La necessità di una rottura di classe dell’Unione europea

L’Ue ci conferma che in regime capitalistico gli unici Stati Uniti d’Europa possibili sono reazionari. Ai comunisti il compito di farlo capire ai lavoratori.


La necessità di una rottura di classe dell’Unione europea

Gli eventi degli ultimi venti anni hanno dimostrato nei fatti ciò che molti comunisti hanno sempre pensato e sostenuto e che, invece, la maggior parte dei gruppi dirigenti delle forze di sinistra moderata e radicale non hanno mai voluto né vedere né riconoscere: Il progetto dell'Unione Europea non ha mai avuto nulla di progressivo ed emancipatorio, né per le classi popolari né per il processo complessivo di evoluzione del genere umano.

Non è paragonabile alle rivoluzioni borghesi come quelle americana e francese poiché è del tutto assente nelle classi dirigenti che l'hanno concepito, e soprattutto in quelle che si sono impegnate a concretizzarlo, la minima idea di coinvolgimento delle classi popolari nel processo di costruzione del potere politico. In questi gruppi dirigenti non è minimamente contemplata neanche l'idea di utilizzare strumentalmente i settori popolari per la presa del potere, com’è avvenuto nelle rivoluzioni borghesi o nel corso del risorgimento italiano.

Il nemico da abbattere, per queste forze politiche, non è più la vecchia aristocrazia o qualche altro retaggio del passato feudale che impedisce lo sviluppo delle forze produttive, ma sono quelle stesse classi popolari che nel corso del secondo dopoguerra – grazie al contributo dell'Unione Sovietica alle lotte di liberazione dal nazifascismo, alla resistenza ed alle lotte di liberazione coloniale nei Paesi del Terzo mondo – hanno suscitato paure, timori, inquietudine nella borghesia colonialista e imperialista del vecchio continente, protetta dall’ombrello atlantico ma dilaniata da contraddizioni interne e con gli Stati Uniti, con cui coopera ma con cui è anche in aspra competizione per la spartizione delle risorse mondiali e del plusvalore.

Non è un caso, quindi, che è proprio dopo la caduta dell'Unione Sovietica e con l'unificazione della Germania che il progetto dell'Ue come Confederazione di Stati, rimasto sino ad allora circoscritto in un dibattito utopistico tra alcuni intellettuali di orientamento liberale (Spinelli, Rossi, etc) e ad accordi di libero scambio e cooperazione in alcuni settori strategici, assume una brusca accelerazione che si traduce nella definizione di vari trattati, a cominciare da quello firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992.

Gli ideologi di questi trattati sono gli economisti monetaristi che operano in stretto contatto con gli ordoliberisti della scuola di Chicago e altri (Friedman, Von Hayek, ecc) entrati nell'amministrazione statunitense e potentissimi nell'era Reagan, il cui paradigma è abbastanza semplice: la funzione dello stato è quella di garantire le migliori condizioni per attrarre gli investimenti e favorire la speculazione finanziaria come valvola di sfogo della crisi. Tutti i mezzi sono possibili: abbattimento delle tasse sul capitale ed i redditi elevati; attrazione di capitali nelle banche (specialmente Usa) attraverso l'indebitamento dello Stato e la leva dell'apparato militare; indebitamento dei Paesi del terzo mondo per mezzo del FMI e BM; totale indipendenza ed autonomia delle banche centrali dagli altri organi di stato e di governo; predominanza della stabilità dei prezzi (controllo dell'inflazione) rispetto all’occupazione e ai salari.

Quest'ultimo punto, poi, è diventato una vera e propria ossessione per le classi dirigenti europeiste, tant'è che viene costantemente richiamato nei trattati come il caposaldo di tutta la politica economica assieme al vincolo del pareggio strutturale di bilancio, la cui deroga rappresenta un oltraggio a tutto l'impianto ideologico su cui sono stati costruiti i trattati.

È dentro questo nuovo corso mondiale determinato dalla crisi di accumulazione del modo di produzione capitalistico, quindi, che va inquadrata l’esasperata promozione delle esportazioni (il c.d. neo-mercantilismo) che le classi dirigenti europeiste, a partire da quelle tedesche, hanno imposto a tutti i lavoratori europei e, più in generale ai settori popolari e che ha prodotto gravi conseguenze economiche e le maggiori contraddizioni.

Il modello è semplice: L'Ue rappresenta un quadro di riferimento di regole economiche e commerciali all'interno del quale ogni Stato agisce come un’azienda, in competizione con le altre, il cui obiettivo principale è quello di accrescere le esportazioni (di merci e capitali) ed attrarre investimenti a discapito degli altri, senza alcuna forma di europeizzazione del rischio o mitigazione degli effetti negativi patiti dai paesi meno competitivi. Un modello costruito ad uso e consumo della Germania, stato guida in questa battaglia per esportare il più possibile capitale sotto forma di merce e, grazie ai proventi derivanti dal surplus commerciale, capitale sotto forma di denaro.

E le conseguenze sul piano mondiale in una fase di crisi da insufficiente accumulazione non possono che essere la guerra economica di tutti contro tutti e di tutti uniti contro i lavoratori per abbassare il prezzo delle merci (inclusa la merce forza-lavoro) ed occupare i mercati altrui acquisendone quote, marchi e aziende; aggressività sempre più spiccata contro gli altri paesi del mondo, ed in particolare quelli dominati; guerre tariffarie e non tariffarie; abbassamento dei consumi; accentuazione delle divergenze tra Stati e nella stessa UE e, più in generale, tra le aree sviluppate e meno sviluppate.

Il protezionismo che ne deriva e l'accrescersi dello sciovinismo ultranazionalista non sono altro che le conseguenze esplicitate contenute nelle premesse implicite dell'impianto costituzionale – frutto del modello di accumulazione neoliberale – su cui è stata costruita l'UE. Contro queste politiche va ben chiarita una posizione che ponga al centro la necessità di operare politiche a sostegno delle classi popolari, e che vadano in netta controtendenza rispetto ai paradigmi imposti attraverso l'Ue. Politiche che partano dalla riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario e ritmi, da una nuova politica di investimenti pubblici per combattere la disoccupazione, dagli investimenti per la scuola, la ricerca e l'università e la messa in sicurezza del territorio e da una politica estera che rompa questo quadro di perenne aggressività e devastazione nei confronti dei paesi del terzo mondo.

È naturale che un programma di questo tipo appaia totalmente incompatibile con i dogmi e le convinzioni di un gruppo dirigente potentissimo non solo in Italia ma in tutto il mondo che, facendosi forte delle regole ottuse presenti nei trattati europei, dell’organizzazione mondiale del commercio, del Fmi, ecc, e funzionali alla fase, impedisce la benché minima possibilità di una loro attuazione. Ma se si vuole parlare concretamente e seriamente con le masse popolari bisogna riconoscere che è dal programma politico che si parte e che politiche di sostegno delle classi popolari presuppongono, anche all’interno del modo di produzione capitalistico, quantomeno un forte intervento dello Stato nell’economia che l'Ue non può tollerare e contro cui è disposta a mettere in moto tutti gli strumenti giuridici a propria disposizione.

D'altro canto, è inutile nasconderci che gli strumenti di ricatto verso le masse popolari nel caso di un’uscita dall'Unione sono potentissimi e da qui derivano le paure, le inquietudini, di molti lavoratori. Certo, le ritorsioni prese contro gli Stati che hanno osato spezzare le catene dell’imperialismo ed intraprendere la transizione al socialismo sono state ancora peggiori e più infami di quelle che si prospettano in caso di semplice uscita dall’Ue. Ma ai lavoratori bisogna parlare con chiarezza: Dal punto di vista delle condizioni economiche dell'imperialismo, è impossibile concepire delle riforme progressiste né tanto meno costruire “l’Europa dei popoli”.

I lavoratori hanno intuito l'ambiguità e l'ipocrisia di formule irrealizzabili, ma le paure vanno riconosciute ed è per questa ragione che il programma non può che ribadire che l'uscita dall’Ue è condizione necessaria per realizzare – sull’unico terreno possibile, quello nazionale – un programma minimo di sostegno delle classi popolari. Ma la forza di scrivere e imporre tale programma deriva solo dall’esistenza di un blocco sociale cosciente e in lotta. E un crescente movimento di sinistra che punti alla presa del potere e quindi alla conseguente rottura con i paesi imperialisti e all’apertura di relazioni con paesi anti-imperialisti spingerà il quadro delle relazioni di classe tra i paesi imperialisti europei alle sue estreme conseguenze, potendo portare allo sviluppo di una destra apertamente fascista, con tutte le dovute differenze rispetto al fascismo storico, che cercherà di porsi come ostacolo a tale progetto, eventualmente tentando di riassorbirlo in termini di rivoluzione passiva. Quello che per molti rappresenta il sogno degli Stati Uniti d’Europa, dunque, diverrebbe possibile solo nel quadro di una reazione vincente alla lotta di classe condotta dai lavoratori. Ai comunisti il compito di contrapporre a questo vero e proprio incubo una reale alternativa di rottura da sinistra che si prefiguri come rottura rivoluzionaria, totalmente diversa ed in contrapposizione ai progetti dei sovranisti.

09/12/2018 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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