Pci: le lezioni di una storia

L’abbandono dei principi fondativi del partito di Gramsci è alla radice della fine del Pci. Come superare l’attuale frammentazione dei comunisti e rilanciare il loro protagonismo nella società italiana.


Pci: le lezioni di una storia

Come premessa a questo contributo in occasione del centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano, c’è un aneddoto personale che ci fa piacere condividere e che ci pare sia significativo per comprendere, pur nella complessità di quell’esperienza e nelle sue contraddizioni, la sua grandezza. Durante l’ultimo congresso, quello di scioglimento del partito, nostra madre/nonna, in un momento di attesa durante lo svolgimento dei lavori e delle votazioni nella sezione locale della nostra piccola città, in piedi, irrequieta, l’aria tetra e mesta, disse queste parole: “Stiamo facendo la veglia al morto”.

Non dimenticheremo mai quell’immagine e quelle parole, ricche di significato nella loro tragica semplicità. Perché quella semplice frase restituisce la misura di cosa abbia rappresentato quel partito per la generazione dei partigiani, di chi spendendo la propria gioventù per sconfiggere il fascismo, con indicibili sacrifici, ha considerato l’attività politica per la liberazione dell’uomo, per il comunismo, come qualcosa di inscindibile dal proprio scopo di vita.

Quel partito per loro era una famiglia. I compagni e le compagne di partito un’umanità di cui fidarsi per lo scopo – e il tipo di morale che guidava la loro vita – che li accomunava. Era la possibilità di agire concretamente dal basso in vista di un orizzonte altissimo, di un mondo nuovo da costruire per gli uomini e le donne di domani. Era in definitiva il senso del proprio operare. La militanza politica in quel partito e le speranze che questa alimentava erano per gli uomini e le donne di quella generazione di comunisti assolutamente sovrapposti al senso stesso della propria esistenza.

Dunque, facendo tesoro di quella presa di coscienza disperata della “morte” del Pci, riteniamo doveroso non tanto celebrarlo acriticamente e retoricamente, ma analizzare la globalità della sua esperienza per trarne preziosi insegnamenti per il futuro, un futuro in cui i comunisti possano ricostruire il loro protagonismo, che è quanto mai necessario per uscire dalla barbarie in cui ci troviamo.

Partiamo dunque da alcuni snodi della storia di quel partito, con lo scopo di trarne alcune lezioni utili per il presente.

Il Partito Comunista d’Italia nacque sotto l’orizzonte della Rivoluzione d’Ottobre, dalla volontà di superare l’impotenza politica che il Psi, in entrambe le sue espressioni, riformista e massimalista, aveva dimostrato nello svolgersi del Biennio Rosso, terminato con la sconfitta degli operai che avevano occupato le fabbriche. Antonio Gramsci e il gruppo dirigente che lo circondò intesero costruire un partito in cui la solida impostazione teorica e l’internazionalismo proletario si sposassero con la presenza attiva all’interno della classe lavoratrice e negli stessi luoghi di lavoro (all’interno dei quali venivano promosse forme di democrazia consiliare sul modello dei soviet), con un’azione politica risolutamente organizzata e basata sulla pratica del centralismo democratico e sull’utilizzo delle forme di propaganda e dei mezzi di comunicazione di massa allora disponibili, con l’intenzione di rendere la propria azione politica capillare e radicata nella classe di riferimento.

Tale impegno fu portato avanti perfino negli anni bui della clandestinità sotto il regime fascista, quando il partito, nelle condizioni durissime in cui si trovava, riuscì a costruire e mantenere una struttura coordinata di cellule in cui l’iniziativa politica, quale per esempio la diffusione della stampa clandestina, si abbinava alla formazione dei quadri. Lo stesso carcere fu per molti l’“università” che permise di far crescere quadri dirigenti di grande valore. Nei Quaderni del carcere di Gramsci si trova l’approfondita riflessione su come declinare marxismo e leninismo nella realtà italiana, e l’intuizione che in tale realtà si prospettasse una guerra di posizione e fosse essenziale la lotta per l’egemonia e la costruzione di un blocco sociale attorno alla classe operaia. La partecipazione di molti quadri alla guerra civile spagnola e sul fronte delle avventure coloniali fasciste fanno comprendere come l’internazionalismo fosse portato avanti concretamente in quanto considerato imprescindibile per l’azione dei comunisti.

Il partito agì da protagonista nella Resistenza e nella guerra di liberazione dal nazifascismo, durante la quale l’iniziativa politica e la formazione dei quadri fu portata avanti parallelamente all’impegno militare, così come egemone fu il suo ruolo nei grandi scioperi operai contro il fascismo e nella difesa armata delle fabbriche del Nord. La duttilità politica di Togliatti permise di creare le basi per un impegno unitario contro il fascismo, passando anche per un sofferto compromesso con una screditata monarchia.

La questione della presa del potere, approfonditamente affrontata da Gramsci, si ripropose all’indomani della liberazione, quando il partito scelse di collaborare con le altre forze antifasciste nel governo e nella costituente, escludendo un percorso insurrezionale considerato improponibile nel contesto di un’Italia dove iniziava una pesante “colonizzazione” da parte degli Stati Uniti, e dove infatti l’inizio della guerra fredda avrebbe portato all’adesione dell’Italia alla Nato. Fu su influsso Usa che De Gasperi cacciò i comunisti dal governo; tuttavia essi mantennero il loro impegno nella Costituente in cui fu possibile redigere una Carta che univa ai tipici istituti democratici borghesi contenuti sociali di rilevante valore i quali lasciavano aperta una prospettiva di una transizione al socialismo.

Pur nella nuova cornice in cui fu deciso di accettare il gioco democratico – non senza malumori di buona parte dei militanti e di diversi, anche autorevoli quadri – non venne meno l’impegno per sostenere la lotta di classe, per resistere a reiterati attacchi eversivi (che con diverse modalità contrassegneranno praticamente tutta la storia della prima Repubblica), per continuare il lavoro teorico e la formazione di quadri e per mantenere l’impegno internazionalista. La rete di sezioni e cellule si estese, la formazione fu portata avanti con vere e proprie scuole di partito distribuite sul territorio e il partito in fase di rafforzamento si dotò di organi di stampa di grande valore come “l’Unità”, “Rinascita”, “Critica Marxista”. Insediandosi in importanti amministrazioni locali, soprattutto in Toscana ed Emilia Romagna, il partito ebbe modo di esercitare una sorta di contropotere – per esempio attraverso i “bilanci di lotta” – e di consolidare e ampliare il suo radicamento sociale. Grazie a ciò, riuscì a ottenere un consenso elettorale che lo collocò al primo posto in Occidente fra i partiti comunisti. I suoi consensi di massa non furono danneggiati in maniera rilevante nemmeno dai contraccolpi a seguito delle vicende ungheresi, che riguardarono prevalentemente gli intellettuali e settori minoritari del gruppo dirigente. A seguito di questa vicenda, pur rimanendo al fianco del movimento comunista internazionale, l’VIII congresso delineò una “via italiana al socialismo”.

A partire dagli anni Sessanta, contemporaneamente ai profondi cambiamenti nella società italiana legati all’industrializzazione, aumentò progressivamente la distanza fra Pci e Psi, con lo spostarsi di quest’ultimo nel centro-sinistra. I movimenti giovanili più avanzati portarono alla ribalta nuove rivendicazioni anticapitaliste, mentre si ottennero avanzamenti sia sul terreno dei diritti – come per lo statuto dei lavoratori – sia su quello dell’intervento statale in materia economica – per esempio venne nazionalizzato il comparto elettrico.

Gli avvenimenti internazionali che si susseguirono dagli anni Cinquanta in poi videro la progressiva frammentazione del blocco socialista: dalla rottura di Tito con l’Urss, a quella dei sovietici con la Cina, fino alla “primavera di Praga”. Tuttavia, la vittoria del Vietnam e la resistenza vittoriosa di Cuba a complotti e boicottaggi Usa controbilanciavano in parte questo scenario critico. Anche se nel partito ci furono ripercussioni – prima fra tutte l’espulsione del gruppo del “Manifesto”, ma anche, in generale, la difficoltà di rapportarsi ai movimenti del ’68 –, le caratteristiche essenziali del Pci come partito di massa impegnato nelle questioni sociali, nell’opposizione ai governi a guida democristiana, nella diffusione di controinformazione e nella formazione dei quadri, permasero, seppure condizionate dalle prime valutazioni critiche sulle esperienze di paesi del cosiddetto “socialismo reale” – definizione che consideriamo quanto mai inappropriata e mistificante, in quanto sottende che il tipo di società sperimentato nell’Est europeo sia l’unico socialismo possibile, relegando altre possibilità a “ideale” o mera utopia. La progressiva crisi sociale nei paesi del blocco sovietico e in particolare la drammatica vicenda della Polonia determinò un ulteriore allontanamento del partito dal movimento comunista internazionale – sancito dalla nota dichiarazione di Berlinguer sull’“esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre” – e ci pare che sia da questo momento che inizi il percorso verso la socialdemocratizzazione – e dunque lo snaturamento – del Pci.

La giusta autonomia rispetto all’Urss si trasforma gradualmente prima in una posizione neutrale, fino ad arrivare al grave salto di sponda del berlingueriano voler stare “sotto l’ombrello della Nato”. La perdita dell’identità comunista si conferma con l’accettazione del “valore universale” della democrazia borghese, peraltro del tutto effimera visto il suo oggettivo condizionamento da parte degli Usa, che impedisce la partecipazione dei comunisti al governo del paese. Gli approcci “eurocomunisti” promossi soprattutto dal Pci e dal Pce spagnolo costituiscono un’ulteriore rottura non solo con il comunismo dell’Est ma anche con moltissimi partiti comunisti occidentali.

La società e il mondo del lavoro intanto si vanno trasformando profondamente. L’apparato industriale si va gradualmente rilocalizzando in paesi a basso costo della manodopera, il settore terziario acquista un peso rilevante, la scolarizzazione di massa produce un ceto intellettuale inquieto in cui è presente una forte dose di individualismo, mentre, a livello internazionale, la fine della convertibilità del dollaro sancita da Nixon provoca disordine finanziario e modifica i rapporti di forza fra le potenze imperialiste.

A fronte di questi cambiamenti la risposta del Pci è inadeguata e perdente. In presenza di una crisi mondiale, anziché porre la questione delle responsabilità del capitalismo, si promuove attraverso il sindacato una politica di sacrifici da parte dei lavoratori – la cosiddetta “svolta dell’Eur”. L’azione del partito, che si autodefinisce “di lotta e di governo” si sposta sempre più sul piano istituzionale e amministrativo, e dalla strategia togliattiana delle riforme di struttura, venendo meno l’orizzonte del socialismo, si passa al riformismo dell’esistente, in una deriva elettoralista e governista fallimentare. Lo stato di emergenza, legato all’affiorare di piani eversivi e alla drammatica esperienza nel Cile di Allende, porta al “compromesso storico” e poi all’appoggio ai governi Andreotti che seguono l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse.

Nei primi anni Ottanta ci sono segnali di una controtendenza, con Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat a sostenere la lotta degli operai, l’impegno nel referendum contro il taglio della scala mobile voluto da Craxi e il ritorno all’opposizione, ma ormai la “mutazione genetica” è in fase avanzata, e la componente “migliorista” – che ammicca agli Stati Uniti e simpatizza con l’anticomuniscmo craxiano – ha influenza crescente sulle scelte politiche e sulla linea del partito. La sua contiguità con determinati interessi imprenditoriali coinvolge il migliorismo milanese perfino in alcuni scandali che appannano la diversità comunista e l’accento di Berlinguer sulla questione morale. Ma è nel partito nel suo complesso che prevale la smania di governare a tutti i costi, accettando il prezzo della rinuncia alla propria “diversità” comunista e gettando alle ortiche l’apparato teorico marxista, leninista, gramsciano, ossia la propria “cassetta degli attrezzi”, considerata superata, e scambiando la causa per l’effetto: smettendo di studiarla e tramandandone le semplificazioni, si finisce per considerarla inadeguata ai tempi tout court, mentre la sua corretta e ponderata riattualizzazione sarebbe stata l’unica via di salvezza.

È in questa situazione che, dopo la morte di Berlinguer e la brevissima parentesi di Natta, estromesso per mano di una sorta di golpe dalla segreteria, Occhetto, con parole d’ordine demagogiche e mistificanti e tanta confusione ideologica, completa l’opera di snaturamento del partito spostando la sua linea politica verso l’accettazione di meccanismi di natura liberaldemocratica come il bipolarismo di matrice anglosassone e il sistema maggioritario, fino ad arrivare alla fatidica “svolta della Bolognina” e all’autoscioglimento del partito, che non avrebbe potuto attecchire in un corpo comunista sano e che non abbia smarrito la propria identità.

I tentativi di ricomposizione dopo quella disfatta, iniziati con Rifondazione Comunista – che per un certo periodo ha riscosso un discreto consenso, stante il contesto storico, e di cui è di sicuro meritevole il tentativo di ricompattare i comunisti dispersi attraverso la scommessa di trovare una proficua convivenza fra le diverse sensibilità politiche – e continuati nel susseguirsi di infinite scissioni fino ad arrivare all’attuale estrema frammentazione dei comunisti, hanno finora fallito. Eppure lo spostamento a destra del centrosinistra e la sua politica sempre più adagiata a supportare acriticamente gli interessi economici dominanti, rendono drammaticamente necessaria l’esistenza di una formazione politica che abbia il suo orizzonte fuori dal sistema capitalistico, a difesa della classe lavoratrice, riconoscibile e credibile per gli sfruttati di ogni tipo.

Cerchiamo dunque di trarre degli insegnamenti dalla storia del Pci, per non abdicare all’impotenza di fronte alla barbarie liberista.

Il primo errore da cui imparare è stato, come sopra accennato, l’abbandono del lascito teorico di Marx, Engels, Lenin e Gramsci, che anziché essere riletti in chiave attuale sono stati accantonati, privando così i comunisti di ogni arma ideologica e di ogni possibilità interpretativa dell’esistente che andasse oltre la “fine della storia”. 

Viviamo sulla nostra pelle una crisi economica di proporzioni drammatiche, e mentre le teorie economiche mainstream ne danno una ragione puramente accidentale, l’analisi scientifica che ne fa Il Capitale viene rivalutata e ripresa in mano in tutto il mondo, persino da alcuni settori della borghesia.

Sposare tutte le mode culturali o rinchiudersi nell’eclettismo non serve ai comunisti. Occorre ripristinare un forte ancoraggio ai caratteri fondanti del Partito Comunista, aggiornando e approfondendo l’analisi scientifica del capitalismo odierno per elaborare un idoneo progetto politico e individuare la giusta strategia e la giusta tattica nel capitalismo così come si configura oggi, che quindi deve essere indagato a fondo. Senza un apparato teorico adeguato e all’altezza dei tempi, neppure la prassi politica può essere orientata sensatamente.

Un altro elemento critico su cui concentrarsi è quello del confronto interno, perché i vari attuali micropartiti comunisti hanno dimostrato una preoccupante incapacità di democrazia e costruttività nel dibattito, facendo prevalere logiche personalistiche e di micropotere che hanno progressivamente e letteralmente svuotato il confronto fra compagni, in una progressiva emorragia di militanti. Occorre riapprodare a un effettivo centralismo democratico, dove il confronto sia libero e proficuo, siano ascoltate e prese in considerazione tutte le opinioni in modo paritario, senza che ci siano dirigenti “di serie A”, che permetta di giungere a una sintesi vincolante per tutti, con parole d’ordine chiare e mobilitanti.

Anche l’impegno sul fronte della comunicazione deve essere ripensato e valorizzato, usufruendo anche dei nuovi strumenti tecnologici e dotandosi di un linguaggio aggiornato che possa trasmettere analisi e valori alle nuove generazioni.

Come era stato per il Pci, la formazione dei quadri deve essere elemento essenziale nel partito. Formazione e comunicazione sono strumenti imprescindibili per promuovere uno spirito critico di massa, in un momento in cui la classe lavoratrice è influenzata dalle ideologie borghesi propinate dai mass media e la scuola pubblica, in declino scientemente promosso dalle classi dominanti, viene meno alla sua funzione formativa.

È necessario anche ripensare l’organizzazione del partito in funzione di un effettivo radicamento, privilegiando la sua articolazione nei luoghi di lavoro laddove possibile, e arginando il crescente isolamento dei lavoratori “atomizzati”, come per esempio con lo smart working, utilizzando le nuove tecnologie a disposizione per unire le forze.

Ferma restando la necessità di alleanze sociali e politiche, il partito dovrebbe essere l’avanguardia e lo strumento della classe lavoratrice, costituito prevalentemente da lavoratori e da intellettuali effettivamente organici alla classe stessa.

L’aspetto elettoralistico e l’insediamento nelle istituzioni non sono in questo momento elementi su cui concentrarsi, essendo prioritario l’impegno di ricompattamento e di radicamento nella classe. Ciò non significa che non sia opportuno in certi casi affiancare schieramenti che contrastino i massacri sociali, la rapina dei territori e il degrado ambientale, ma l’oggettività delle cose ha dimostrato che gli accordi a tutti i costi fra forze molto eterogenee, aventi orizzonti completamente diversi, per esempio il centrosinistra per alcuni e l’opposizione al centrosinistra per altri, non ci porta da nessuna parte. La perdita di identità, l’inseguimento confusionario dei movimenti del momento senza saper proporre loro una strategia, le scissioni e scissioni delle scissioni, arrivate a livelli numericamente risibili, hanno annientato ogni credibilità e minima visibilità dei comunisti in questo paese, lasciando i lavoratori, la nostra classe di riferimento, in balia dei becero-populismi reazionari.

L’unità dei comunisti non può consistere neppure nell’assemblaggio di micro-organizzazioni ciascuna delle quali inconsistente, e ormai poco credibili neppure se assemblate, oltre che prive di una strategia. Pur se potessimo prescindere dalla difficoltà di trovare una piattaforma comune di gruppi assai differenziati per cultura politica e ciascuno dei quali si considera il “centro” del comunismo italiano, rimane la barriera che si è inevitabilmente eretta fra i vari partitini comunisti e i lavoratori.

Per abbattere quella barriera serve la presenza nei conflitti sociali, in cui cercare di svolgere un ruolo di direzione politica, per unificare gli obiettivi di mille vertenze territoriali che altrimenti non si parlano, prospettarne sbocchi possibili o almeno per accumulare le forze e impedire l’inevitabile implosione dei movimenti che non siano collegati a una solida piattaforma generale.

Insieme alle aggregazioni possibili dei comunisti per questa via, occorre costruire un fronte più ampio di forze antiliberiste e anticapitaliste per poter sostenere più efficacemente le lotte, ma anche per aver più opportunità di parlare alle masse dei lavoratori e conquistare nuovi militanti. Consapevoli del ruolo riformista dei sindacati, a essi connaturato, è importante sia essere presenti al loro interno per promuoverne la combattività e per stabilire rapporti con i lavoratori, sia organizzare altri momenti di confronto democratico, di elaborazione di piattaforme di lotta e di iniziativa politica rivoluzionaria nei luoghi di lavoro, assimilabili ai gramsciani consigli di fabbrica, sia pure in veste aggiornata.

L’attuale frammentazione non si può superare con atti volontaristici – sebbene necessari – privi di un retroterra strategico e ideologico condiviso, per pervenire al quale è necessaria una conoscenza approfondita della fase attuale, che Roberto Fineschi definisce “capitalismo crepuscolare” [1].

Questa imprescindibile opera di ricerca è stata doppiamente ostacolata dalle due opposte tendenze: lo scetticismo di fronte a questioni “eterodosse” o nuove, come la questione di genere o quella ambientale – ritenute irrilevanti perché accessorie alla contraddizione principale di classe –, oppure l’adesione acritica a movimenti che affrontano tali problematiche scollegandole dall’organizzazione capitalistica della società, come se non assumessero profili conseguenti alle contraddizioni di tale sistema.

Urge quindi un lavoro teorico e pratico per il reinsediamento nei gangli della società. E la spaventosa crisi in atto del capitalismo non ci concede tempi lunghi per farlo.

Sul fronte internazionale, in una situazione molto articolata in cui anche il monopolarismo Usa è in declino grazie all’affacciarsi sulla scena economica e politica di Cina e altre realtà emergenti (Brics, Ue ecc.), i comunisti devono combattere l’imperialismo in tutte le sue forme, essere al fianco di tutti i popoli che lottano contro le ingerenze neocoloniali e che prospettano vie originali verso il socialismo, e dei lavoratori sfruttati dei paesi a economia sviluppata che lottano contro il proprio padrone e il proprio imperialismo.

La globalizzazione, la riduzione delle distanze dovute all’evoluzione dei mezzi di comunicazione, la libertà dei capitali di vagare per tutto il globo alla ricerca delle migliori opportunità di sfruttamento rendono difficilmente pensabile persino solo una politica riformista o difensiva – figuriamoci una rivoluzione – se rimaniamo rinchiusi in entità nazionali piccole come l’Italia e se il campo del lavoro non si riorganizza o almeno non si coordina su base internazionale, come sta facendo efficacemente il capitale.

Ritornando al Pci e alla sua storia, forse l’insegnamento più importante è stato la sua capacità, per un lunghissimo periodo – finché le sue basi ideologiche erano salde così come la sua identità –, di mantenere unità e compattezza, di gestire i confronti anche accesi senza che portassero a subitanee frammentazioni, di portare avanti un tipo di etica politica in cui erano arginati i personalismi. In sostanza, di comportarsi davvero “da comunisti”. È questo quello che dobbiamo tornare a fare, se vogliamo ricostruire un partito comunista degno di questo nome e significativo nella realtà.

 

Note:

[1] Per una fenomenologia del capitalismo crepuscolare si vadano alcune annotazioni di Roberto Fineschi su questo giornale: Persona, Razzismo, Neo-schiavismo: tendenze del capitalismo crepuscolare; Razzismo e capitalismo crepuscolare; Una notte al museo? Alta cultura e capitalismo crepuscolare; Social e capitalismo crepuscolare (living in a box).

15/01/2021 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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