Psicodramma a Roma. La fine forzata del mandato del sindaco di Roma. Le motivazioni reali, offuscate dalle ultime cadute di stile politico e d’immagine del primo cittadino. Le difficoltà di gestire l’amministrazione capitolina. La mafia romana. Il fallimento delle delibere presentate, su iniziativa popolare, dalla coalizione sociale “Deliberiamo Roma”. Chiusura dei luoghi di cultura (Teatro Valle) e sgombero forzato dei Csoa.
di Alba Vastano
“Dice – A la fine, hai visto? S’è dimesso –E n’artro – Finalmente alla bonora! -- S’è fatto pizzicà che manco un fesso! -- Vedemo mo’ che artro sorte fora… -Ormai che te n’annavi era scontato, potevi da resiste quarche mese. Certo chi se sarebbe immaginato che era pe’ via che hai fatto er portoghese? Forse eri inadeguato e poco svejo,e te mancava er fisico der ruolo. Potevi fa de certo molto mejo, ma è dura se te lasseno da solo .L’amici che c’avevi ner partito se so’ eclissati o fanno marameo. Già pensano, manco te ne sei ito, a come speculà sur Giubileo. E sta città che nun la smove niente, mentre te ne vai in bici, nun s’è accorta che quell’odore forte che se sente nun è solo monnezza: è lei che è morta.” (Marazico, blogger – Facebook).
Roma oltraggiata, Roma svilita, Roma defunta. È così. Meno fatti e più misfatti accadono da troppo tempo ormai nella città più famosa del mondo per la sua storia, per la sua arte, per la sua popolanità empatica, genuina e per gli scandali di sempre denunciati dalle rime di Carlo Alberto Salustri (Trilussa), da Pasquino e dalla Bocca della Verità. Chiesa e politica, i trasgressori. La città dei corrotti e la città dei poveri e onesti. Da sempre è così e non c’è posto per i secondi, non c’è mai stato.
Amministrare una città come Roma forse non può essere di competenza di alcun politico, o forse la politica non fa per questa città, o, forse ancora, nessun politico ama davvero Roma, a tal punto da fare la voce grossa ai disonesti che pullulano da tempo nelle aree capitoline, così grossa da intimorire persino i Carminati o i Casamonica di turno.
Ignazio Marino, sindaco uscente della città eterna, il dimissionario coatto, per la sue caratteristiche personali e per il suo modo improprio di intendere la funzione di primo cittadino di una città complessa e già traviata di suo, non poteva farcela ad amministrare questo coacervo di sregolatezza e di scarso genio, ma soprattutto di corruzione e mafia.
Non ce l’ha fatta soprattutto perché non ha avuto il coraggio delle scelte giuste al momento giusto, restando un solitario nel governare Roma e adottando spesso politiche neoliberiste e antisindacali, in coerenza con il suo partito. Ma com’è capitato sullo scranno più alto del Campidoglio un uomo che sembra un guru o un ex seminarista. Un uomo con la faccia pulita e con la perenne espressione di umiltà religiosa, fuori luogo? Perché i Romani nel giugno del 2013 hanno scelto un sindaco che tempo addietro indossava il camice verde da chirurgo e praticava la vivisezione per favorire la ricerca, ricevendo stilettate di odio profondo dagli animalisti? Un uomo, quindi, assolutamente estraneo alle questioni amministrative di una città?
Eppure Marino voleva fare il sindaco. Voleva sanare Roma. Dal testo della lettera ai Romani, in cui il primo cittadino annuncia le sue dimissioni, si evince che non avrebbe voluto lasciare lo scranno capitolino, e che il suo unico interesse durante la sua funzione era il bene della Capitale, che avrebbe voluto cambiare, “strappandola alle politiche di destra che l’hanno infangata a tal punto da consentire attività criminali di tipo mafioso” così Marino.
“Tutto il mio impegno ha suscitato una furiosa reazione. Sin dall’inizio c’è stato un lavorìo rumoroso nel tentativo di sovvertire il voto democratico dei Romani…oggi quest’aggressione arriva al suo culmine. Ho tutta l’intenzione di battere questo attacco e sono convinto che Roma debba andare avanti nel suo cambiamento. Ma esiste un problema di condizioni politiche per compiere questo percorso. Queste condizioni oggi mi appaiono assottigliate, se non assenti Per questo ho compiuto la mia scelta: presento le mie dimissioni…” (Marino-dalla lettera ai Romani)
E allora com’è giunto il sindaco di una città complessa, articolata e con un’eredità amministrativa al collasso, già fortemente provata nella legalità dalle precedenti giunte (Alemanno,Veltroni, Rutelli), a ritrovarsi solo, senza più un solo assessore, un solo consigliere, un solo uomo della sua giunta a scommettere su di lui e a soli due anni, o poco più dal suo mandato? Tutti, o quasi, tranne la sua fedele Cattoi, che tanti guai combinò con il suo menu europeo, quando era assessore alla scuola, all’interno dell’area capitolina, a volere la sua testa. È colpevole di non aver saputo amministrare, di dribblare gli ostacoli, di non aver preso posizione netta davanti a scelte necessarie, o è anche il capro espiatorio di un sistema, la mafia, che si è radicato nella Capitale nel tempo, tanto da rendere impossibile estirparlo? O forse è anche il capro espiatorio “dei suoi”, di un partito che ha più facce; tranne una, quella per il bene comune e per le pari opportunità fra cittadini.
Il sindaco di Roma al suo partito non è mai piaciuto, tanto da acconsentire infine e addirittura caldeggiare che venisse sottoposto ad un linciaggio mediatico senza precedenti per un politico. Neanche ad Alemanno venne riservato tanto disprezzo e disistima da parte dei mass media. Perché? Se ne può evincere che non è stato un uomo sufficientemente schierato politicamente, con personalità e idee ondivaghe, con scivoloni di negligenza e di stoltezza.
Esempio ne è il suo ostentato laicismo integralista per poi inseguire Bergoglio,in America, con sembianze da stalking del Pontefice, da cui per risposta ha avuto anche l’out che si meritava. O le dichiarazioni sul fenomeno mafia Capitale e sul mondo di mezzo, antico come Roma, su cui affermò di non essersene accorto prima. Asserzione discutibile, ma che rivela anche l’assenza di accortezza e di responsabilità che il primo cittadino di una metropoli dovrebbe assolutamente possedere. Anche perché la corruzione era proprio all’interno del sistema capitolino, tante piccole mafie gli giravano intorno. Lui era pagato per questo, per fare il sindaco e riportare ordine, pulizia laddove c’è degrado. E non l’ha fatto, almeno non l’ha fatto abbastanza. Superficialità e leggerezza non l’hanno premiato.
Gravissimo il suo mancato sostegno nel perorare la vittoria delle delibere presentate al Pd capitolino da parte della coalizione sociale “Deliberiamo Roma”. Erano state raccolte 32mila firme d’iniziativa popolare per chiedere di deliberare a favore dell’acqua pubblica, sui finanziamenti per la scuola pubblica, sul patrimonio del Comune e sul patto di stabilità. Tre vennero bocciate, la quarta in discussione.. ormai decaduta. Inutile parlare dell’inadeguatezza a confrontarsi con la realtà della città. Dai trasporti agli autisti Atac, alle maestre delle materne e nidi comunali, dai vigili urbani ai dipendenti del Colosseo. Dalle chiusure dei luoghi di cultura come il teatro Valle, dal cinema America al Rialto, agli sgomberi dei centri sociali: Angelo Mai, Scup e i sigilli a Corto Circuito: “Come rete per il diritto alla città abbiamo ben chiaro che le coercizioni che gli spazi sociali ed i suoi attivisti subiscono sono il ritratto di un cambio di paradigma più generale. Non è una casualità che proprio in questi giorni di afa, la giunta Marino (sotto lo scacco direttivo della segreteria nazionale del PD), stia sancendo la definitiva messa a bando di un gran numero di servizi, dal trasporto alla gestione dei rifiuti, per citarne qualcuno…”Csoa Scup- maggio 2014
Le ultime performances del sindaco, i viaggi a Philadelfia e i pranzetti al ristorante con carta istituzionale, sono da considerarsi esclusiva di un giornale da gossip e non meriterebbero neanche di essere menzionate. Anche se c’è chi sostiene, maldestramente, che sono state la causa delle richiesta di dimissioni da parte del partito e, in particolare del tradimento degli ultimi suoi “fidi” assessori, appena nominati. Un quanto mai disgustoso e laico “bacio di Giuda”.
Quante cadute, quanta estraneità alla città, ingenuo e solitario Marino. Zelante solo con il suo partito, pur essendo solo al comando, non riuscendo a formare una squadra coesa, è stato rappresentanza conforme dei poteri forti e degli interessi privati.
Eppure subito dopo la sua elezione a sindaco della Capitale non solo i suoi elettori, ma molti residenti di questa incredibile città, iniziarono a credere che le cose a Roma potessero cambiare. Iniziarono a credere in una svolta, in questo atipico amministratore e nella sua capacità di governare questa città, allo sbando da troppo tempo. “ Mi rendo conto delle responsabilità che la città mi consegna e spero che Roma fra qualche anno possa essere orgogliosa di me” (giugno 2013). Queste le sue prime parole da sindaco che oggi per lui hanno davvero il sapore amaro della sconfitta, come uomo e come politico.