100 anni di Pci. Riflessioni aperte

La crisi e l’ingloriosa fine del Pci sono dipese da trasformazioni storiche epocali del modo di produzione capitalistico; mancarono allora e mancano oggi risposte intellettuali e pratiche all’altezza delle sfide da affrontare. Individuare le semplificazioni teoriche su cui quella politica si basava è un primo necessario passo per cercare risposte alternative.


100 anni di Pci. Riflessioni aperte

Se ha ancora senso continuare a dirsi comunisti, cercare di trasformare il mondo per renderlo più giusto, libero, vivibile, le ragioni di una lotta non si possono limitare alla difesa della propria sopravvivenza o a un astratto senso di umanità o al disgusto per il sopruso. A questo fine sembra che oggi sia di nuovo necessario fare il fatidico passaggio dall’utopia alla scienza, o meglio raffinare la nostra scienza. A dispetto di quanto possa pensare il senso comune, infatti, anche la scienza si muove, cambia, sia soggettivamente che oggettivamente: non solo si capisce sempre di più e in forme rinnovate, ma anche l’oggetto della conoscenza si modifica, ha una storia e con lui la nostra comprensione di esso. Anche il modo di produzione capitalistico ha una sua storicità e quindi la comprensione che ne abbiamo deve adeguarsi alle sue fasi. Questo non significa che quanto si credeva prima fosse sbagliato, ma che diventa parte di sviluppi più complessi. Il mancato adeguamento è stata, credo, una delle concause della crisi profonda del marxismo e dei partiti che a esso si ispiravano. Il Pci non ha fatto eccezione.

Che cos’era diventato il marxismo-leninismo del Pci? Procedendo in maniera estremamente schematica e inevitabilmente approssimativa, si possono forse individuare alcuni punti chiave:

1. la classe operaia come soggetto antagonista; l’idea della tendenziale polarizzazione sociale in operai contro capitalisti;

2. l’alleanza con i contadini per la formazione del blocco storico;

3. il partito come soggetto organizzativo con una sua struttura centrale forte e una sua capillare diffusione nella produzione e nella società civile;

4. proprietà e gestione statale della produzione come obiettivo di lungo termine in cui consisteva la realizzazione del socialismo, più o meno sulla falsariga del modello sovietico; il concetto di egemonia per la progressiva formazione di un senso comune di sinistra che andasse di pari passo con le modifiche di struttura;

5. l’idea che la questione strutturale fosse risolta, nel senso che, come sostiene Gramsci nei Quaderni, le premesse materiali erano già poste. Da questo punto di vista la questione della rivoluzione diventava squisitamente – o esclusivamente – sovrastrutturale. 

Se questa sommaria schematizzazione può costituire un primo punto di partenza, che cosa ne resta dopo i cambiamenti avvenuti nella dinamica del modo di produzione capitalistico dalla prima fase del dopoguerra a oggi?

A partire degli anni Cinquanta i contadini scompaiono o quasi. Con gli anni Settanta, con l’inizio dell’automatizzazione, delocalizzazione ecc. anche gli operai tendono a diminuire. La società, ben lungi dal polarizzarsi in operai e capitalisti, tende piuttosto a moltiplicare gli attori che sembrano sempre più differenziarsi per tipologia lavorativa. Con questo gli assunti 1 e 2 sono entrati in profonda crisi. A chi rivolgersi allora? Quali i soggetti storici del cambiamento? Soprattutto per diventare maggioranza?

Veniamo al punto 4: la progressiva proprietà e gestione statale dell’economia all’occidentale pareva il modello più efficace; questo però metteva in crisi l’idea di “andare fino in fondo”, vale a dire statalizzare tutto, perché quella sarebbe stata l’Unione Sovietica che funzionava peggio da qualsiasi punto di vista: produttivo, sociale, giuridico. Quindi, mancando l’alternativa, l’unica cosa realisticamente praticabile era quanto proponeva l’occidente più socialmente avanzato, vale a dire la socialdemocrazia. Se da una parte questa scelta poteva essere accusata in quanto moderata, dall’altra era evidentemente dettata dalla mancanza di un modello alternativo da proporre (a parte i salti nel buio per realizzare non si sa bene che cosa).

Il gettarsi nelle braccia dell’Occidente per quanto riguarda la teoria delle questioni strutturali era conseguenza del punto 5: se infatti si considerava la questione della struttura come sostanzialmente risolta e si trattava solo di gestire il passaggio, si rinunciava a sviluppare un’autonoma teoria “economica”, non si riusciva a pensare il nesso di struttura/sovrastruttura e, quindi, come esso co-determinasse i soggetti e le prospettive di trasformazione storica.

Con i cambiamenti storici epocali a partire dagli anni Cinquanta e poi ancora più drasticamente con gli anni Settanta (nell’arco di vent’anni l’Italia passa da paese agricolo a paese postindustriale), dunque, veniva progressivamente meno tutto quel mondo reale su cui quell’apparato teorico insisteva. Restava solo il partito come struttura gestionale centrale e organizzata territorialmente. La strategia possibile non poteva allora che essere il “governismo” per fare la socialdemocrazia in maniera più efficiente e onesta dei corrotti e maldestri democristiani. Questa prospettiva, del resto sempre meramente teorica fin quando ha continuato a esistere l’Unione Sovietica perché sul Pci al governo continuava a pesare il veto atlantico, significava diverse cose:

- accettare la socialdemocrazia come “struttura”;

- rivolgersi genericamente a un popolo eterogeneo senza connotazione di classe come elettorato di riferimento;

- l’esito inevitabilmente consociativo di questa pratica portava ad andare sempre più incontro alle “esigenze imprenditoriali”; questo anche perché, non avendo un’idea specifica di sviluppo economico, si finiva per inseguire idee e proposte di chi aveva qualcosa da dire, cioè del capitale;

- ridisegnare una prospettiva “di sinistra” come promozione di diritti civili (quelli così sacrificati in Unione Sovietica, serviva anche per rifarsi la faccia) e il mantenimento (ma sempre un po’ meno) dei diritti sociali conseguiti in decenni di lotte di un tempo (quelle di classe); ma senza un’idea degli andamenti storici e una teoria economica alternativa, alla fine non restava che mangiare la pappa cotta dal capitale che invece aveva le idee chiarissime e sempre più si muoveva in una direzione neoliberista;

- il partito organizzato veniva quindi utilizzato proprio come canale di diffusione della controrivoluzione liberale imponendo lui quelle scelte contro cui aveva scioperato in massa fino a due giorni prima; una volta ottenuto questo risultato non restava che smantellarlo come soggetto politico e territoriale organizzato e riconfigurarlo come il vecchio comitato d’affari la cui unica connotazione di sinistra restava la difesa “liberal” dei diritti civili e di un qualche stato sociale.

Le trasformazioni storico-sociali del capitalismo crepuscolare hanno mischiato le carte; la vecchia strumentazione non aveva categorie per comprendere e agire in questa nuova realtà e infatti le risposte alle nuove istanze reali non ci sono state. Questo anche perché quella teoria era il risultato di una inevitabile schematizzazioneche ne aveva ridotto le capacità interpretative in modo tale da funzionare bene in un certo momento, ma risultando inadeguata a pensare il cambiamento. Si era del resto persa la percezione della differenza tra le potenzialità generali di quella teoria e la sua semplificazione per scopi tattici e politici determinati. Non cogliendo più la differenza si finì per scambiare la semplificazione per la teoria stessa. La teoria in quei termini era effettivamente inutilizzabile fuori da quel contesto, ma non si capì che l’unica strada effettivamente anticapitalista era una sua ripresa in termini più corretti e generali; perché colta nelle sue linee epocali era tutt’altro che fallace o contraddetta dalle dinamiche di lungo termine del modo di produzione capitalistico [1].

A rischio di ulteriori semplificazione ma cercando di andare avanti con il ragionamento, credo che i nodi preliminari veramente cruciali da un punto di vista teorico, in particolare nella prospettiva di dare un retroterra operativo a un partito, siano due: 1) la questione dei soggetti storici, 2) le forme della transizione e quelle di una eventuale società futura (ma non per come ce la immaginiamo idealmente nella nostra mente, piuttosto per come viene sviluppandosi attraverso i processi reali. In questo senso dire che la prospettiva futura è la socializzazione dei mezzi di produzione e la fine della divisione del lavoro non significa praticamente niente, perché se non si ha un’idea delle forme e delle figure in cui ciò dovrebbe realizzarsi è come parlare dell’abolizione del piffette e del poffete). In questo prospettiva, se ripresa in termini più accurati, la teoria di Marx ha qualcosa da dirci? Credo proprio di sì [2]. 

Ci sarebbe ovviamente una terza questione, quella delle forme della lotta; la forma partito tradizionale è stata capace di successi ineguagliati, ma ha portato con sé anche problematiche di gestione e di partecipazione, sollevate con veemenza dall’ondata libertaria del Sessantotto, nei confronti della quale il partito si è trovato del tutto impreparato e sostanzialmente estraneo. La mediazione delle istanze organizzative e spontaneiste è una questione vecchia quanto il movimento dei lavoratori e anche qui non sembra semplice trovare una sintesi. L’incapacità del Pci di comprendere e dialogare con queste esigenze “individualistiche” contemporanee è sicuramente stato un problema di rilievo, che però, a mio parere, non costituisce la causa fondamentale della sua crisi. Infatti il Pci è stato capace di resistere alla suddetta estraneità al Sessantotto, agli attacchi del terrorismo sia di destra che di sinistra negli anni Settanta, all’“atlantismo” palese e sotterraneo, alla palude degli anni del pentapartito in cui è stato marginalizzato e costretto all’impotenza politica. Ha resistito numericamente anche come Pds, Ds e pure adesso il Partito Democratico gode, con sommo demerito, di quella eredità storica con numeri ragguardevoli. Questo non per dire che andava bene così com’era, ma solo che non è questa la causa della sua involuzione. Credo che le ragioni principali siano invece le due che indicavo, vale a dire che, non cogliendo le trasformazioni storiche del capitalismo crepuscolare [3], non è stato in grado di aggiornare la propria identità e strategia politica, e individuare soggetti storici e dinamiche di fondo del processo, quindi, alla fine, le forme della trasformazione.

Non è qui possibile procedere con la “pars construens”, ma già in questo giornale c’è stato modo di parlare di “cassetta degli attrezzi” marxiana, testo a cui rimando, oltre a quelli citati nelle note. Detto solo di passaggio, si tratta da un lato della ridefinizione funzionale del concetto di classe lavoratrice (non solo operaria), della distinzione traforme figure e dell’individuazione dei processi di atomizzazione in atto nel capitalismo crepuscolare; dall’altro delle tendenze di lungo periodo, epocali, del modo di produzione capitalistico con la formazione progressiva del “lavoratore complessivo”, cioè della creazione dell’umanità come un reale concreto e non una mera astrazione. È bene aver chiaro tuttavia che di automatico e necessario non c’è niente; si tratta di processi obiettivi che pongono delle possibilità reali, nel senso checerte trasformazioni sono effettivamente possibili perché ne esistono le premesse materiali e sociali; passare dalla possibilità reale alla realtà effettiva tuttavia non è automatico e neppure meccanicamente necessario. Per questa ragione c’è ovviamente da rimboccarsi le maniche, ma con la consapevolezza che la teoria marxiana, assai meglio di quelle mainstream, ha colto le dinamiche di fondo del modo di produzione capitalistico e, pur con i limiti della sua incompiutezza, permette tuttora di orientarvisi. Sono ovviamente questi solo elementi di un lavoro che non può certo essere solo teorico, ma deve essere anche sociale, politico, organizzativo. Tuttavia, sono convinto che senza un apparato teorico adeguato anche le altre attività ne risentano negativamente, in certi casi ponendo addirittura il drammatico rischio della dispersione atomica se non della dissoluzione di un movimento politico che si vuole dire comunista; tema questo quanto mai attuale. Condividere una strumentazione efficace può essere un punto di partenza per una prassi unitaria.

 

Note:

[1] Per una trattazione schematica delle prospettive aperte da una rilettura di Marx in termini più aggiornati mi permetto di rimandare a questo testo: Un nuovo Marx. Per una rigorosa analisi delle categorie marxiane rimando invece al mio Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, La Città del Sole, Napoli 2001.

[2] Come introduzione alla questione dei soggetti storici e delle epoche storiche in forma divulgativa rimando a questo testo. In maniera più accademica si veda il mioUn nuovo Marx. Filologia e interpretazione dopo la nuova edizione storico-critica (MEGA2), Carocci, Roma 2008, cap. 3. Sui limiti e un ripensamento del concetto di rivoluzione, si veda invece qui.

[3] Per un’introduzione al concetto di “capitalismo crepuscolare” rimando a questo testo. Per una trattazione più accademica: Violenza e strutture sociali nel capitalismo crepuscolare, in Violenza e politica. Dopo il Novecento, a cura di F. Tomasello, Il Mulino, Bologna 2020, pp. 157-173.

08/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Roberto Fineschi

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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