Dalle origini del neoliberismo alle elezioni europee

Dietro l’ideologia neoliberale si cela il progetto di imbrigliare gli Stati democratici in istituzioni transnazionali volte a impedire ogni messa in discussione della proprietà privata.


Dalle origini del neoliberismo alle elezioni europee

Quinn Slobodian, storico del Wellesley college (Massachusetts), ha tracciato una interessantissima storia delle origini del pensiero unico dominante, il neoliberismo, in Globalist. The End of Empire and the Birth of Neoliberalism, recentemente pubblicato dalla Harvard University Press. Tale ideologia sorge a Vienna come reazione al definitivo venir meno dell’ancien régime, a causa del crollo, dopo la Rivoluzione d’ottobre e la conseguente fine della prima guerra imperialistica mondiale, degli ultimi quattro imperi che avevano segnato in profondità la storia europea, facendo da argine al nuovo mondo che veniva affermandosi a partire dalla Rivoluzione francese. Tanto più che dinanzi alla rivoluzionaria costituzione prodotta dalla rivoluzione d’ottobre non appariva più conveniente alla classe dirigente e ai suoi ideologi ostinarsi a portare avanti una palese contrapposizione alla democrazia moderna. Le potenzialità rivoluzionarie di essa, nella forma che aveva assunto dopo la Rivoluzione d’ottobre – tornando al suo significato originario di potere delle masse popolari di contro agli oligarchi – andavano necessariamente imbrigliate nel formalismo della “democrazia” borghese o liberal-democrazia, dei veri e propri ossimori dal punto di vista concettuale.

Ciò implicava, in un momento in cui i rapporti di forza erano decisamente sfavorevoli per l’oligarchia liberista, dover accettare per il momento il suffragio universale e un reale multipartitismo, in cui anche i partiti che rappresentavano le masse popolari potevano – sfruttando elezioni finalmente non manipolabili da chi detiene il potere, vista la necessità di tollerare persino un sistema realmente proporzionale – arrivare al governo. In tal modo, le masse popolari avrebbero potuto realmente far valere il proprio potere democratico imponendo una tassazione fortemente progressiva, che avrebbe colpito le rendite e il capitale finanziario. Dinanzi a un tale nefasto scenario, gli intellettuali organici all’oligarchia solo ideologicamente potevano definirsi neoliberisti, lasciando credere di essere favorevoli a un’autogestione delle forze produttive della società civile, di contro a qualsiasi intervento dello Stato che, mettendo in discussione le leggi “naturali” del libero mercato, sarebbe da considerare in quanto tale totalitario.

Mai come quando che gli enormi privilegi dell’oligarchia erano messi in questione, c’era bisogno di istituzioni forti che garantissero l’inviolabilità della proprietà privata dinanzi alla democrazia, nel senso originario del termine, coniato dagli oligarchici per denigrare come violento e oppressivo il potere delle masse popolari, per altro prive delle competenze tecniche necessarie a governare, prerogativa della sola aristocrazia quale presunto governo dei migliori. D’altra parte, ora che gli Stati proto-totalitari di cui si erano giovati i liberali, sfruttando la guerra mondiale, erano stati abbattuti dal vento rivoluzionario che soffiava dall’est, non restava che sostituirlo con delle istituzioni transnazionali. Dunque, nel momento che l’ideologia nazionalista e sciovinista era a tal punto screditata da essere rivendicata solo dalla destra apertamente reazionaria – tanto più che gli Stati nazionali con elezioni realmente democratiche finivano con l’essere governate dai partiti di massa, ossia che rappresentavano le masse popolari – occorreva rafforzare il più possibile quelle istituzioni transnazionali necessariamente tecnocratiche.

Tali istituzioni “internazionaliste” e “super partes”, in quanto guidate da governi “tecnici”, avrebbero difeso le “naturali leggi del libero mercato” dall’assalto delle masse “barbare e incompetenti” che potevano addirittura dirigere i governi di importanti Stati nazionali e mettere a repentaglio il “diritto umano” alla proprietà, fondamento della libertà dell’individuo dinanzi a ogni forma di totalitarismo statalista. Solo grazie a tali istituzioni, allora incarnate dalla Società delle nazioni, ora sostituita con il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l’Unione europea etc. sarà possibile garantire il governo della legge (rule of Law) di contro al necessariamente violento e di parte potere delle masse popolari (democrazia nel senso originario ed etimologico del termine). Solo così si potrà preservare l’universalità della legge dinanzi alla legislazione dei diversi governi che perseguono necessariamente interessi specifici, a partire proprio da quelli democratici che agirebbero in favore delle masse dei non possidenti, mosse dal ressentiment, mettendo a repentaglio con delle leggi ad personam le proprietà dei “migliori”, che sarebbero stati capaci di guadagnarsele e di farle fruttare. Saranno dunque le istituzioni internazionali a garantire il governo della legge e la sua universalità ponendo dei limiti alle legislazioni dei singoli governi democratici, che sviluppano una legislazione necessariamente particolaristica. In tal modo the rule of Law, il governo della Legge rimarrebbe indipendente dai governi particolari, grazie alla tutela delle istituzioni transnazionali che, ponendo dei limiti oltre i quali la legislazione dei governi democratici particolari non dovrebbe poter andare, altrimenti metterebbe in discussione la stessa universalità formale della Legge.

Proprio perciò, i “padri nobili” del neoliberismo hanno sempre guardato con favore a forme di governo gerarchiche e autoritarie, quando le istituzioni globali transnazionali non riuscivano ad arginare le minacce poste da società “troppo” democratiche alla proprietà privata, ritenuta sacra perché su di essa si fonderebbe la libertà e l’indipendenza dell’individuo di contro alle tendenze totalitarie dello Stato e al ressentiment dei subalterni. Ecco allora che i “padri nobili” del neoliberismo come Mises o dell’ordoliberismo tedesco Wilhelm Röpke non potevano che guardare con favore all’avvento dei fascismi, quali necessari argini al “dominio della plebaglia”. Allo stesso modo il più grande “filosofo” fra i padri nobili del neoliberismo, Friedrich August von Hayek, non poteva che considerare con sconcerto la sconfitta del nazifascismo da parte dell’Unione sovietica, tanto che in piena seconda guerra mondiale scriveva Verso la schiavitù, pubblicato nel 1944, paventando i rischi di una affermazione su scala internazionale del socialismo, che per altro sarebbe alla base dello stesso nazionalsocialismo ormai in ritirata, e metterebbe in discussione le basi stesse della “civiltà occidentale” fondata sulla individuale libertà dei moderni.

In modo analogo dinanzi a uno dei più importanti movimenti di emancipazione del mondo contemporaneo, il movimento anticolonialista, il sopra ricordato ordoliberista Röpke si schierava apertamente, ancora a metà degli anni sessanta, con gli Stati razzisti fondati sull’apartheid, il Sud Africa a la Rhodesia, considerandoli dei capisaldi della “civiltà occidentale” messa in discussione da quello che il neoliberista inglese William Hutt denunciava negli stessi anni come “imperialismo nero”. Non a caso, dunque, le politiche economiche neoliberiste si poterono liberamente sperimentare nella loro forma più pura solo con la dittatura militare di Pinochet, che aveva preventivamente spazzato via ogni elemento di disturbo democratico alla riuscita di tale esperimento. Del resto, il più esimio filosofo del neoliberismo Von Hayek poteva tranquillamente sostenere, alle soglie degli anni ottanta, che Pinochet, postosi come argine a chi osava mettere in discussione la proprietà privata, fondamento della libertà dei moderni, tutelava le libertà personali molto meglio del governo Allende. Del resto, secondo la filosofia neoliberista, di cui Hayek è certamente considerato il padre nobile, la libertà è sempre una condizione che riguarda la persona come singola, dotata di una sfera privata intorno a sé che gli altri non debbono violare. La libertà è, dunque, assenza di interferenze o coercizioni esterne. Per cui l’individuo, che segue le direttive di un governo, per quanto eletto democraticamente, non potrebbe considerarsi libero.

Del resto, Hayek non poteva che criticare la democrazia, dal momento che per i neoliberisti rischia costantemente di divenire una tirannide della maggioranza. Perciò egli intende sostituire al potere del popolo della democrazia, la demarchia quale governo non fondato sulla forza, ma secondo regole, che assicuri le libertà individuali, impedendo ogni coercizione nella sfera privata. Passando dalla teoria alla prassi, nello stesso tempo, una generazione di giuristi neoliberisti come E.U. Petersmann operavano per rafforzare il dominio di quelle istituzioni globali transnazionali che assicuravano, contro ogni tentazione democratica che rischierebbe sempre di divenire totalitaria, la libertà dei mercati e la protezione legale della proprietà privata.

Detto questo non può che divenire evidente la pericolosità delle posizioni di chi pretende di sostenere da sinistra, dai verdi fino a Varoufakis, la necessità di rafforzare ulteriormente tali istituzioni transnazionali, a partire dall’Unione europea. In tal modo, chi difende queste posizioni dimostra di non poter esser più considerata l’ala destra e moderata della rappresentanza politica dei subalterni, in quanto sono divenuti – in modo più o meno consapevole – l’ala sinistra di chi mira a difendere gli interessi complessivi delle classi dominanti.

In una posizione ancora a cavallo fra l’ala destra delle classi dominanti e l’ala sinistra della borghesia si pone invece chi, consapevole o meno, cerca di persuadere le classi subalterne che tali istituzioni transnazionali, a partire dall’Unione europea, siano riformabili in senso democratico o addirittura socialdemocratico. Non a caso si tratta di esponenti che, come De Magistris, cercano di illudere le masse subalterne che il loro riscatto passi attraverso l’affermazione della cultura della legalità. Come se la legalità in un paese capitalista non sia funzionale a difendere la proprietà privata delle classi dominanti e non certo quella dei ceti subalterni che, a forza di cadere in tali trappole interclassiste, apolitiche e populiste, perdendo progressivamente la consapevolezza di classe non sono più in grado di difendere né il salario sociale, né la limitazione dei tempi e ritmi di sfruttamento.

Visto che in mancanza di coscienza di classe le lotte sociali non potranno che continuare a essere condotte, in modo unilaterale, dalle classi dominanti, in nome del pensiero unico della restaurazione liberista, è essenziale che le residue avanguardie e gli intellettuali organici alle classi subalterne sfruttino al meglio ogni occasione, a partire dalla “tribuna” offerta dalle prossime elezioni europee, per accumulare le forze facendo crescere la consapevolezza di classe degli sfruttati. A tale scopo, ogni forma di alleanza tattica con forze socialdemocratiche o democratiche deve garantire la possibilità alle avanguardie del proletariato di poter denunciare dinanzi alle masse proprio quelle illusioni con cui i dirigenti di tali forze intendono mantenere i lavoratori salariati sotto l’egemonia della piccola borghesia.

09/12/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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