L’attuale livello di attacco al salario

A fondamento delle costanti variazioni empiriche del salario individuale, quale prezzo della forza-lavoro, vi è il suo costo di produzione sociale come del resto per ogni altra merce. Ciò consente di smentire le correnti tesi borghesi che, sulla base della presunta pluralità dei fattori di produzione, pretendono che il salario deriverebbe dalla produttività del lavoro, cioè dal suo contributo al prodotto finale, occultando così lo scambio ineguale tra forza-lavoro e capitale alla radice dello sfruttamento.


L’attuale livello di attacco al salario

Rispetto ai precedenti modi di produzione il capitalismo tende a eliminare l’esistenza stessa del cosiddetto “tempo libero” [1] in quanto “ogni momento della vita, dell’esistenza del lavoratore” [2], viene sempre più assorbito dal processo di valorizzazione del capitale e di riproduzione della forza-lavoro necessaria per rilanciare su basi più ampie il suo processo produttivo. Il recupero psicofisico delle proprie forze vitali assoggettate dal capitale nella produzione è sempre più lungo e grava progressivamente sul tempo di non lavoro, dal momento che il lavoro vivo è disarticolato in funzione di una sua ricomposizione finalizzata a massimizzarne la tensione, per consentire al capitale di fruire di tutto il tempo dei lavoratori come tempo di lavoro e di pluslavoro effettivo. Dal punto di vista dei salariati diviene dunque indispensabile battersi per esercitare una qualche forma di controllo sull’uso della forza-lavoro alienata al capitale, sia per quanto riguarda il suo limite temporale, sia per ciò che concerne i ritmi della sua estrinsecazione [3]. Del resto la storia dimostra che l’unico modo per limitare la giornata lavorativa è la lotta di classe che impone un intervento legislativo.

Dunque a fondamento delle costanti variazioni empiriche del salario individuale, quale prezzo della forza-lavoro, vi è il suo costo di produzione sociale, come del resto per ogni altra merce [4], alla quale il lavoro vivo è ridotto dal modo capitalistico di produzione. Ciò consente di smentire le correnti tesi borghesi che, sulla base della presunta “pluralità dei fattori di produzione”, pretendono che il salario deriverebbe dalla produttività del lavoro, cioè dal suo contributo al prodotto finale, occultando così lo scambio ineguale fra uso della forza-lavoro e capitale alla radice dello sfruttamento. In realtà, come ricorda Marx: “rendita fondiaria, interesse e profitto industriale sono soltanto nomi diversi per diverse parti del plusvalore della merce, o del lavoro non pagato in essa contenuto, e scaturiscono in ugual modo da questa fonte, e unicamente da questa fonte” [5]. Perciò Marx già ai suoi tempi considerava la teoria della pluralità dei fattori produttivi una fallace “opinione popolare” [6] in quanto confonde “la scomposizione di un dato valore [il plusvalore] in tre parti, con la formazione di quel valore per mezzo della addizione di tre valori indipendenti [cui il marginalismo aggiunge il lavoro necessario a riprodurre la forza-lavoro anticipato dal capitalista nel salario], e in questo modo trasforma il valore globale, dal quale scaturiscono la rendita, il profitto e l’interesse, in una grandezza arbitraria” [7]. Il capitalismo è un modo di produzione fondato sul dominio del lavoro accumulato sul lavoro vivente finalizzato all’accrescimento del valore del primo [8]. Tanto che si dà capitale solo a condizione che vi sia la possibilità di sfruttare la forza-lavoro per riprodurre su scala allargata il valore di scambio delle differenti merci poste a fondamento della produzione [9]. Dunque il salario è la parte variabile del capitale che l’imprenditore anticipa alla forza-lavoro per poterla utilizzare ai propri fini di valorizzazione del capitale e non corrisponde affatto ad una partecipazione del salariato alla merce da lui prodotta. Si tratta di uno strumento degli ideologi del capitalismo che pretenderebbero di giustificare i bassi salari con la mancanza di zelo del lavoratore, come oggi in Italia in cui essi sono giustificati con la bassa produttività del lavoro dovuta piuttosto alla bassa composizione organica del micro capitalismo italiano, o pretendono di spiegare la disoccupazione con lo scarsa voglia di lavorare [10] e non con l’esigenza del capitale di mantenere alta la pressione dell’esercito di riserva per tenere costantemente sotto ricatto gli occupati.

Del resto, tale produttività del lavoro o sua partecipazione al prodotto non è evidentemente misurabile se non mediante delle formule matematiche astratte che non hanno alcuna corrispondenza con la realtà. Tale parvenza è favorita dallo sviluppo negli ultimi anni del cottimo in tutte le sue forme più o meno mascherate, non a caso da Marx definita la forma più adeguata al concetto di capitale, in quanto pare retribuire il lavoro svolto e non l’uso capitalistico della forza-lavoro [11].

Il porre il salario in rapporto con l’aumento della produttività del lavoro è solo un mezzo strumentale per far credere che vi sia una comunanza di interessi fra salariato e capitalista, ovvero tra sfruttatore e sfruttato. Tuttavia anche se non si considerasse da un punto di vista scientifico il salario come anticipazione in mezzi di sussistenza di una componente del capitale (definito variabile in quanto produce plusvalore), ma empiricamente come una parte del prodotto del valore aggiunto dalla forza-lavoro al capitale costante (mezzi di produzione ovvero lavoro morto in quanto non produttivo di plusvalore), il profitto corrisponderebbe alla parte della produzione del salariato che gli è espropriata dal padrone [12]. In ogni caso dal punto di vista del proprietario dei mezzi di produzione il salario è comunque una spesa, per quanto produttiva; per quanto possa essere funzionale a un capitalista che produce mezzi di sussistenza in quanto gli fornisce degli acquirenti, dal punto di vista del capitale come classe vi può essere al massimo un trasferimento di valore fra chi paga la forza-lavoro viva e chi gli vende il proprio prodotto [13]. Ciò dimostra l’insensatezza degli economisti di “sinistra” keynesiani che si sforzano, per altro vanamente, di dimostrare che il capitale potrebbe superare la propria crisi di sovrapproduzione aumentando i salari, dando credito alla sciagurata tesi neocorporativa per cui vi sarebbe una comunanza di interessi fra capitale e forza-lavoro. Certo capitale e forza-lavoro sono due termini di uno stesso rapporto che si implicano a vicenda. Ma il reciproco condizionamento, come osservava Marx, è della stessa natura di quello che lega il dissipatore allo strozzino [14]: il salariato può accedere ai mezzi di sussistenza e di produzione solo nel caso in cui sia funzionale alla riproduzione allargata del capitale, accrescendo così il potere del lavoro morto sul lavoro vivo che lo tiene soggiogato. La comunità d’intenti non è, dunque, altro che la dipendenza del salariato dal capitale che lo opprime [15]: il plusvalore del capitalista è la condizione per l’impiego della forza-lavoro ed è lo sviluppo della potenza del capitale morto sul lavoro vivo a determinare la riproduzione allargata della schiavitù del lavoro salariato, o la miseria e la fame della disoccupazione di massa [16]. In altri termini, solo l’accumulazione del capitale stesso – ossia l’aumento indefinito della sua ricchezza astratta, il denaro valorizzato – può determinare il salario e il non salario, ossia la miseria e la povertà materiale diffusa.

 

Note:

[1] L’intero tempo di vita è assoggettato al capitale quale uso della forza-lavoro e sua riproduzione. Si giunge così alla valorizzazione dell’intera attività vitale; “il contadino dispone ancora di tempo libero e può in questo tempo guadagnare qualcos’altro. Ma la grande industria (non l’industria manifatturiera) fa sparire questa economia patriarcale” Marx, Karl, Il salario, Laboratorio politico, Napoli 1995, p. 72.

[2] Ibidem.

[3] La pretesa di trascurare la conduzione della lotta di classe proprio sul controllo di codesto uso significa rinunciare alla specificità dell’antagonismo di classe in questa particolare forma storica della società (tale controllo può consistere, ad esempio, nel connettere la riduzione della giornata lavorativa a una immutata intensità del lavoro, più che all’invarianza salariale, sia pure questa sociale.

[4] “Il movimento complessivo di questo disordine è il suo ordine” – conclude hegelianamente Marx. Come osservò Hobbes nel Leviatano: “Il valore di un uomo è, come per tutte le altre cose, il suo prezzo: cioè è quel tanto che viene dato per l’uso della sua forza” Marx, Karl, Salario prezzo e profitto, Laboratorio politico, Napoli 1992, p. 52.

[5] Ivi, pp. 63-64.

[6] Ivi, p. 65.

[7] Ibidem. 

[8] Il capitale esprime il dominio del lavoro accumulato sul lavoro vivente per accrescerne il valore. Cioè, esso si conserva e si accresce attraverso lo scambio con la forza-lavoro vivente: di qui, l’affermazione del fatto che “il capitale è essenzialmente capitalista”. Questa precisa definizione, dunque, pone il capitale come funzione e non come quantità. La caratterizzazione del capitale come rapporto e modo di produzione, attorno alla cui base economica si articola la formazione sociale, è di fondamentale importanza.

[9] “Il capitale, cioè, esiste in quanto tale esclusivamente grazie alla forza-lavoro «vivente» e alla possibilità di sfruttarla «come mezzo per conservare e accrescere il valore di scambio». Senza l’uso della forza-lavoro – all’interno di ben determinati rapporti di produzione – da parte del capitalista, non esisterebbe il capitale. A differenza di ogni altra merce, inoltre, la forza-lavoro è l’unica che accresce il valore di scambio.” Pala, Gianfranco, in Marx, Il salario, cit., p. 153 [in nota].

[10] Conseguenze pratiche di ciò, come ricadute di luoghi comuni nella quotidianità, sono: che il salario possa assumere un qualunque livello senza riguardo alla sussistenza storica (perciò anche valori infimi); che esso dipenda dallo zelo e dallo spirito di sacrificio di ogni singolo lavoratore, che quindi solo chi non abbia “voglia” di lavorare rimane senza lavoro; e che pertanto la disoccupazione più che un problema economico è questione di (buona) volontà, come fatto etico sociale; cosicché il senso comune possa riguardare come giusti e leciti questi e altri eventi di vita quotidiana.

[11] Nella forma del cottimo, oggi, non rientrano più solo quelle voci della busta-paga commisurate ai pezzi prodotti dal singolo o dal gruppo omogeneo di lavoratori, e neppure solo i premi di produzione. La grande messinscena della cosiddetta partecipazione del salario al profitto o al risultato d’impresa va riguardata con la massima diffidenza, essendo codesta la più insidiosa forma contemporanea di cottimo.

[12] “Se non lo si considera come anticipazione del capitale (al pari delle materie prime, dei macchinari, etc.), ma come derivazione del nuovo valore creato con la forza-lavoro dall’operaio, il salario è una parte del valore aggiunto dalla forza-lavoro, una parte del prodotto dell’operaio. Esattamente come lo è il profitto che è ciò che resta del valore aggiunto, una volta detratto il salario. Salario e profitto sono, dunque, relativi l’uno all’altro.” Ivi, p. 154 [in nota].

[13] Il pagamento della merce forza-lavoro, in base al suo valore di riproduzione, da parte del capitale – ciò che si traduce correntemente in “salario” – non nasce direttamente così, nella veste di reddito dei lavoratori (dipendenti). Infatti, il denaro per acquistare la loro forza-lavoro non è nelle loro mani, ma originariamente si trova in quella dei padroni proprietari di tutte le condizioni oggettive della produzione. Quindi all’inizio del processo di produzione risiede lì anche quella parte di capitale (detto “variabile” poiché genera plusvalore) che può acquistare e disporre dell’uso della capacità di lavoro altrui. Il salario è in primo luogo costo e spesa per il capitale, appunto originariamente è capitale variabile.

[14] “Un rapido aumento del capitale significa un rapido aumento del profitto. Il profitto può aumentare rapidamente soltanto quando il valore di scambio del lavoro, quando il salario relativo diminuisce con la stessa rapidità.” Marx, Il Salario, cit., p. 46.

[15] “Dire che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. Sino a tanto che l’operaio salariato è operaio salariato, la sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rinomata comunità di interessi fra operaio e capitalista.” Ivi, p. 40.

[16] Come osserva Marx: “dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitale significa soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accresce la ricchezza altrui, tanto più grasse sono le briciole che gli sono riservate, tanto più numerosi sono gli operai che possono essere impiegati e messi al mondo, tanto più può essere aumentata la massa degli schiavi alle dipendenze del capitale.” Ivi, p. 46.

28/04/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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