Perché il lavoratore salariato è in quanto tale sfruttato

Sotto il dominio del #capitalismo una parte sempre crescente della popolazione può sopravvivere solo alienando come merce la propria forza vitale


Perché il lavoratore salariato è in quanto tale sfruttato

Il lavoratore salariato non può vendere il lavoro che svolgerà per conto del capitalista, in quanto quel lavoro sarà già proprietà di quest’ultimo, dal momento che il salariato, non disponendo dei mezzi di produzione e di riproduzione della propria capacità di lavoro, si è visto costretto a mettere a disposizione del capitalista la sua forza-lavoro. Quest’ultima, a questo punto, non appartiene più al lavoratore, ma sarà utilizzata ai propri fini dal capitalista, che la consumerà come meglio crede e a suo esclusivo beneficio [1]. Dunque, per dirla con Marx ciò che il lavoratore salariato “vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista” [2].

Tale capacità di lavoro è però inseparabile dalla persona fisica del salariato [3], per cui quest’ultimo dovrà continuare a lavorare al servizio del padrone per tutto il tempo pattuito anche dopo aver riprodotto la parte di valore che il capitalista gli dovrebbe aver anticipato nella forma dell’equivalente dei mezzi di sussistenza necessari alla riproduzione della forza-lavoro [4]. Una volta acquisita al suo valore la forza-lavoro, il capitalista ha il diritto di consumarla come qualsiasi altra merce, indipendentemente dai limiti della riproduzione dell’equivalente di valore che in teoria avrebbe dovuto anticipare al salariato in cambio della sua capacità di lavoro [5]. Certo i protagonisti e lo scambio stesso sono formalmente liberi, ma la libertà di chi è costretto a vendere la propria forza-lavoro è di una specie particolare: egli è libero nel duplice senso di possedere a differenza dello schiavo la propria capacità di lavoro [6], altrimenti non potrebbe alienarla come una merce, ma è anche libero dal possesso dei mezzi di produzione e, dunque, di riproduzione della propria capacità di lavoro. Lo scambio apparentemente equo sul piano del mercato fra salario e la forza-lavoro cela il fatto che il denaro che il salariato riceve, equivalente al valore dei mezzi di sussistenza, può solo essere consumato in modo improduttivo, mentre per il capitalista la merce che acquista è produttiva di nuovo valore di cui si appropria e che costituisce per lui un guadagno netto. Mentre il lavoratore è costretto a ritenere la sua attività vitale quale mero strumento di sopravvivenza, il capitalista disponendo del monopolio dei mezzi di lavoro e di sussistenza dispone di un potere enorme: la libera concorrenza è falsata dal momento che per il capitalista ne va della massimizzazione del profitto mentre per il lavoratore della stessa sopravvivenza. Sotto il dominio del capitalismo una parte sempre crescente della popolazione può sopravvivere solo alienando come merce la propria forza vitale. Per cui il venditore della forza-lavoro non può fare a meno del suo acquirente per sopravvivere: “egli non appartiene a questo o a quel borghese, ma alla borghesia, alla classe borghese; ed è affar suo disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe borghese un compratore” [7]. La libertà del portatore della propria forza-lavoro implica la sua potenziale indigenza nel caso in cui non possa accedere ai mezzi per renderla atto. “La forza-lavoro può eseguire il suo lavoro necessario solo se il suo pluslavoro ha un valore per il capitale, se cioè è valorizzabile per il capitale. Quando perciò questa possibilità di valorizzazione è impedita da un ostacolo qualsiasi, la forza-lavoro stessa si presenta al di fuori delle condizioni di riproduzione della sua esistenza; il lavoro necessario si presenta come superfluo, perché quello superfluo non è necessario. Necessario lo è solo nella misura in cui è la condizione per la valorizzazione del capitale” [8].

Dunque pur essendo ridotta a una merce come le altre, la forza-lavoro ha un peculiarità che la rende unica: quella di poter produrre, se adeguatamente impiegata [9], un valore maggiore di quello che costa. Tale proprietà, che la rende indispensabile per il capitale, tende ad accrescersi a ogni nuovo perfezionamento delle forze produttive che consente di aumentare l’eccedenza del suo prodotto sul suo costo, “cioè si riduce quella parte della giornata di lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario, e si allunga perciò d’altro lato quella parte della giornata in cui egli deve regalare al capitalista il suo lavoro senza essere pagato” [10]. La distinzione fra lavoro e forza-lavoro operata da Marx consente, dunque, di dar conto del valore maggiore che risulta dal processo di produzione e di cui si appropria il capitalista (plusvalore), quale scarto fra il valore della merce prodotta, ovvero il tempo di lavoro speso nella sua produzione, e il valore della forza-lavoro calcolabile in base ai valori delle merci necessarie alla sua conservazione e riproduzione. Avendo ceduto la propria forza-lavoro anche il prodotto della sua estrinsecazione è proprietà del capitalista. Il suo guadagno netto, il saggio del plusvalore, dipenderà dunque “dal rapporto fra quella parte della giornata di lavoro necessaria per riprodurre il valore della forza-lavoro, e il tempo di lavoro supplementare o sopralavoro impiegato per il capitalista” [11].

La giornata di lavoro, in effetti, “non ha in sé nessun limite costante. La tendenza continua del capitale è di prolungarla fino al suo estremo limite fisico, perché nella stessa misura aumentano” [12] la parte di lavoro non retribuita dal salario e, dunque, il profitto. Dal momento che esso non è altro che lavoro altrui non pagato la contraddizione centrale fra forza-lavoro e capitalista riguarda il conflitto per stabilire i limiti della giornata lavorativa [13].

Note:

[1] Dunque, il lavoratore salariato potrebbe al massimo alienare il suo lavoro futuro, obbligandosi a portare a termine una certa prestazione lavorativa in un tempo determinato. In tal modo, però, il salariato non vende lavoro che si dovrebbe ancora fare, ma pone a disposizione del capitalista per un certo tempo, in cambio di un salario giornaliero, o per una determinata prestazione di lavoro, lavorando a cottimo, la sua capacità di lavoro. Il salariato, dunque, non può che cedere la propria forza-lavoro e non il lavoro che compirà quando ormai non potrà che lavorare per il padrone. Tale distinzione fra la vendita del lavoro e la cessione della capacità di lavoro, apparentemente irrilevante, è in realtà della massima importanza.

[2] Marx, Karl, Salario prezzo e profitto, Laboratorio politico, Napoli 1992, p. 52. 

[3] Come osserva a tal proposito Marx: “il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo della forza lavoro; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo” Id., Il salario, Laboratorio politico, Napoli 1995, p. 24.

[4] Così, ad esempio, dopo aver lavorato quattro ore, il salariato avrà prodotto e restituito l’equivalente a quanto il capitalista gli dovrebbe aver anticipato pagando il valore di scambio della merce capacità di lavoro. Ciò nonostante, il lavoratore salariato, dopo questo scambio di equivalenti, non potrà che tener fede al contratto che gli è stato “liberamente” estorto, mediante il quale si era impegnato a lavorare otto ore. Dunque il salariato si è visto costretto a cedere una forza-lavoro in grado di produrre un valore di scambio doppio di quello che gli viene corrisposto con il salario.

[5] Per dirla ancora con Marx: “comperando la forza-lavoro dell’operaio e pagandone il valore, il capitalista, come qualsiasi altro compratore, ha acquistato il diritto di consumare o di usare la merce ch’egli ha comperato. Si consuma o si usa la forza-lavoro di un uomo facendolo lavorare, allo stesso modo che si consuma o si usa una macchina mettendola in movimento. Comperando il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro dell’operaio, il capitalista ha dunque acquistato il diritto di fare uso della forza-lavoro, cioè farla lavorare, per tutto il giorno o per tutta la settimana. (…) La quantità di lavoro da cui è limitato il valore della forza-lavoro dell’operaio, non costituisce in nessun caso un limite per la quantità di lavoro che la sua forza-lavoro può eseguire. (…) Pagando il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro del filatore, il capitalista ha acquisito il diritto di usare questa forza-lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana.” Id., Salario prezzo…, op., cit., pp. 56-57.

[6] Cioè, il lavoratore salariato è “libero” di vendere la propria forza-lavoro sul mercato, giacché deve poter costantemente riferirsi a essa come sua proprietà e poter disporre della sua capacità lavorativa come della sua stessa persona.

[7] Id., Il salario, op, cit, p. 27.

[8] Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, La Nuova Italia editrice, Firenze 1978, p. 268.

[9] “Dobbiamo essere in condizione di ridurli [i valori delle merci] tutti ad una espressione comune, non distinguendoli più che per il rapporto secondo il quale essi contengono questa misura comune.

Poiché i valori di scambio delle merci non sono che funzioni sociali di queste e non hanno niente a che fare con le loro proprietà naturali, dobbiamo innanzi tutto chiederci: – Quale è la sostanza sociale comune a tutte le merci? È il lavoro. Per produrre una merce bisogna impegnarvi o incorporarvi una quantità determinata di lavoro e non dico soltanto di lavoro, ma di lavoro sociale. L’uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, produce un/ prodotto, ma non una merce. Come produttore che provvede a se stesso, egli non ha niente a che fare con la società. Ma per produrre una merce egli non deve soltanto produrre un articolo che soddisfi un qualsiasi bisogno sociale, ma il suo lavoro stesso deve essere una parte della somma totale di lavoro impiegato dalla società. Esso deve essere subordinato alla divisione del lavoro nel seno della società. Esso non niente senza gli altri settori del lavoro e li deve, a sua volta, integrare” Id., Salario prezzo…, op. cit., pp. 40-41.

[10] Nota 9 di Engels, Friedrich, in Marx, Karl, Il salario, op. cit., p. 11.

[11] Id., Salario prezzo …, op. cit., pp. 55.

[12] Ivi, p. 74.

[13] La contraddizione antagonistica del modo di produzione capitalistico è quella che si evidenzia tra bisogno di valorizzazione e giornata lavorativa complessiva (lavoro necessario e disoccupazione, ricchezza e miseria). Di qui si pone anche la rinnovata centralità della riduzione del tempo di lavoro, in quanto antagonistica alla caratteristica del capitale, che è la capacità di disporre di lavoro altrui non pagato, non solo di comandare lavoro altrui.

31/03/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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