irrisolvibile per il quale da una parte c’è bisogno del lavoratore e dall’altra lo si espelle dal sistema. Questo alla fine porta al collasso strutturale del sistema, almeno a livello teorico, in quanto la valorizzazione diventa impossibile. La conseguenza è che il carattere elastico dell’esercito industriale di riserva - della disoccupazione - viene a mancare e quindi la capacità di riassorbimento nel processo di lavoratori espulsi diventa sempre più difficile se non in linea di principio impossibile. Ciò implica all’interno del sistema, in maniera speculare alla determinazione della classe lavoratrice, una massa sempre maggiore di individui che non lavorano e che non lavoreranno. Ne consegue che il sistema avrà tre livelli generali in cui si configurano i lavoratori potenziali:

a) I lavoratori attivi nel sistema capitalistico vero e proprio, caratterizzati dalle modalità indicate sopra.

b) Gli esclusi all’interno del sistema capitalistico, una massa sempre maggiore di individui che, non riassorbibili, vivono delle briciole. Essi sono perfettamente funzionali e parte di esso nella forma dell’esclusione. La loro auto-percezione è quella dell’individuo atomico autoreferenziale e può portare alla crisi del concetto di persona universale [2].

c) Un terzo livello cruciale: quelle ingenti masse sparpagliate in tutto il mondo che mai entreranno pienamente nel sistema capitalistico oramai incapace di espansione organica complessiva, ma che da esso dipendono per le dinamiche mondiali della riproduzione sociale. Queste popolazioni mai faranno esperienza del “progresso” capitalistico alla maniera occidentale e quindi la loro “funzionalità” contempla configurazioni precapitaistiche, che tuttavia sono subordinate nella loro esistenza e riproduzione alla dinamica riproduttiva del capitale globale.

Se quanto detto ha un senso, tutte e tre queste categorie hanno interesse funzionale a superare il modo di riproduzione capitalistico. Organizzarle, far loro comprendere la comune appartenenza di classe è uno dei complessi compiti politici che ci sta di fronte.

Questa categorizzazione, qui schematicamente introdotta, può forse individuare le coordinate generali per individuare soggetti cui rivolgersi e una strumentazione categoriale per mostrare loro il ruolo funzionale che hanno nel sistema; ne emerge anche come solo da una riorganizzazione di detto sistema (il nesso storicamente determinato di struttura/sovrastruttura) si possa indicare una via di uscita. Qui subentra allora la seconda delle domande posta all’inizio, vale a dire il tema della transizione e delle nuove forme determinate del nesso. A questo bisogna ancora lavorare.

 

Note:

[1] Alcuni elementi di approfondimento su quanto qui riassunto li si possono rintracciare nell’altro articolo menzionato.

[2] Sulla crisi del concetto di persona si veda questo testo. Per una trattazione più accademica: Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Bologna, Il mulino, 2020, pp. 157-173.

22/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Roberto Fineschi

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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