In un frammento del 1928 Bertolt Brecht osservava come sia proprio la riduzione dell’arte a merce nel mondo capitalistico che ingenera nel piccolo borghese l’ideologia della creatività e della purezza espressiva e priva di scopi dell’arte: un’arte tutta basata sui sentimenti di nostalgia e compassione, i sentimenti dominanti nel piccolo borghese di fronte allo sviluppo per lui distruttivo del mondo. Ciò spinse Brecht ad avvicinarsi non solo alla poetica della modernità e alle avanguardie, ma a un autore come Walter Benjamin che, in scritti come l’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, non si limita più al compianto per l’arte del passato spazzata via dalla mercificazione e dal prosaicismo dell’epoca moderna, in quanto preferisce al rimpianto per il vecchio buono immergersi e appropriarsi, armarsi del cattivo nuovo. Come Benjamin aveva indicato il lato positivo della riproducibilità delle opere, in quanto gli toglie quell’aura neoromantica di unicità e irriproducibilità, così Brecht vede nella stessa funzionalità tecnologica della società un valido alleato per mettere definitivamente in crisi la concezione puramente estetica dell’arte. La forza nichilista insita nel prosaicismo borghese va quindi salvaguardata e indirizzata perché mette radicalmente in discussione l’estetismo decadente, gli toglie il suo porsi per sé, mette in luce il suo aver perduto l’aura, il ruolo e la funzione veritativa di un tempo, la perdita della sua valenza ontologica. Con la coscienza estetizzante possono così essere definitivamente abbandonati quella religiosità chiericale e quello sterile scetticismo incapace di ironia che affliggevano il decadentismo e ne rendevano inutilizzabili molti dei più avanzati risultati.
Sulla base dell’analisi critica della concezione dell’arte per l’arte Brecht fonda la ricerca delle forme per mezzo delle quali l’opera moderna possa riappropriarsi di quella istanza veritativa, connaturata alla sua essenza originaria [1]. Proprio alla luce di questa problematica è forse possibile fare emergere un aspetto generalmente poco considerato dell’esigenza manifestata da Brecht di recuperare all’interno del dramma e, più in generale, dell’arte moderna alcuni aspetti essenziali del genere epico. Certo, egli era ben cosciente che il tentativo di ricostruire una vera e propria epopea in quest’epoca sarebbe stato condannato inevitabilmente al fallimento per la mancanza di quei fondamenti storici e ideologici che costituiscono la base di questo genere letterario. In altri termini, per ricostruire una vera e propria epopea rischiavano di venire a mancare le indispensabili fondamenta dottrinali e dogmatiche [2].
Del resto, nel mondo moderno, di fronte all’apparente irreversibile decadenza di ogni ideale, anche il più acceso ottimismo della volontà appariva contrastato da un profondo scetticismo della ragione, che sembrava negargli ogni compensazione estetica e rifiutare ogni ricomposizione delle contraddizioni del reale nell’orizzonte di senso della forma, per il carattere necessariamente soggettivo, volontaristico che questa operazione avrebbe comportato. Tuttavia con la sua idea di una epicizzazione della forma drammatica Brecht mirava a dare espressione, nel modo più oggettivo possibile, proprio a quella lacerazione, a quel dissidio interiore che inevitabilmente assale ogni animo che non intenda sacrificare la sua intima poeticità a un’epoca che sembra aver smarrito ogni tipo di ideale.
Allo stesso modo, l’arte per Brecht può continuare a esistere nel mondo moderno solo se non rinuncia più alla ricerca dell’ideale. Non si tratta, però, di tornare all’ideale che avevano di mira le opere classiche, figlie di un’epoca in cui l’ideale era dato sensibilmente e, quindi, direttamente rappresentabile in immagine. Ora invece esso è revocato in dubbio, è sottratto e l’artista ha bisogno di costruirlo, di riedificarlo muovendo dalla propria soggettività, dal proprio sentimento dell’unità di senso. Questo aspetto costruttivo dell’opera dipende proprio dalla peculiare situazione che si trova ad affrontare l’artista moderno rispetto all’antico. Per quest’ultimo, dotato ancora di una coscienza mitica e ingenua, era ancora plausibile, quando non accettata aprioristicamente, l’idea di un mondo invisibile che reggesse, informasse e garantisse l’insanabile contraddittorietà che affligge il sensibile. Questa certezza è, invece, per sempre negata all’artista moderno, condannato a errare senza meta e senza fine negli spazi infiniti della sua immaginazione alla ricerca di una qualche costruzione in grado di sostanziare, di dare un senso, all’evidente mancanza di senso del mondo empirico. Egli ha di fronte un compito infinito, è destinato – ed è cosciente di questo suo implacabile destino – a dover cercare la soluzione a un enigma che non potrà mai risolvere del tutto, è condannato a non poter trovare nessuna costruzione in cui stabilmente riposare, in cui racchiudere in un tutto dotato di senso un reale in continua trasformazione. Immagina, certo, dei sensi possibili, ma è sempre cosciente che si tratta di costruzioni artificiali, provvisorie. In altri termini, se gli autori del mondo classico potevano trovare pace nella trasformazione dei frutti della loro immaginazione in uno stabile orizzonte veritativo, l’autore moderno è condannato – nella prigione che gli ha approntato la sua stessa coscienza necessariamente infelice – a un dilacerante nichilismo, alla artificialità delle sue costruzioni il cui senso sembra ormai garantito unicamente dalla soggettività creativa.
Il lamento lirico per il tramonto dell’arte di tanta poesia romantica e neoromantica si trasforma, così, nella denunzia della morte di ogni forma artistica in sé conchiusa: del dramma assoluto post-rinascimentale, come di ogni puro lirismo, quando non intenda ridursi a ipocrita velo gettato sulle contraddizioni del mondo, sulla dilagante barbarie che ne mette in pericolo la stessa esistenza. La pura e semplice riproposizione di queste forme nell’epoca moderna è, a parere di Brecht, un vano tentativo di celare dietro la perfezione della forma le stridenti contraddizioni di questo mondo, dietro un ordine artificiale quel dilagante disordine che ne ha messo in forse la stessa esistenza.
Perciò, Brecht ha sempre criticato quelle rappresentazioni del teatro “borghese” che “hanno sempre di mira l’attenuazione dei contrasti, l’illusione d’una armonia fittizia, l’idealizzazione. Le situazioni vengono rappresentate come se non potessero essere diverse; i personaggi come individualità, letteralmente un «tutto inscindibile» per natura, creati «di getto», tali quali si mostrano nelle situazioni più disparate e capaci di sussistere anche al di fuori d’ogni situazione. Se c’è evoluzione, è sempre in modo uniforme e mai a sbalzi, sempre in una cornice ben delimitata che non può mai venire infranta” [3]. È, dunque, proprio lo sforzo di oggettivazione, connaturato al tentativo di rifunzionalizzazione della forma epica, che consente a Brecht di trasformare quasi impercettibilmente il vago lamento in una precisa denuncia, la constatazione di una morte nell’anatomia di un delitto.
Prima ancora che al livello teorico, questo passaggio è individuabile nel tormentato processo di sviluppo dell’opera brechtiana negli anni venti. Il dolore e lo sconforto metafisico che dominano la sua produzione di questi anni, in effetti, grazie all’implacabile sarcasmo e alla corrosiva ironia che la animano, gli permettono di non rinchiudersi nell’angusto cerchio dei suoi sentimenti privati e di non cedere a quella hybris dell’abisso, che domina nelle opere di tanti poeti espressionisti a lui contemporanei. Il suo radicale pessimismo, infatti, non si riposa mai in un’astratta negazione assoluta, in un pavido annullamento della volontà, in un immobile e comodo intellettualismo e pessimismo cosmico. Brecht condanna senza appello le passioni e le aspirazioni dell’uomo, ma solo quelle che non hanno per orizzonte la sua radicale finitezza. Egli sembra condannare la vita, interessarsi solo al suo lento marcire eppure, già in queste prime opere, si può cogliere un profondo amore per tutto ciò che, in essa, è grande e nobile. Così la maturità “epica” della sua produzione artistica viene a coincidere con la progressiva capacità di liberarsi da questo dolore, da questo profondo pessimismo, almeno quel tanto che basta a poterlo contemplare riflessivamente e, quindi, esprimere artisticamente. Un distacco che gli consente di descrivere con una oggettività tutta epica questa sofferenza, di dargli un nome, una precisa fisionomia storica sì da farne un che di finito e, quindi, di non estraneo all’orizzonte dell’uomo. In altri termini, solo elevando, dando un significato generale al suo torbido patimento giovanile, solo elevando a un livello universale i suoi personalissimi sentimenti Brecht riuscì a fondere in una ricca personalità artistica le peculiarità del suo combattivo e insaziabile spirito critico con il momento più astratto della sua visione del mondo. Proprio in ciò sta il segreto di quella perfetta riuscita sul piano artistico che sembra spesso venire a mancare negli scritti teorici brechtiani in cui i due opposti momenti giungono ben di rado, e solo per brevissimi momenti, a quella unificazione che comporta il potenziamento critico di entrambi.
Note:
[1] Il carattere dell’intera opera lirica di Brecht può essere identificato alla luce di quella contraddizione che Walter Benjamin ha colto nel Breviario: “… in parole alle quali, per la loro forma poetica, viene attribuita la facoltà di sopravvivere all’imminente fine del mondo, si fissa il gesto di tracciare una scritta su uno steccato, una scritta che il perseguitato butta giù in fretta”. Benjamin, Walter, Commenti ad alcune liriche di Brecht, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1991, p. 157.
[2] Di tale problematica costituiscono una esemplare testimonianza le evidenti incomprensioni che produssero i drammi didattici di Brecht veri e propri drammi inattuali, troppo in anticipo sul presente, ma anche per certi aspetti troppo retrò, troppo legati a una elegiaca nostalgia per una forma non realizzabile nel mondo moderno, o almeno in questo mondo moderno. L’arte avendo ormai perduto ogni legame intimo con una mitologia non sembra più in grado di rappresentare il pensiero al suo interno come un qualcosa di vivo. Da qui nasce il tentativo della coscienza estetica di un’arte che per principio vi rinuncia. Brecht al contrario, soprattutto nella fase dei drammi didattici, ha cercato di supplire, sulla scia di certo romanticismo, alla scomparsa della mitologia con l’allegoria. Queste allegorie però risultano troppo schematiche, vuote, e male si accordano con la implacabile logica e la limpidezza tutta prosaica di un ideale freddo. Le allegorie finiscono così per apparire come dei vani artifici teorici volti a ridare una qualche vitalità, del tutto esteriore e artefatta, a un mondo poetico ormai confinato nel passato.
[3] Brecht, Bertolt, 3 voll., a cura di Castellani, E., Einaudi, Torino 1975, vol. II, pp. 189-190.