Macchinismo, Programma Minimo di classe e riduzione dell'orario di lavoro

Per opporsi con efficacia alle conseguenze del macchinismo (riduzione del salario e disoccupazione) i comunisti devono realizzare l'obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.


Macchinismo, Programma Minimo di classe e riduzione dell'orario di lavoro Credits: http://beyondthename.weebly.com/owen-robert.html

Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad una serie di seminari “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuti presso l’Università Popolare A. Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.

I capitalisti introducono le macchine nella produzione con lo scopo di ridurre il numero di lavoratori necessari per fabbricare lo stesso numero di merci, oppure per produrre più merci con lo stesso numero di ore di lavoro e di lavoratori [1]. Ciò avviene al fine di diminuire il costo del lavoro e, quindi, aumentare il plusvalore relativo per singolo addetto [2]. La missione storica del capitalismo, che determina lo sviluppo delle forze produttive, è proprio la produzione massima di plusvalore dal lavoro umano. A tal proposito la macchina agisce come alleato del capitale nella lotta di classe che si sviluppa tra capitale e lavoro. La macchina “diventa l'arma più potente per reprimere le insurrezioni...degli operai...contro l'autocrazia del capitale” [3]. I capitalisti, infatti, possono sfruttare meglio i salariati con l’aumento del numero di disoccupati.

L'uso della macchina è, tuttavia, un'arma a doppio taglio. Essa non è in grado di creare valore aggiunto (neo-valore), e quindi, plusvalore. “Le macchine non creano valore...non aggiungono mai più valore di quanto non ne perdano in media per il loro logorio” [4]. Il plusvalore non può crescere oltre ogni limite, di conseguenza l'aumento del capitale costante, dovuto all’introduzione di nuove macchine, si traduce, alla fine, in una caduta del saggio del profitto [5]. Marx afferma: "la possibilità di compensare la diminuzione del numero degli operai aumentando il grado di sfruttamento del lavoro ha dei limiti insuperabili, la caduta del saggio del profitto può essere ostacolata, ma non annullata" [6]. La macchina è alleata e, allo stesso tempo, nemica del capitale nell'accumulare plusvalore. Ora, siccome il saggio del profitto “costituisce la forza motrice della produzione capitalistica (viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto)” [4], allora l’accumulazione si inceppa e ha inizio un processo di crisi, che il capitale prova temporaneamente a contrastare. Tale caduta non può essere arrestata nel lungo periodo perché la tendenza immanente del capitalismo è quella di accrescere, oltre ogni limite, la forza produttiva del lavoro sociale mediante il macchinismo. “Lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali viene...in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente” [7]. Uno dei rimedi temporanei introdotto dai capitalisti per opporsi a questa caduta è l’aumento di plusvalore assoluto mediante l’allungamento della giornata lavorativa normale o l’estensione degli straordinari. Un altro, è incrementare l'intensità del lavoro per mezzo della diminuzione delle pause o della riduzione dei tempi morti (come alla Fiat di Pomigliano).

Cosa può fare la classe lavoratrice per opporsi con efficacia alla lotta di classe del capitale? Quale parola d’ordine i comunisti devono agitare? Nell’agosto del 1866 i lavoratori americani avevano rivendicato nel Congresso di Baltimora la giornata lavorativa di otto ore. Nel Congresso Operaio Internazionale, riunito a Ginevra nel settembre dello stesso anno, su proposta del Consiglio Generale di Londra, presieduto da Marx, fu approvata la seguente risoluzione: “Dichiariamo che la limitazione della giornata lavorativa è una condizione preliminare, senza la quale non possono non fallire tutti gli altri sforzi di emancipazione” [8]. La parola d’ordine delle otto ore di lavoro fu accolta da tutta l’Internazionale dei lavoratori, in quanto la “lotta per i limiti della giornata lavorativa” è la “lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti, e l’operaio collettivo, cioè la classe operaia” [9]. Non a caso ogni programma minimo di classe [10], preso in considerazione da Engels e Marx è caratterizzato dall’obiettivo della riduzione della giornata lavorativa [11]. Per contrastare gli effetti dell’introduzione delle macchine, la classe dei salariati deve lottare per la diminuzione dell’orario di lavoro, in quanto ogni lavoratore è reso, prima o poi, obsoleto dalla macchina. Come osservava Paul Lafargue, genero di Marx, “gli operai non hanno saputo capire che per avere lavoro per tutti occorreva razionarlo come l’acqua su una nave in difficoltà” [12].

La riduzione dell’orario di lavoro deve avvenire, però, a parità di salario e non nella forma di “patteggiamento solidaristico” come nei contratti di solidarietà, firmati dal sindacato tedesco Ig Metall, dove nei fatti la riduzione dell’orario di lavoro è una forma di cassa integrazione non retribuita. Quando gli affari vanno male, si riduce l'orario di lavoro e il salario. Nel 1987 nel settore tessile, in Italia, fu introdotto il contratto “weekend” che, rispetto al contratto nazionale di sei ore al giorno per sei giorni per un totale di trentasei ore settimanali, ripartiva le trentasei ore in dodici ore di sabato, dodici ore di domenica e dodici ore nella settimana. Questo era un modo per i capitalisti di far funzionare le fabbriche in modo continuo, senza interrompere la produzione. Contro questo tipo di contratto si opponeva solo il cardinal Ersilio Tonini di Ravenna-Cervia, perché per la Chiesa i lavoratori dovevano andare a messa la domenica, e pertanto tale contratto calpestava la loro dignità di “buoni cristiani”.

Per motivi ben diversi dalle esigenze di preghiera, pensiamo che i lavoratori per emanciparsi dall’autocrazia del capitale, devono necessariamente lottare per il controllo delle condizioni d’uso della forza-lavoro. Solo in questo modo potranno riappropriarsi della loro dignità umana. Questa lotta deve incidere sulla durata del lavoro, ovvero su orario di lavoro, straordinari, pause, tempi morti, ferie, ecc.; ma anche sull’intensità e sull’organizzazione del lavoro: ritmi, cottimo, premi di produzione, ecc.. La lotta per il controllo delle condizioni d’uso della forza-lavoro è la migliore strategia di risposta che la classe operaia possa dare agli effetti “perversi” della robotizzazione.

Si noti che, in termini politici, tale rivendicazione non è equivalente ad una semplice richiesta di aumento del salario, dove non è messo in discussione il comando del capitalista nei luoghi del lavoro, e nella società. La riduzione della giornata lavorativa implica un aumento del salario orario, ma non è solo una lotta salariale, è molto di più, poiché politicamente implica la riappropriazione da parte della forza-lavoro del proprio lavoro e il rifiuto del lavoro salariato capitalistico. Per questo Marx sosteneva che: “Invece della parola d’ordine conservatrice: «Un equo salario per un’equa giornata lavorativa»”, caratteristica dei socialdemocratici, “gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: «Soppressione del sistema del lavoro salariato»” [13]. E questa parola d’ordine, in una fase di programma minimo, richiede, in primo luogo, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.


Note

[1] K. Marx, Il Capitale, Libro I, “Il processo di produzione del capitale”, sezione IV, “La produzione del plusvalore relativo”, capitolo 13, “Macchine e grande industria”.

[2] Ciò determina la capacità di produrre più merci e la riduzione del costo di ogni singola unità prodotta. L'impresa che fabbrica le stesse merci a costo minore è più competitiva delle altre, infatti le tecnologie sono introdotte con lo scopo di vincere la concorrenza. Si è trascurato questo fondamentale aspetto, in quanto si è incentrata l'analisi sulla lotta di classe tra capitale e lavoro e non sulla concorrenza tra capitali.

[3] K. Marx, op. cit.

[4] K. Marx, op. cit.

[5] La macchina genera un’evidente contraddizione. Essa, introdotta per aumentare il plusvalore relativo, determina una riduzione del numero dei lavoratori (materiale sfruttabile) e, quindi, una diminuzione del plusvalore. Esposta in altri termini, la contraddizione, creata dall'uso capitalistico delle macchine è questa:

1) La macchina, da un lato, riduce il lavoro contenuto nelle merce forza-lavoro. Ciò, a parità di giornata lavorativa, diminuisce il salario (costo del lavoro) e aumenta il plusvalore relativo (sfruttamento).

2) La macchina, dall’altro lato, riduce il numero degli occupati e ciò causa una diminuzione del plusvalore totale. Perciò, la macchina mette in moto due tendenze contrastanti. Quale delle due, alla fine, prevale? La prima tendenza ha un suo valore massimo che viene raggiunto quando il salario tende a diventare molto piccolo, ovvero tende a ridursi a zero. Tale valore massimo del plusvalore è pari all'intera giornata lavorativa, infatti il plusvalore relativo non può superare tale limite. Come osserva Marx, anche se la giornata lavorativa fosse di ventiquattro ore al giorno, due lavoratori non potrebbero produrre un plusvalore superiore a quarantotto ore. Quindi, quando il salario tende a zero il plusvalore tende al massimo e il capitale tende al capitale costante, poiché il capitale variabile (salario) quasi si annulla con l'introduzione delle macchine. Tendenzialmente, allora, il saggio del profitto (massimo) diventa: Saggio del profitto = Plusvalore massimo/Capitale impiegato = Plusvalore massimo/Capitale costante.

[6] K. Marx, Il Capitale, Libro III, “Il processo complessivo della produzione capitalistica”, sezione III, “Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”, capitolo 15, “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge”.

[7] Ivi

[8] K. Marx, Il Capitale, Libro I, “Il processo di produzione del capitale”, sezione III, “La produzione del plusvalore assoluto”, capitolo 8, “La giornata lavorativa”.

[9] Ivi

[10] Si può provare a dare una sommaria spiegazione del concetto di programma minimo facendo riferimento ad alcuni passaggi, qui in corsivo, tratti dal testo di Enzo Gamba e Gianfranco Pala “Il Programma Minimo per la classe e i comunisti in una fase non rivoluzionaria”, edito dalla Città del Sole nel 2015. Essendo “la portata e l'estensione del programma” variabile “a seconda della perseguibilità tattica di obiettivi – non solo immediati, ma anche di preparazione di lotte a venire – che vanno dall’organizzazione della resistenza proletaria per la mera difesa dell'esistente alla prospettiva della presa del potere”, “le condizioni presenti” determinano che “tale programma di classe possa essere minimo o massimo”. In particolare in una fase in cui non è ”all'ordine del giorno la questione della presa del potere...i comunisti non possono che riconoscere lo stato di cose esistenti, e adeguare tale lotta al livello minimo praticabile in siffatte condizioni”. Da qui la “consapevolezza di «minima», in quanto articolazione della lotta entro il modo di operare e le contraddizioni della produzione capitalistica”. Tuttavia è allo stesso tempo un programma volto al superamento dell'attuale fase, infatti i comunisti hanno “la percezione che il «programma minimo»,..., non è immediatamente realizzabile in quanto tale ma serve per accumulare forze finalizzate alla «lotta, critica, trasformazione»”. Di conseguenza non è un semplice programma elettorale, o interclassista, ma piuttosto un programma di lotta, necessario all'accumulazione delle forze e allo sviluppo della coscienza di classe. “Il carattere processuale del programma minimo, fondato e articolato intorno alle contraddizioni del capitale, si traduce esso stesso in una forma dialettica: da un lato, accettando per le condizioni di lotta il quadro di riferimento istituzionale borghese, pur senza ribassarsi a mero riformismo legalitario; dall'altro, costringendo con tale lotta il capitale all'arretramento nei punti deboli della sua contraddittorietà...”.

[11] K. Marx, “Note in margine al Programma del Partito Operaio Tedesco”, e F. Engels, K. Marx “Considerazioni preliminari sul Programma Minimo del Partito Operaio Francese”, in: E. Gamba, G. Pala, Il Programma Minimo per la classe e i comunisti in una fase non rivoluzionaria, La Città del Sole, Napoli (2015).

[12] P. Lafargue, Il diritto all'ozio, 1880. Lo stesso testo è stato pubblicato anche con il titolo Il diritto alla pigrizia.

[13] K. Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865(pubblicato postumo nel 1898).

13/05/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
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L'Autore

Marco Beccari

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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