Una notte al museo? Alta cultura e capitalismo crepuscolare

Il capitalismo crepuscolare utilizza la cultura come una componente accessoria di pacchetti elaborati per fare profitti. Le masse popolari sono storicamente escluse dalla vera cultura, appannaggio esclusivo delle classi dominanti.


Una notte al museo? Alta cultura e capitalismo crepuscolare Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/98/Michelangelo%27s_David_%28Foreground%29.jpg

Le statistiche dell'italico popolo relative a lettura e frequentazione di musei sono, notoriamente, drammatiche. All'italiano medio di arte e cultura importa poco o niente. Dovendo per lavoro andare spesso per musei e facendolo altrettanto per piacere, mi capita, non spesso ma sempre, la seguente tragicomica esperienza: tutti mi si rivolgono in inglese dando per scontato che io non sia italiano. Se è pur vero che sono alto, biondo (ora abbastanza bianco in verità) e con gli occhi azzurri, anche dopo che mi sono palesato per nativo utilizzando l'idioma locale (per giunta con marcato accento toscano), talvolta insistono con l'inglese perché proprio non ci possono credere. In genere mi prendono per inglese o, in subordine, per uno sgarrupato tedesco a seconda di quanto arrivo sudato in biglietteria (nel loro immaginario un inglese è considerato in media più signore). Alcuni si giustificano commentando "mi scusi sa, ma di italiani non se ne vedono mai".

In vacanza in una ridente cittadina di mare mi avvantaggio di una personale gratuita di giovane artista emergente; a un passo dallo struscio dove si accalcano torme di persone, solo con mia figlia godo delle opere. Neanche per sbaglio, per stare cinque minuti all'aria condizionata, giusto per la curiosità di vedere come è fatto il palazzo dentro… niente, non c'è stato verso o maniera che qualcuno ci mettesse il naso. Idem con una mostra fotografica. Sarà l'arte? Anche la storia locale non fa eccezione: bellissimo museo sulla storia industriale della città, multimediale, bell'allestimento… vuoto. Tra me e la custode, la stessa della mostra di cui sopra, ormai c'è confidenza. Mi guarda con gli occhi tristi e languidi di chi sa che tornerò solo l'anno prossimo.

All'italiano medio proprio non gliene può fregare di meno… Ma perché? E come porre rimedio? Credo che in buona parte sia una questione di classe. Nel nostro paese, l'alta cultura, almeno dal rinascimento in poi, è stata appannaggio di élites che l'hanno usata come espressione del proprio potere e prestigio. Le classi dirigenti italiane, storicamente più inclini al dominio che alla direzione, raramente si sono preoccupate dell'estensione e inclusione convinta nella loro visione del mondo. Il "popolo" l'ha dunque sempre sentita aliena e forma manifesta di dominio. Perciò, chi se ne frega. Decenni di tentata cultura democratica e partecipativa dal secondo dopoguerra, la scolarizzazione di massa, non sono bastate a superare questa eredità storica che, se comprensibile nel suo estremismo, è a tutti gli effetti un vincolo peggiorativo. Tuttavia, la strada dell'educazione/formazione di massa non pare quella che si sta tentando di intraprendere adesso.

La vecchia gestione museale all'italiana era in genere abbastanza "polverosa": approccio tradizionale, poche idee, stasi. La ventata di novità dei nuovi direttori, in parte stranieri, ha in molti casi decisamente migliorato il museo e la sua fruizione. Il caso degli Uffizi è emblematico con, finalmente, l'allestimento di nuove sale, una più leggibile esposizione, un più moderno aspetto, un’immagine più aperta. Per me questo è senz'altro positivo. Ciononostante qual è l'obiettivo di fondo? Che tipo di fruizione si incoraggia?

Prendiamo il caso di Firenze più in generale: le masse e il tutto esaurito riguardano solo due musei, gli Uffizi e l'Accademia (solo per vedere il David di Michelangelo); per quasi tutti gli altri incredibili scrigni d'arte (Bargello, Pitti solo per citare i casi più eclatanti) non c'è neanche bisogno di fare la fila. Insomma, una larga maggioranza di chi va agli Uffizi e all'Accademia lo fa per andare in dei luoghi cult dove fare una foto dimostrativa del fatto che ci sono stati, ma senza che del resto gli freghi assolutamente nulla. Sono convinto che, nella maggioranza dei casi, basterebbe portare i gruppi in un capannone all'Osmannoro con delle copie della Primavera ed altri dipinti cult, dire che sono gli Uffizi e nessuno farebbe una piega. Si potrebbe aggiungere il viadotto dell'indiano spacciato per Ponte Vecchio. Qui la cultura ovviamente non c'entra niente, è solo marketing turistico. Lo stesso per cui per es. un senese non è mai stato nella sua straordinaria pinacoteca cittadina ma magari ha visitato il Louvre o il British Museum con una gita organizzata.

Qual è allora l'obiettivo? Quando si parla di sfruttare le risorse del patrimonio storico-artistico, assai più prosaicamente si intende una cosa ben precisa e semplice: includere altre località, che in questo momento ne sono escluse, nel circuito di quelle cult, nient'altro. Questo lo si ottiene con efficaci operazioni di marketing, ma non è affatto semplice "piazzare" in questi termini l' "eccesso", la pletora di patrimonio artistico che abbiamo; sono scommesse quasi sempre, inevitabilmente, in perdita, soprattutto quando tentate da piccole realtà che timidamente si affacciano sul grande mare pieno di squali. Insomma, ciò che si cerca di confezionare nelle strategie più sofisticate e “machiavellicamente” intelligenti è un pacchetto in cui l'elemento artistico è una delle componenti, non certo la più importante, di un programma di “intrattenimento”, è questa la parola chiave. Basti vedere come sono fatte le nuove guide turistiche cartacee, oppure le nuove app di visita dove si cerca di “suggestionare” il visitatore con effetti, voci, colori… In questo senso sono estremamente rappresentative le mostre-evento; intorno ad esse si può più facilmente creare l'effetto glamour, cult, status symbol. È quest'ultima una modalità che ha riscosso successo anche in Italia, con incassi ragguardevoli.

Insomma, per farla breve, l’obiettivo è instaurare un nuovo meccanismo di valorizzazione del capitale, attraverso l'inserimento dell'arte e della cultura in circuiti commerciali di intrattenimento. Tutto ciò può andare oltre e includere anche, per esempio, il museo come “location” di pubblicità, cene, galà, concerti, sfilate di moda e quant'altro (in certi casi addirittura palestre da ginnastica). Farci dei soldi. Che c'entri questo con l'arte e la cultura, personalmente fatico a capirlo. La dimostrazione che ciò produrrebbe trasformazioni culturali effettive (in senso positivo) ancora manca, mi pare. Che fare allora?

Ho altrove cercato di argomentare che il capitalismo crepuscolare è caratterizzato da meccanismi che non solo non valorizzano la cultura in genere, ma semmai intenzionalmente la combattono, favorendo un vero e proprio cretinismo di massa. Questo certo non agevola la fruizione dell'arte e dell’alta cultura. In Italia ciò insiste sulla tradizione classista che menzionavo sopra per cui le prospettive sono particolarmente complesse. Fattori oggettivi contrari e difficoltà educative soggettive sempre presenti mai da sottovalutare rappresentano un forte limite. Per esempio, pur avendo io sempre portato i miei figli per musei, mostre, luoghi d'arte come se fosse la cosa più naturale al mondo, non posso dire di aver suscitato il loro entusiasmo.

Comunque sia, non pare questo il tipo di problema e di strategia che hanno in mente il ministero e gli operatori istituzionali. L'unico rapporto ufficiale esistente sullo stato delle "attività creative" mostra inesorabilmente come il problema starebbe nel far rendere il patrimonio, tra l'altro con poca attenzione a chi effettivamente lavora nel settore, ai suoi diritti, alle sue condizioni di lavoro (per non parlare delle sue idee ovviamente). Si parla piuttosto di fatturato, meramente di percentuale di PIL. I fatti dimostrano che è una strada fallimentare, che produce cattiva occupazione e nessuna educazione creativa. Magari però fa arricchire qualcuno. È una strategia sistematica d'accatto che, seppur dettata dalle condizioni del capitalismo crepuscolare, viene assecondata da organi di gestione che, se non altro, avrebbero la possibilità di pensare delle alternative. La complessità della sfida è alta, ma la partita può essere giocata. Scuola, musei, istituzioni nazionali possono tentare di dettare degli indirizzi, se non altro, costituzionali.

16/08/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/98/Michelangelo%27s_David_%28Foreground%29.jpg

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L'Autore

Roberto Fineschi

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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