Segue da numero precedente / Link alla lezione
Il dibattito sull’imperialismo
Dinanzi agli sviluppi in senso monopolistico del capitalismo – dal punto di vista strutturale accettata sostanzialmente da tutte le diverse anime del marxismo – i diversi esponenti del marxismo ne ripensano la teoria politica in modo estremamente variegato dal punto di vista sovrastrutturale. Eduard Bernstein, ad esempio, considera progressiva la fase di sviluppo monopolistico del capitalismo – al punto da ritenere denigratorio l’aggettivo imperialista – in quanto attraverso di essa il modo di produzione moderno sorto in Europa sarebbe stato esportato anche nei paesi arretrati degli altri continenti. Il progressivo costituirsi del mercato mondiale avrebbe sviluppato l’economia al punto da superare per sempre le crisi e avrebbe favorito la politica riformista in quanto gli extra-profitti realizzati all’estero avrebbero consentito di ridistribuire una parte della ricchezza ai lavoratori dei paesi sviluppati. Del resto Bernstein appoggia il colonialismo del Secondo impero tedesco, che in seguito sostiene nella prima guerra mondiale – nonostante le gravi responsabilità del suo paese nella deflagrazione di tale spaventoso conflitto – in nome della missione civilizzatrice della cultura occidentale nei confronti dei paesi extra-europei e dell’esportazione della democrazia in Stati come la Russia zarista.
Al contrario, ne L’accumulazione del capitale (1913), Rosa Luxemburg ritiene che la fase monopolista del capitalismo avrebbe aggravato le crisi sistemiche e spinto inevitabilmente le grandi potenze a conquistare nuovi mercati, indispensabili per vendere le merci sovraprodotte e rilanciare l’accumulazione capitalistica. Perciò, di contro alle tesi di Bernstein, sostiene che la valvola di sfogo della crisi non è la presunta capacità di autoregolazione del capitalismo, ma piuttosto l’imperialismo che consente di controllare i nuovi mercati in cui piazzare le merci sovraprodotte. Ma i nuovi mercati non sono infiniti e la lotta per la loro spartizione non potrà che produrre non solo la guerra dei paesi imperialisti contro i paesi arretrati, ma uno stato di conflitto globale fra le potenze imperialiste, che assumerà – data la spartizione fra di esse del pianeta in aree d’influenza – un’ampiezza mondiale. Del resto anche i nuovi territori sottoposti al dominio capitalista – nel caso riuscissero a svilupparsi in tal senso – riprodurranno su scala allargata le crisi strutturali di sovrapproduzione. Diversamente, John Hobson, Rudolf Hilferding e Karl Kautsky considerano l’imperialismo una distorsione dello sviluppo capitalistico, dovuta al prevalere sul piano politico della componente più reazionaria della classe dominante. Perciò, con le loro analisi, intendono mostrare alla parte illuminata della classe dirigente come l’imperialismo impedisca un altrimenti sano e pacifico sviluppo economico.
Le contraddizioni del capitalismo nella sua fase monopolistica
Infine, secondo Lenin, non solo le contraddizioni del capitalismo non si superano nella sua fase di sviluppo monopolistico, come si illudeva Bernstein, né si attenuano come credevano Hilferding e i maggiori rappresentanti della Seconda Internazionale, ma inevitabilmente tendono ad acuirsi. Lo sviluppo del capitalismo in senso monopolistico non porta, in effetti, a un unico centro imperiale capace di controllare e pacificare il mondo, come si illudeva Kautsky, ma riproduce la concorrenza a un livello più elevato: il conflitto fra le grandi multinazionali per spartirsi le aree d’influenza economica. Tale processo di concentrazione di capitali era favorito tanto dalle crescenti crisi di sovrapproduzione, quanto dalla progressiva fusione del capitale produttivo (industriale) con il capitale monetario (bancario) nel capitale finanziario. Ciò comportava anche la trasformazione del precedente colonialismo – volto principalmente a depredare delle materie prime i paesi arretrati e a fornire punti di appoggio per lo sviluppo del commercio internazionale – nella sua forma moderna imperialistica, che porta a sottomettere direttamente, ossia a occupare militarmente i paesi arretrati e a porre sotto il controllo economico i paesi maggiormente sviluppati, per conquistare nuovi mercati offrendo rinnovate possibilità di investimento alle merci e ai capitali sovraprodotti. Perciò Lenin considera inevitabili tali esiti se si persegue nell’organizzazione della società secondo un modo di produzione capitalistico divenuto oramai irrazionale, che non favorisce ma ostacola l’ulteriore sviluppo delle forze produttive. L’imperialismo non è, dunque, come si illudeva Hobson, una scelta irrazionale della componente reazionaria della borghesia, ma una necessità dell’intera classe dominante – che cerca di arginare le crisi di sovrapproduzione, provocate dalla caduta tendenziale del saggio di profitto – sino a che non sarà espropriata dal controllo monopolistico dei grandi mezzi di produzione. Del resto, lo sviluppo in senso monopolistico del capitalismo stava producendo effetti che avrebbero avuto notevoli ripercussioni sullo sviluppo del marxismo. Una volta spartitosi l’intero mondo fra le potenze imperialiste, iniziarono a crescere i conflitti fra le grandi potenze, in particolare a causa della politica estera aggressiva di paesi come la Germania, sviluppatisi in ritardo in senso imperialistico. Ciò ha provocato il primo conflitto mondiale fra potenze imperialiste, che ha prodotto la definitiva spaccatura fra socialisti internazionalisti e socialisti disponibili a sostenere le borghesie nazionali tanto nella politica imperialista quanto nel conflitto inter-imperialista.
La critica alla concezione dell’imperialismo della II Internazionale
Ciò porta Lenin a inasprire la critica ai limiti dell’interpretazione dominante nella Seconda internazionale, che interpretava in senso politicista un fenomeno che aveva le sue radici nella struttura economica. Tali errori teorici erano a parere di Lenin la causa degli errori politici della Seconda Internazionale, che considerava possibile far abbandonare al capitalismo la sua politica imperialista, in quanto non comprendeva che essa era la necessaria sovrastruttura sorta sulla base dello sviluppo della sua struttura economica. Così anche il “maggiore teorico marxista del periodo della cosiddetta II Internazionale – cioè dei 25 anni intercorsi fra il 1889 e il 1914 – Kautsky”, “si schierò risolutamente contro il concetto fondamentale espresso nella nostra definizione – denuncia Lenin – allorché dichiarò non doversi intendere per imperialismo una ‘fase’ o stadio dell'economia, bensì una politica, ben definita, una certa politica ‘preferita’ dal capitale finanziario, e non doversi ‘identificare’ l'imperialismo col ‘moderno capitalismo’" [1].
Le ragioni della Rivoluzione
Del resto, a parere di Lenin, lo sviluppo monopolistico del capitalismo pone progressivamente i popoli del mondo davanti a un bivio: seguire la borghesia nella sua decadenza sempre più distruttiva, oppure sollevarsi e insorgere al fine di sviluppare un diverso modo di produzione maggiormente giusto e razionale. Di contro alla posizione subalterna assunta dalle socialdemocrazie occidentali di fronte al conflitto inter-imperialista, si trattava allora di trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Dunque le precedenti concezioni del processo rivoluzionario andavano rimesse in discussione sulla base delle profonde trasformazioni del mondo storico. Sono, in effetti, le stesse contraddizioni interne al modo di produzione capitalistico a indicare la necessità di un loro superamento; tuttavia, ciò non significa, per Lenin, che la transizione dal capitalismo al socialismo possa avvenire, come si illudeva la Seconda Internazionale, in modo quasi naturale e incruento. In effetti più il capitalismo entra in crisi, più reagisce a essa e ai tentativi di porvi rimedio da parte dei suoi oppositori in modo irrazionale e violento, potenziando il proprio apparato militare per gestire il controllo delle zone di influenza economiche all’estero e reprimere ogni forma di resistenza all’interno dei singoli Stati. Così, di contro ai riformisti e all’attendismo dei massimalisti, Lenin sostiene la necessità dell’intervento del soggetto rivoluzionario, che deve mirare a forzare il corso degli eventi, sfruttando le occasioni che offre il corso del mondo, per risolvere la contraddizione fra le forze produttive e i rapporti di produzione senza attendere che il sistema si incancrenisca. Lenin rigetta, dunque, la concezione deterministica del marxismo dominante nella II Internazionale, che riteneva possibile la rivoluzione solo nei paesi maggiormente sviluppati, senza tener conto degli specifici rapporti di forza fra le classi sociali e del grado di sviluppo della contraddizione fra forze produttive e rapporti di proprietà. Si trattava, al contrario, di cogliere gli elementi di novità e le contraddizioni peculiari che produceva la penetrazione della moderna società capitalista in un paese sino ad allora dominato dal feudalesimo come l’Impero russo e far leva su di essi per sviluppare una concreta strategia rivoluzionaria e non rimanere bloccati a discettare su astratti modelli teorici pensati per altri contesti storico-sociali.
Lenin e la rivoluzione contro Il capitale
Così, nel 1917, dopo la Rivoluzione di Febbraio, tornato in Russia dall’esilio svizzero, Lenin guida i bolscevichi alla presa del potere, con la Rivoluzione di Ottobre. Negli anni successivi, sino a che la malattia e poi la morte non glielo impediranno, Lenin impiegherà la maggior parte della proprie energie nello svolgimento della mansione di massimo dirigente dello Stato sorto dalla Rivoluzione.
Continua sul prossimo numero
Note
[1] V. Lenin, L'Imperialismo fase suprema del capitalismo, in Lenin, Opere, volume 22, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 267. Lenin prosegue sottolineando: “l'essenziale è che Kautsky separa la politica dell'imperialismo dalla sua economia interpretando le annessioni come la politica ‘preferita’ del capitale finanziario, e contrapponendo ad essa un'altra politica borghese, senza annessioni, che sarebbe, secondo lui, possibile sulla stessa base del capitale finanziario. Si avrebbe che i monopoli nella vita economica sarebbero compatibili con una politica non monopolistica, senza violenza, non annessionista; che la ripartizione territoriale del mondo, ultimata appunto nell'epoca del capitale finanziario e costituente la base della originalità delle odierne forme di gara tra i maggiori Stati capitalistici, sarebbe compatibile con una politica non imperialista. In tal guisa si velano e si attutiscono i fondamentali contrasti che esistono in seno al recentissimo stadio del capitalismo, in luogo di svelarne la profondità”. Ivi p. 269.