La parabola dell’economia politica – Parte XII: Marx, la crisi e le leggi di movimento del capitalismo

L’ultimo articolo su Marx riguarda la spiegazione della crisi economica e le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico: concentrazione e centralizzazione dei capitali, finanziarizzazione, polarizzazione della ricchezza e impoverimento relativo dei lavoratori.


La parabola dell’economia politica – Parte XII: Marx, la crisi e le leggi di movimento del capitalismo

Le cause delle crisi

Ai tempi di Marx, gli economisti borghesi ortodossi erano convinti che la crisi non potesse esistere. Ciò vale non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi, grandi economisti classici. Secondo Adam Smith, per esempio, i meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio, dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale l’istruzione, la difesa ecc., astenendosi dall’interferire nell’economia.

David Ricardo, da parte sua, aderisce alla cosiddetta legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta.

Nei precedenti articoli abbiamo avuto occasione di esporre la confutazione marxiana della legge di Say e quindi la possibilità della crisi. 

Tuttavia essa, per Marx, non è solo possibile, ma necessaria, un dato fisiologico del modo di produzione capitalistico, è anche il modo violento con cui tale sistema economico risolve le sue contraddizioni. Quindi occorre esporre gli argomenti di Marx che spiegano come questa possibilità sia anche effettualità. L’argomento fondamentale è che il profitto, la valorizzazione del capitale, l’accumulazione di ricchezza astratta, è l’unico scopo perseguito dai capitalisti e che essi interrompono la loro attività, tolgono il denaro dalla circolazione, non lo reinvestono in attività produttive, lo tesaurizzano o lo investono in attività puramente finanziarie e speculative, quando non ci sono le condizioni per una sua sufficiente remunerazione, innescando effetti a catena per cui le disgrazie di qualche capitalista si ripercuotono con un effetto domino su altri capitalisti che vedono restringere la loro fetta di mercato. I lavoratori licenziati a loro volta potranno consumare di meno e quindi determineranno loro malgrado un restringimento del mercato dei mezzi di sussistenza, producendo la crisi nel relativo settore produttivo, che domanderà a sua volta meno mezzi di produzione e meno forza-lavoro e così via, secondo un meccanismo che successivamente Keynes chiamerà “moltiplicatore degli investimenti” e che formalizzerà in una relazione matematica, ma che nel suo funzionamento essenziale era già stato descritto da Marx.

È necessario pertanto individuare come possano verificarsi e di fatto si verifichino periodicamente le condizioni per cui la scarsa remunerazione del capitale blocchi gli investimenti. A tal fine, negli abbozzi lasciatici da Marx, possono essere individuati due distinti filoni:

a) Da un lato i profitti possono incontrare un ostacolo per l’impossibilità di realizzare in parte o completamente il plusvalore prodotto, cioè di vendere a un prezzo remunerativo le merci, quando addirittura i capitalisti non non riescano a venderle affatto, lasciandole a ingolfare i magazzini o a deteriorarsi;

b) Dall’altro può succedere che, pur nell’ipotesi che non si verifichi questa difficoltà di collocare nel mercato il prodotto, il plusvalore completamente realizzato non sia di entità sufficiente a remunerare adeguatamente il capitale.

In entrambi i casi il capitalista, dopo aver esaurito tutti i margini per un maggiore sfruttamento della forza-lavoro, deve arrestare o ridurre la produzione. In alternativa, può mettere in atto innovazioni di processo o di prodotto che possano ricollocare l’impresa nel mercato, però ai danni dei capitalisti concorrenti.

Le crisi conseguenti a difficoltà del primo tipo (a) vengono oggi classificate come crisi di realizzo. Le altre (b) come crisi connesse alla legge marxiana della caduta tendenziale del saggio del profitto.

***

a) Crisi di realizzo

Abbiamo già visto, a proposito degli schemi di riproduzione, che il carattere anarchico, non governato da un piano, della produzione capitalistica, rende problematico il rispetto di tutte le condizioni che ne assicurino un andamento senza scossoni. Tali condizioni riguardano le proporzioni fra i vari settori produttivi, ma anche quelle fra la capacità produttiva e la capacità di consumo delle classi lavoratrici. Infatti una fondamentale tendenza del capitale è quella di tenere i salari a un livello più basso possibile per estrarre maggior plusvalore, di produrre innovazioni e strategie per tenere il valore della forza-lavoro più basso possibile. Con lo sviluppo tecnologico si possono produrre i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice con meno dispendio di lavoro. Così, a parità di tenore di vita, una frazione sempre più piccola della ricchezza prodotta va ai lavoratori e una sempre più grande costituisce il plusvalore (plusvalore relativo).

Cosa succede del plusvalore prodotto, cioè del valore eccedente la capacità di spesa dei lavoratori? I capitalisti potrebbero spenderlo in beni di lusso, ma, per quanto ingenti siano tali consumi, il consumo improduttivo, oltre a rallentare il ritmo dell’accumulazione, contraddice la stessa natura del capitalista, che è un funzionario, la personificazione del capitale, la cui vocazione è l’accumulazione. Pertanto, il plusvalore viene speso in buona parte per accrescere la capacità produttiva, per effettuare investimenti produttivi

Secondo gli schemi di riproduzione, l’aumento della spesa per ampliare la scala della produzione rappresenta una possibilità di assicurare lo sbocco al plusvalore prodotto. E in effetti il mercato di mezzi di produzione fra capitalisti assume una crescente importanza. Ma è possibile che il sistema economico possa crescere senza scossoni aumentando sempre di più le dimensioni del settore I (produzione di mezzi di produzione) rispetto al settore II (produzione di beni di consumo)? Cioè che si attivi un processo di incremento dei mezzi di produzione per produrre maggiori mezzi di produzione, rendendo sempre più esile il rapporto di questi mezzi col consumo e con i bisogni (quelli solvibili, non quelli che le classi lavoratrici non riescono a soddisfare), i quali costituirebbero sempre meno un punto di riferimento e di orientamento della produzione? È legittimo dubitarne.

Il capitale tende a limitare la capacità di consumo dei lavoratori e nello stesso tempo a espandere il livello della produzione, di conseguenza aumenta la massa di prodotti che non possono entrare nella circolazione. Questa è una contraddizione del modo di produzione capitalistico. Si tratta della sproporzione fra produzione e consumo, dell’incongruenza secondo cui il singolo capitalista auspica che il mercato si ampli con sempre maggiori consumatori ma nel contempo cerca di contenere i salari dei propri lavoratori. Il suo irrealizzabile sogno sarebbe quello di vedere aumentati i salari degli altri lavoratori e diminuire i salari dei propri, il che ovviamente non può valere per i capitalisti nel loro insieme.

Lo stesso sviluppo tecnologico, determinando un minore fabbisogno di lavoratori per produrre una determinata quantità di merci, e quindi un restringimento del mercato dei beni di consumo dei lavoratori, contribuisce a rendere difficoltosa tale vendita.

La limitatezza della domanda, che determina ricorrentemente la mancata conferma nel mercato della socialità del lavoro e quindi la mancata realizzazione di tutto il valore oggettivato nella produzione, di tutta la ricchezza prodotta, costituisce un’altra anticipazione della teoria keynesiana, la quale tuttavia è monca perché non prende in considerazione l’altra, non meno importante, contraddizione, e a causa di ciò è incappata in un fallimento storico e nel suo abbandono da parte della nuova vulgata liberista.

b) Crisi legate alla caduta tendenziale del saggio del profitto

Fin qui abbiamo riportato alcune contraddizioni che risiedono nella sfera della circolazione o nel rapporto fra produzione, circolazione e consumo. Vediamo ora invece una causa dell’arresto del processo di accumulazione che risiede tutta nella sfera della produzione – che quindi si può formulare astraendo dai problemi di realizzo del prodotto – e che è legata alla marxiana legge della caduta tendenziale del saggio del profitto conseguente all’introduzione di tecnologie che risparmiano lavoro. 

È già stato notato che il tasso di profitto è il fondamentale incentivo a investire. Se esso cade, cade con lui la spinta a fare nuovi investimenti o incoraggia il capitalista a cercare modi per contrastare questa caduta, attivando le “cause antagonistiche” della legge. Ma tali politiche in genere tendono a deprimere la domanda. Per esempio provoca questa diminuzione la riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro. Ma anche l’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, incrementando la produzione a parità di lavoro impiegato – o diminuendo il lavoro a parità di produzione – incrementa lo squilibrio fra produzione e consumo.

Cose analoghe potremmo dirle a proposito della sovrappopolazione relativa che agisce sull’abbassamento dei salari o a proposito del commercio estero che consente margini di profitto migliori e vantaggi competitivi, ma ha come conseguenza la concorrenza al ribasso fra lavoratori delle diverse nazioni, e la concorrenza fra capitali, ciascuno dei quali cercherà, per essere competitivo nel mercato internazionale, di ridurre i propri costi sia per la forza-lavoro che per i mezzi di produzione, quindi a ridurre la domanda di tali fattori, oltre a riuscire a contenere le capacità di resistenza dei lavoratori all’abbattimento dei loro salari e con ciò agire negativamente sui consumi dei lavoratori.

c) L’operare congiunto delle contraddizioni

La mancanza di un ritorno adeguato, sia esso dovuto a problemi di realizzo o ai cambiamenti della composizione del capitale, blocca il processo di investimento e l’occupazione dei lavoratori, innescando il già descritto effetto domino.

Quindi, nella realtà, la contraddizione derivante dall’insufficienza degli sbocchi e quella derivante dalla caduta del saggio del profitto – riconducibili entrambe alla scissione tra il carattere concreto, utile, e quello astratto del lavoro; alla contraddizione tra lo scopo immediato del capitale di produrre e accumulare ricchezza astratta e la necessità che il raggiungimento di questo scopo sia mediato dalla produzione di oggetti utili alla riproduzione sociale, fra utilità sociale e arricchimento privato – spesso convivono, agiscono in simbiosi e danno luogo a interazioni importanti.

È stato tuttavia rilevato da diversi studi empirici [1] che temporalmente la caduta degli investimenti è preceduta dalla caduta del saggio del profitto connessa con l’aumento della composizione organica del capitale. Ciò testimonierebbe a favore di chi sostiene la maggiore importanza della contraddizione (b) rispetto alla (a) e che quest’ultima potrebbe manifestarsi come una conseguenza della prima. Cioè il nesso causale sarebbe:

caduta del saggio del profitto → arresto degli investimenti → crisi da domanda

La crisi, in estrema sintesi, ha il suo fondamento nella contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Se da un lato il capitale si spinge a espandersi sempre di più, dall’altro lato i rapporti di produzione e di proprietà si frappongono a questo sviluppo causando sovrapproduzione di capitale, cioè un capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente e una sovrapproduzione di merci, cioè merci che non riescono a essere vendute a un prezzo remunerativo.

Le cause quindi possono essere molteplici: espansione non armonica tra i vari settori produttivi, scarsa valorizzazione del capitale investito, scarsità di domanda solvibile. Nella pratica esse quasi sempre coesistono, interagiscono fra di loro e concorrono a trasformare la potenzialità in crisi reale che interrompe l’accumulazione di capitale, producendo scossoni e inceppamenti della produzione discontinui nel tempo.

La disputa fra alcuni marxisti per individuare la vera teoria di Marx, se essa sia legata ai problemi degli sbocchi di mercato o alla caduta del saggio del profitto, ci sembra questione di lana caprina. Marx in un passo delle Teorie sul plusvalore afferma che la crisi è “la compensazione violenta di tutte le contraddizioni dell’economia borghese” [2]. 

Quello appena citato è solo di uno dei tanti passi in questo senso all’interno di un abbozzo di critica a Ricardo, ma è curioso che ciò non sia bastato a prevenire una disputa fra sostenitori dell’una o dell’altra causa considerate vicendevolmente escludentesi.

Le crisi ci dicono che tale modo di produzione non è né naturale né eterno ed è destinato a fare spazio, pena l’arretramento della nostra civiltà, a un modo più evoluto di produrre, in cui le scelte vengano effettuate dai produttori associati su base consapevole, con riguardo ai bisogni umani, e non siano demandate alla spontaneità del mercato e guidate dalla brama di arricchimento privato.

I tasselli di una teoria coerente sono costituiti dall’insieme delle contraddizioni individuate da Marx, in quanto è sempre possibile mettere delle pezze quando una singola classe di ostacoli tocca particolarmente il corpo sociale e soprattutto la tasca dei capitalisti, ma non è altrettanto agevole aggredire contemporaneamente l’insieme degli intoppi. Infatti, nel caso di crisi da domanda è possibile farvi fronte con una più equa distribuzione, con il sostegno della spesa pubblica e con altri accorgimenti che anche il buon Keynes ci ha suggerito. Ma le misure che servono per promuovere la domanda al fine di evitare lo scoglio dei problemi di realizzazione, si imbattono nello scoglio della riduzione dei margini di profitto, in quanto cresce il valore della forza-lavoro.

Non a caso dagli anni ’70 del secolo scorso in poi, a seguito di una contrazione del saggio del profitto, queste politiche sono state messe al bando. La risposta è stata quindi l’introduzione del nuovo vangelo liberista che, contraendo il reddito dei lavoratori e la spesa pubblica o dislocando le produzioni dove i salari sono più bassi, o aumentando la velocità di rotazione del capitale attraverso la “produzione snella”, ha però determinato problemi di domanda.

Si è cercato di farvi fronte con il ricorso al credito, di realizzare così il sogno di ogni capitalista illustrato da Marx: lavoratori pagati poco ma buoni consumatori. È bastato avere la pazienza di attendere lo scoppio della bolla creditizia come nel caso dei mutui subprime e dei loro derivati negli USA per accertare i limiti di questo trucco.

Altri trucchi possibili: la centralizzazione del capitale, il mercato mondiale ecc. La prima, però, avviene spesso attraverso la distruzione del capitale delle imprese che chiudono i battenti, e il mercato mondiale non rappresenta altro che un trasferimento su una scala più vasta delle identiche contraddizioni.

Esistono certamente altre politiche che possono aggredire la caduta dei profitti, per esempio depredando i beni pubblici, come con le privatizzazioni, cioè la sussunzione sotto il dominio del capitale di attività finora demandate alla socialità pubblica, non mediata dal mercato (istruzione, cultura, previdenza, tutela dell’ambiente, mobilità), oppure alla socialità immediata comunitaria, quali alcune attività domestiche o volontarie. Infine viene in soccorso anche lo sfruttamento più intenso dell’ambiente e dei beni comuni. Anche questa soluzione non può comunque oltrepassare il limite del capitale che si impadronisce di tutto, abbracciando ogni aspetto dell’esistenza naturale e sociale. Non possiamo sviluppare qui l’argomento, ma anche la questione ambientale connessa ai limiti fisiologici dello sfruttamento della natura è una conseguenza della pervasività del capitale e quindi è impossibile risolverla all’interno dei rapporti di produzione capitalistici.

Entrambi i filoni dell’analisi di Marx che ci conducono alle cause delle crisi, il sottoconsumo e la caduta tendenziale del saggio del profitto, sono quindi riconducibili alla contraddizione esaminata nelle prime pagine del Capitale, quella fra valore d’uso e valore, tra il carattere sociale della produzione, che si è imposto con lo sviluppo del capitalismo, e il carattere privato dell’appropriazione, fra la necessità che la produzione corrisponda ai bisogni della riproduzione umana e la forma sociale che assumono i beni prodotti e la produzione stessa, orientata al valore astratto. Il che dimostra che il capitalismo non è un sistema naturale, che come tutti i precedenti modi di produzione dovrà essere rimpiazzato da altri tipi di rapporti di produzione. Sta ai comunisti fare sì che questi cambiamenti evolvano verso forme in cui alla spontaneità delle leggi del mercato si sostituisca l’azione consapevole dei lavoratori associati.

Non c’è quindi una cesura fra il Marx maturo e quello giovanile. Nel Capitale vengono sviluppate in modo scientificamente fondato le intuizioni contenute nel Manifesto e nei Manoscritti economico filosofici del 1844.

Ma la critica marxiana dell’economia non si ferma all’importantissima spiegazione della crisi. Cerca anche di delineare alcune leggi di movimento delle società a prevalente produzione capitalistica. Si accenna qui ad alcune.

La finanziarizzazione

Marx dedicò nei suoi manoscritti molto lavoro, raccolto da Engels in ben quattro capitoli del terzo libro del Capitale, all’analisi della finanza del suo tempo, individuando i meccanismi speculativi e monetari del capitalismo britannico.

Ne individuò l’origine nel capitale produttivo d’interesse – per lo più capitale bancario – che finanzia la produzione e la circolazione dei beni ma che circola anche prescindendone. La Borsa valori è uno strumento di tale circolazione [3].

Naturalmente, Marx non poteva immaginare il grado di sviluppo attuale dei prodotti finanziari. Oggi si fanno scommesse sull’andamento futuro dei prezzi, i futures, siano essi prezzi di beni materiali (per esempio petrolio), beni cartacei (titoli), tassi di interesse o quotazioni delle valute estere. Si scommette sull’esigibilità o meno dei crediti (credit default swap), su aggregati complessi di vari tipi di titoli (titoli compositi, strutturati o sintetici), su aggregati di tali aggregati e così via, giungendo al non onorevole traguardo del valore complessivo delle transazioni finanziarie pari a circa un centinaio di volte il valore delle transazioni aventi per oggetto beni reali, e alla situazione paradossale che nessuno sa ormai cosa sta veramente dietro questi castelli di carte. Già ai suoi tempi, tuttavia, non sfuggì a Marx né la tendenza di fondo del capitale verso la finanziarizzazione, né il fatto che spesso sia impossibile sapere se i titoli di credito abbiano o meno a che vedere con vendite e acquisti effettivi di merci.

Al suo tempo, le transazioni finanziarie riguardavano o i crediti, comprese le cambiali di comodo cui non sottostava un reale scambio di merci, ma che servivano per ottenere credito dalle banche, i titoli del debito pubblico, le azioni e le obbligazioni. Marx definì “capitale fittizio” l’emissione di tali “puri e semplici mezzi di circolazione” perché rappresentava o una duplicazione del capitale reale o addirittura un capitale inesistente. Per esempio, le azioni sono un valore cartaceo che rappresenta quote del capitale reale di una società per azioni, capitale che a sua volta figura già nella contabilità di quella società; le azioni e le obbligazioni hanno un valore che viene calcolato “attualizzando”, cioè scontando al tasso di interesse di mercato, i rendimenti futuri attesi, e quindi hanno a che vedere solo parzialmente col capitale che esse rappresentano. Quindi, il capitale fittizio non aggiunge niente al capitale esistente, ma è costituito da diritti sulla produzione futura di plusvalore.

Nelle richiamate pagine di Marx viene espresso anche un altro concetto di grande attualità. Chi opera nella finanza spesso sottoscrive titoli senza disporre del denaro liquido per acquistarli. Se sottoscrive azioni di una Spa, per esempio, versa un anticipo all’atto della sottoscrizione e spera di poter versare il resto se gli affari gli vanno bene.

Si tratta di passi che contengono spunti ancor più validi oggi, in quanto l’attività speculativa si è sviluppata enormemente con il passaggio dal capitalismo prevalentemente concorrenziale a quello monopolistico, in cui l’egemonia è esercitata dalle grandi multinazionali e in cui l’intreccio tra capitale industriale e capitale finanziario è strettissimo e governato da ristrette oligarchie. L’attenzione è maggiormente rivolta ai rendimenti e alle quotazioni di borsa delle loro azioni piuttosto che alla produzione. I mezzi per operare senza disporre denaro si sono inoltre moltiplicati. Per esempio Tizio può acquistare “allo scoperto”, senza nessun pagamento, titoli a termine, cioè trasferibili dopo un determinato lasso di tempo, e rivenderli alla scadenza. In tal modo non entra mai in possesso dei titoli né ne sostiene il costo ma semplicemente viene regolata la differenza fra le due quotazioni (quella pattuita inizialmente e la quella effettiva alla scadenza). Se è stato lungimirante ne ricaverà un guadagno, altrimenti subirà una perdita. In pratica si tratta ancora di una pura scommessa sull’andamento futuro delle quotazioni senza movimentazione di merci e senza che il valore di questi titoli abbia un substrato reale.

La ricerca di facili guadagni speculativi in sostituzione dei profitti industriali spinge comunque a effettuare operazioni finanziarie in una misura che non corrisponde ai mezzi liquidi effettivamente disponibili. Finché l’economia “tira” anche le borse e la speculazione, tra alti e bassi, daranno risultati mediamente positivi, in quanto tali guadagni non vengono creati dal nulla e non sono altro che una quota del plusvalore futuro realizzato nell’economia reale e ripartito tra capitalisti industriali e capitalisti finanziari. Quando nell’economia reale il plusvalore non viene realizzato, allora – magari trascorso un periodo in cui continuano a figurare illusori guadagni – si avranno ripercussioni violente in borsa, con una serie di fallimenti.

Gli economisti ortodossi si limitano a rappresentare in modo apologetico e in veste apparentemente scientifica le pulsioni e le aspirazioni dei capitalisti. E lo fanno rimanendo alla superficie dei fenomeni, senza sondare la realtà immanente di cui questi fenomeni sono una manifestazione esteriore. Per questo si limitano a constatare che la crisi viene provocata dallo scoppio delle bolle finanziarie e quindi confondono le schegge che fuoriescono dalla bomba con l’esplosivo che la bomba contiene; le manifestazioni esteriori con le cause della crisi, che invece risiedono nell’economia reale.

Le ricette vengono quindi individuate in regolamentazioni più attente della finanza o in interventi fiscali disincentivanti le speculazioni, come la nota Tobin Tax.

Concentrazione e centralizzazione dei capitali

Per incrementare la produttività occorre una sempre più spinta divisione del lavoro, l’utilizzo sempre più intenso di macchine e tecnologie. Ciò però richiede che la scala minima di produzione si vada sempre ampliando per poter essere competitivi sul mercato. In tal modo molte imprese minori non ce la fanno a sostenere questa concorrenza e chiudono i battenti lasciando lo spazio alle poche grandi imprese. Con ciò si ha il fenomeno della concentrazione del capitale, che significa capitali sempre più grandi e la sua centralizzazione, cioè il suo passaggio in mani sempre più ristrette numericamente [4].

Polarizzazione della ricchezza e pauperizzazione dei lavoratori

Marx prevede una tendenza alla riduzione dei salari a causa del crescente peso del capitale costante che produce disoccupazione tecnologica e ingrossamento dell’esercito industriale di riserva, considerato da Marx un fattore che spinge verso la riduzione dei salari. 

Da qui l’altra legge di movimento del modo di produzione capitalistico: la crescente miseria del proletariato, almeno in termini relativi, cosa che si è puntualmente verificata. È un’altra delle contraddizioni del capitalismo associata alla crescente produttività il lavoro.

 

Note:

[1] Si veda per esempio A. Tapia, Investment, Profit and Crises: Theories and Evidence, in G. Carchedi, e M. Roberts, (a cura di), A World in Crisis A global Analysis of Marx’s Law of Profitability, Haymarket Books, 2018.

[2] K. Marx, Storia delle teorie economiche, vol. II, Ed. Einaudi, p. 560.

[3] “Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio essenzialmente protestante. [...] Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto un’esistenza sociale. È la fede che rende beati [...]. Ma come il protestantesimo non riesce a emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario” (Capitale III, cit. p. 690). Questo monito funziona ancora per l’odierna moneta inconvertibile in oro stampata dagli Usa dopo la fine del sistema monetario di Brettos Woods, che si regge solo sulla “fede” sostenuta dagli armamenti e dalle guerre. Vale a maggior ragione per la base monetaria creata dal niente, attraverso i depositi, dalle banche ordinarie. Lo testimoniano le ricorrenti crisi monetarie. Il tonfo di questi giorni delle criptovalute era pertanto, per i miscredenti, un evento annunciato.

[4] Si deve a una serie di studi diretti da Emiliano Brancaccio la misurazione di questo fenomeno che conferma la previsione marxiana. Oggi l’80% del capitale azionario globale è controllato dal 2% degli azionisti. Cfr. Emiliano Brancaccio, Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione, Ed. Meltemi. 




24/06/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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