Santiago, Italia è indubbiamente il miglior film italiano uscito quest’anno nelle sale e nella top five dei migliori film dell’anno. Nanni Moretti conferma di aver raggiunto, dopo la buona prova di Mia madre, la piena maturità, per quanto in ritardo. Finalmente il suo infantile soggettivismo romantico dei primi film, il continuo mettere in primo piano il proprio spropositato ego e le proprie fissazioni, lascia il posto alla rappresentazione filmica della cosa stessa. Il regista non compare mai in scena, se non in due brevissime scene, lo sguardo iniziale su Santiago – importante per sottolineare il necessario effetto di straniamento che lo spettatore dovrà mantenere rispetto a quanto gli verrà mostrato, indispensabile ad assumere un’attitudine critica – e una ottima scena in cui riappare per sottolineare e rivendicare – dinanzi alle rimostranze del militare in carcere per i delitti compiuti durante la dittatura di Pinochet, che pretenderebbe una impossibile documentazione imparziale dei fatti – il suo essere di parte, ovvero lo schierarsi per l’emancipazione del genere umano nei confronti di chi cerca di impedirlo, battendosi per le de-emancipazione.
Abbiamo così finalmente un artista maturo che si realizza pienamente nella sua opera, nella sostanzialità del contenuto trattato e della compiuta pertinenza della forma espressiva cinematografica, senza però portare lo spettatore a immedesimarsi compiutamente in quanto vede, perdendo la capacità di portare davanti al tribunale della propria ragione quanto viene presentato da un punto di vista necessariamente partigiano, che sottolinea il proprio odio gramsciano per gli indifferenti.
Il salto di qualità di questo film, rispetto ai precedenti, è dovuto anche alla geniale elaborazione del plot, ovvero un raffronto estremamente significativo e che non può che lasciare molto da pensare allo spettatore, in funzione, ci si augura, che tale riflessione possa tramutarsi in un’azione volta a contrastare il rapido affermarsi nel nostro paese di quella restaurazione neoliberista che, per sperimentarla per la prima volta in Cile, vi è stato bisogno di un colpo di Stato militare che, dopo aver bombardato con l’aviazione il palazzo del governo democraticamente eletto, è passato allo sterminio e alla reclusione in campi di concentramento di chiunque potesse opporsi a questa terapia shock.
Non può, dunque, che apparire inquietante lo sguardo straniante di un rifugiato politico cileno che ci ammonisce degli effetti nefasti prodotti nel nostro paese dalla restaurazione liberista, non solo dal punto di vista economico e sociale, ma persino antropologico. Essa ha portato allo sviluppo in una parte crescente della popolazione italiana di uni spietato egoismo individualista, incapace di riconoscersi nemmeno nelle sofferenze del prossimo. Ancora più significativo è il raffronto, anch’esso indubbiamente straniante, fra lo scenario dell’Italia del 1974 che accoglie e integra i rifugiati politici di un paese extra-europeo, il senso di solidarietà e il compiuto riconoscimento nelle sofferenze del proprio prossimo, che ricorda ai cileni i magici anni del governo dell’Unidad popular, e le aberranti analogie fra il nostro presente e la dittatura militare di estrema destra imposta al Cile dall’imperialismo statunitense, per farne la cavia su cui sperimentare gli effetti devastanti delle politiche neoliberiste.
Mentre 35 anni fa i rifugiati politici cileni, allora come oggi vittime delle politiche neoliberiste, erano accolti nella ambasciata italiana a Santiago e da lì trasportati nel nostro paese, dove venivano inseriti appena possibile nel mondo del lavoro, con contratti in regola e a tempo indeterminato, cercando anzi di valorizzarne al meglio le competenze, gli odierni rifugiati sono divenuti il capro espiatorio su cui scaricare la rabbia repressa di un proletariato ormai privo di coscienza di classe, ridotto a plebe arruolata nella guerra al lavoratore più povero e indifeso, lasciando così campo libero alla lotta di classe condotta unilateralmente dall’alto dalla classe dominante.
Dunque, se per creare un analogo scenario trentacinque anni fa in Cile c’era ancora bisogno di un surplus di violenza – l’aperto sostegno della massima potenza imperialista mondiale e l’intervento diretto di esercito e degli altri apparati repressivi dello Stato – oggi si raggiungono risultati analoghi nel nostro paese, che pure ha avuto il più importante Partito comunista dei paesi a capitalismo avanzato, con la sola egemonia della classe dominante che, controllando tutte le casematte della società civile, ossia tutti gli strumenti per imporre il proprio dominio con il consenso attivo o quantomeno passivo dei ceti subalterni.
Non può che colpire come fosse migliore, più vivibile e preferibile quel mondo di appena trentacinque anni fa, in cui si respirava un clima di reale potenziale democrazia nel nostro paese, per molti aspetti assimilabile alla parentesi democratica vissuta in Cile nei tre anni di governo di socialisti e comunisti. Democrazia nel vero senso del termine, nel senso originario ed etimologico di potere delle classi popolari, dei subalterni di contro agli oligarchi. Anzi nel film, in riferimento agli stessi documenti statunitensi de-secretati, si evidenzia come l’intervento degli Stati Uniti contro il governo democraticamente eletto in Cile, fosse in buona parte diretto a impedire che tale eccezione, ovvero un governo realmente schierato dalla parte delle classi subalterne eletto con il pieno rispetto del sistema parlamentare borghese, potesse divenire un modello per altri paesi, quasi che appunto una singola eccezione potesse divenire una regola. In particolare, si temeva che tale modello realmente democratico potesse ripetersi in due dei principali paesi imperialisti, ovvero la Francia e l’Italia, dove nonostante tutte le persecuzioni erano attivi due imponenti partiti comunisti.
Non è un caso, anche se il film di un democratico come Moretti non può certo sottolinearlo, che proprio tale esemplare colpo di Stato abbia favorito il prevalere nei partiti comunisti italiano e francese delle forze revisioniste, che intendevano abbandonare la stessa strategia di una via parlamentare al socialismo, in nome prima del compromesso storico con la Democrazia cristiana, allora principale espressione politica della classe dominante, e poi dell’eurocomunismo, ossia il definitivo passaggio di campo dall’alleanza con i paesi in transizione al socialismo, a quella con i paesi imperialisti, sentendosi più sicuri sotto l’“ombrello protettivo della Nato”. In tal modo queste due significative eccezioni, di un potenziale raggiungimento della democrazia anche per via parlamentare, gettavano progressivamente la spugna, fino alla sostanziale auto-eutanasia, in primo luogo, del Pci.
Altro aspetto, che non poteva che sfuggire completamente all’ultrariformista regista del film, è l’aspetto tragico del colpo di Stato in Cile, ossia manca del tutto la capacità di un superamento catartico, da parte degli stessi protagonisti intervistati che hanno patito questa terribile tragedia storica. In pratica tutti i protagonisti intervistati e, di conseguenza, lo stesso regista non si rendono minimamente conto che la spaventosa sofferenza che hanno patito non possa essere il prodotto di un destino cinico e baro, ma sia una necessaria conseguenza di quell’ossimoro definito democrazia borghese. In altri termini, questo Stato è accettato dalle classi dominanti solo quando è funzionale alla propria egemonia sulle classi subalterne, ma appena rischia di divenire uno strumento di emancipazione di quest’ultime, i primi a non rispettarne più le regole sono proprio i rappresentanti della grande borghesia. Ancora di più né i protagonisti intervistati e, tantomeno, il regista sono in grado di comprendere che proprio le terribili sofferenze patite dovrebbero catarticamente fargli comprendere che, dal momento che ognuno è in ultima istanza responsabile del proprio destino, esse derivano necessariamente da una tragica hybris. L’ingenua tracotanza che li porta alla convinzione che rispettando le regole del sistema dell’avversario quest’ultimo non potrà che fare lo stesso. Così il governo di Unidad popular procede ingenuamente sulla propria strada democratica, dimenticando che in uno Stato essa è realmente realizzabile solo all’interno del blocco sociale dominante. In tal modo, nonostante tutti i segnali che indicavano l’inevitabilità del golpe – visto che dal punto di vista della classe dominante a violare le regole è proprio chi pensa di rendere effettivamente valida la democrazia per tutta la popolazione, comprese le classi subalterne, come osservano candidamente i generali golpisti intervistati – non si organizza nessuna contromisura.
Tale tragica hybris appare nel modo più evidente nel comportamento dello stesso presidente Allende che, anche quando il golpe è in atto e il suo stesso palazzo è bombardato dall’aviazione, accetta stoicamente la tragedia in corso, dando a intendere ai lavoratori che essa è ormai un dato di fatto, un qualcosa di necessario, a cui è sostanzialmente impossibile nello stato attuale opporsi. Tanto che lo stesso presidente decide, altrettanto stoicamente, di suicidarsi, lasciando le classi subalterne e, in primo luogo, le sue avanguardie alla mercé degli apparati repressivi delle classi dominanti che, gettata la maschera liberal-democratica, mostrano apertamente come la “democrazia” borghese non sia altro che una dittatura oligarchica di contro alle masse popolari.
Se tale incomprensione da parte di un regista borghese di sinistra non potevamo che darla per scontata, colpisce invece negativamente il suo dare a intendere che l’unica reale opposizione possibile, dinanzi alla dittatura di classe neoliberista sia l’opera di quelli esponenti, realmente cristiani, della chiesa che chiedono alle classi dominanti di non infierire sulle classi dominate.
Al di là di questa pesante caduta di tono, per il resto il film riesce a far ragionare su avvenimenti così tragici e attuali senza mai rinunciare al godimento estetico che ogni reale opera d’arte non può non provocare, di contro alle tendenze iconoclaste che considerano irrappresentabile da parte di un’opera d’arte, proprio per questo motivo, il male radicale, incarnato dal fascismo.
Altro aspetto significativo del film è l’evidenziare la penosa banalità del male che caratterizza gli autori materiali degli atroci crimini contro l’umanità prodotti dal regime di Pinochet. Costoro non hanno per niente la presunta statura del grande criminale, ma appaiono per ciò che realmente sono, ossia disumani assassini proprio perché non sono minimamente in grado di rendersi conto del male che hanno prodotto, convinti di aver semplicemente fatto il proprio dovere. Dimostrando ancora una volta che i fascisti non sono altro che manovalanza destinata a fare, strumentalmente, il lavoro sporco per la classe dominante. Tanto che mentre quest’ultima non ha pagato nulla per quanto accaduto, continuando a godere degli assurdi privilegi prodotti dallo sfruttamento della forza-lavoro altrui, alcuni fascisti che si sono addossati il lavoro sporco possono anche essere sacrificati, quali presunte mele marce, che consentono di mantenere in vita il sistema che li ha prodotti e la sua egemonia sui subalterni.