Fotografia di una Roma decadente, malfamata e immorale. Un film di Sollima, tratto dal libro omonimo di De Cataldo e Bonini, liberamente interpretato dal regista della serie tv “Romanzo criminale”. Ambientato all’epoca della fine della seconda Repubblica, con le dimissioni di Berlusconi, Suburra è una metafora di un sistema politico corrotto e mafioso. Tra cupi flash sulla Chiesa all’approssimarsi delle dimissioni di Ratzinger, il film è uscito nelle sale all’indomani delle dimissioni del sindaco Marino.
di Alba Vastano
La Suburra era un’area dell’antica Roma ove si raccoglieva la feccia della città. Era la parte peggiore della popolazione dell’Urbe. Il territorio si articolava sulle pendici dei colli Quirinale, Viminale, fino all’Esquilino. “Ab origine”, oltre al luogo dove si incontravano esponenti del potere e della criminalità, vi risiedeva anche il proletariato, coloro che vivevano nella miseria più assoluta. Oggi il termine Suburra è metafora del sistema criminale e mafioso, che domina la città.
Ed è il titolo scelto del regista Stefano Sollima per il suo film, ispirandosi all’omonimo libro di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo (Ed. Einaudi). Dal film al libro, come spesso avviene, il transfert non offre quasi mai lo stesso impatto e dà una visione diversa degli accadimenti. Nel romanzo le descrizioni abbondano, lasciando al lettore maggior spazio interpretativo delle vicende. Nel film di Sollima i personaggi sono tutti maledetti e corrotti fino al midollo e non v’è alcuna visione di interventi di legalità che possano ribaltare i fatti. Nel libro di De Cataldo c’è anche l’intervento della parte “buona”, il carabiniere a cavallo e la “gente per bene”. C’è la giustizia. Nel film va tutto a scatafascio nel peggior modo possibile. Sangue, droga, sesso sfrenato, omicidi, mafia. E tutto avviene in un delinquere tentacolare e immondo, fra tre poteri: Stato, Chiesa e criminalità organizzata
La visione è di quelle coinvolgenti e sconvolgenti, che lasciano immobili sulla poltrona con gli occhi puntati sul megaschermo. È tutto molto “forte”: voci, musica a tamtam, recitazione, scene, pioggia persistente e scrosciante (se ne sente permanentemente il rumore di sottofondo). Non c’è tempo di pensare, solo di assistere al massacro della legalità. Pur se cosa nota, la” fotografia” della corruzione dei poteri criminali dell’Urbe lascia inquieti, con la coscienza di essere solo impotenti spettatori del degrado morale. Il film ha un punto di fragilità in questo, nel non offrire spunti a soluzioni e forse anche nel vuoto di uno stile personale del regista.
La trama e i personaggi
Il film è ambientato a Roma, all’epoca delle dimissioni di Berlusconi nel novembre 2011. Fu il crollo della seconda Repubblica. È dai sei giorni precedenti che il regista fa iniziare la storia. C’è una legge da approvare che dovrà favorire “Waterfront”, una maxi speculazione edilizia sul lido di Ostia, per costruire un enorme casinò. Ruotano intorno a questo obiettivo i personaggi più squallidi e abietti della politica, ma anche del clero e della criminalità capitolina. Filippo Malgradi, politico corrotto e invischiato nella mafia romana, interpretato da un Pierfrancesco Favino che nella recitazione calza perfettamente il viscido personaggio. Da lui parte la vicenda.
Nell’appartamento di un hotel connivente, Malgradi consumerà una notte di sesso sfrenato con due giovani escort , una delle due minorenne che, a causa di overdose, morirà. Una scena che, da sola, accende tutte le luci più squallide su certi loschi figuri che scambiano la politica per onnipotenza, spegnendo tutte le luci dell’etica. La salma della minore verrà fatta sparire da Spadino, del clan degli Anacleti (allusiva tribù rom). Un ragazzetto sfrontato, privo di ogni scrupolo ed etica. Da qui, una serie di colpi di scena cruenti si avvicenderanno e avranno per protagonisti “in primis” il Samurai, il massimo esponente della criminalità romana interpretato da un Claudio Amendola che ce la mette tutta ad interpretare il malavitoso, ultimo componente della banda della Magliana. In realtà l’espressione malvagia e corrotta “du role” è un po’ sbiadita e tiepida.
Gelano la scena gli occhi diabolici di Numero 8 (Alessandro Borghi), capo della banda che domina il litorale romano , seguito come un’ombra inquietante della sua compagna, tossica fino al midollo (Greta Scarano). Al pari di Numero 8, vive sulla scena l’arroganza e l’abiezione di Manfredi, (Adamo Dionisi) capoclan della famiglia rom degli Anacleti, una sorta di macellaio di carne umana, che vivrà, nel finale del film, la peggior pena del contrappasso dantesca. Squallido anche Sebastiano, promoter di festini per potenti in una villa kitsch, interpretato da Elio Germano, perseguitato dalla banda zingara degli Anacleti che lo spoglierà di tutti i suoi beni.
Fra i quattro protagonisti (Malgradi, il Samurai, Numero 8 e Manfredi), si scatenerà un effetto domino devastante, che li annienterà, sommergendoli nella loro stessa illegalità. Nel giorno dell’apocalisse (la crisi di governo del 2011) andranno giù come poveri eroi di fango sotto un ciclone. Il più squallido e abietto appare Malgradi che evidenzia tutto il peggio di ciò che accade a palazzo Montecitorio. “Io sono un deputato, devo essere rieletto, non posso essere dimesso, mi devono rieleggere”, grida fra la folla che invade la piazza mentre il governo crolla e Berlusconi (che mai verrà nominato durante il film) si dimette.
Ripetuti flash sul Vaticano. Dai palazzi della Santa Sede appare di spalle un Ratzinger, prostrato dal peso dell’establishment corrotto del soglio di Pietro. Prossimo alle dimissioni, costretto dal potere tronfio e trionfante della corruzione, che si annida da sempre nei corridoi della dimora papalina e della Chiesa tutta.
Tutto il film sotto una pioggia incessante, metafora di una Roma cupa, nei giorni antecedenti alla doppia “apocalisse” - la crisi di governo e quella del potere temporale e spirituale della Chiesa. In quel periodo, come oggi, non c’era e non c’è motivo di un raggio di sole a illuminare una città allo sbando e corrotta.
Il film è uscito nelle sale il giorno dopo le dimissioni del sindaco Marino. Forse non a caso. Così motiva il regista:"Abbiamo iniziato a lavorare al film due anni e mezzo fa. È attuale oggi e lo sarà tra vent'anni, perché è un racconto allegorico del potere nel suo rapporto con la città di Roma che vale dalla sua fondazione, come suggerisce il titolo, e sempre varrà”.
Se si può muovere un appunto al lavoro di Sollima sta nel fatto che, in tutta la pellicola, non appare neanche l’ombra dell’intervento delle forze dell’ordine nei momenti più tragici, né alcun tentativo della giustizia per contrastare la legalità. Perché il regista, a differenza di quanto si legge nel libro omonimo, ne ha omesso l’apparizione? E’ sempre Sollima a risponderne: “A rassicurarvi ci pensi lo Stato, io faccio cinema”.