Il 20 e 21 settembre si andrà a votare al referendum confermativo dell’ennesima “riforma” costituzionale. Questa volta l’elettorato si deve pronunciare sulla riduzione del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori da 315 a 200. L’elemento di novità di questo appuntamento è che questa volta si voterà non solo per il referendum, ma anche per il rinnovo dei consigli di sette regioni, dei sindaci e dei consigli di oltre mille comuni e di due senatori in un collegio uninominale della Sardegna e uno del Veneto.
Già questo abbinamento pone dei problemi. Infatti l’importante tema di una riforma costituzionale rischia di essere poco dibattuto nelle realtà dove al centro dell’attenzione saranno i partiti e soprattutto i candidati per le elezioni amministrative e regionali. In periodo di emergenza da coronavirus e con spazi di partecipazione ridotti il rischio è che il popolo italiano giunga a questo appuntamento poco informato.
C’è da considerare inoltre che la percentuale dei votanti al referendum nelle località dove si tengono altri tipi di elezione sarà verosimilmente molto maggiore di quella negli altri territori e quindi che il peso dell’elettorato sarà molto diverso da località a località. A causa di ciò sull’appuntamento elettorale si allunga l’ombra di ricorsi presso l’Alta Corte.
La difficoltà di informare e far ragionare gli elettori si inserirà in un percorso che per i fautori del No sarà tutto in salita. Infatti il taglio dei parlamentari è stato proposto dai partiti populisti cavalcando la stanchezza della gente, il senso comune – purtroppo in buona parte più che comprensibile – che la politica e i partiti sono tutti corrotti, che meno parlamentari mandiamo a Roma e meglio è, che bisogna ridurre il costo della politica in quanto abbiamo sul collo un debito pubblico enorme che mette a repentaglio i diritti sociali: scuola, salute, casa, lavoro, trasporti pubblici. Gli stessi diritti che pure la Costituzione garantirebbe, ma che la politica negli ultimi decenni ha falcidiato drasticamente, aumentando le sofferenze delle classi svantaggiate.
Tutto ciò ha creato un clima di forte sfiducia e qualunquismo di cui denunciamo fermamente le responsabilità dei governi che si sono succeduti dagli anni 80 in poi, di qualsiasi colore essi fossero.
Su questo clima di qualunquismo e antipolitica si sono innestate un sacco di fandonie: per esempio che in Europa l’Italia ha il numero più alto di parlamentari, mentre è al di sotto della media, e con la riforma diverrebbe il paese con meno deputati di tutti in rapporto alla popolazione; che si risparmieranno 500 milioni di euro a legislatura, mentre il risparmio sarà insignificante, lo 0,007% della spesa pubblica, un caffè all’anno a testa, meno di quanto si risparmierebbe riducendo gli stipendi e i benefici ai parlamentari. A questo proposito Umberto Terracini ebbe a dichiarare nell’Assemblea costituente:
“Ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza”.
La nostra Costituzione in origine prevedeva che si dovesse eleggere un deputato ogni 80 mila cittadini e un senatore ogni 200 mila.
Successivamente, al fine di mantenere un numero stabile di parlamentari, fu stabilito il numero fisso che abbiamo riferito sopra e che non cambia di molto il rapporto originariamente stabilito. Il taglio oggi previsto porterà invece ad avere un deputato ogni circa 151 mila abitanti e un senatore ogni oltre 300 mila, quindi una rappresentatività ben lontana da quella che era nelle intenzioni dei costituenti. Facciamo parlare ancora Terracini:
“il numero dei componenti un’assemblea deve essere in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale. […] La diminuzione del numero dei componenti […] sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. […] se nella Costituzione si stabilisse l’elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe quest’atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare”.
Potrebbe essere una sinistra coincidenza, ma il numero dei deputati stabilito da questa riforma corrisponde esattamente a quello entrato in vigore nel 1928 sotto regime fascista con la riforma Rocco. Infatti l’elettorato poteva solo approvare un listone unico predisposto dal Gran Consiglio del Fascismo di 400 candidati e una lista concorrente poteva essere presentata solo se il listone fosse stato bocciato dagli elettori.
Un altro problema deriva dal sistema elettorale vigente. La già insufficiente rappresentatività verrà ulteriormente distorta dal meccanismo elettorale che prevede l’elezione del 37 per cento dei parlamentari con il sistema maggioritario uninominale a turno unico e una serie di sbarramenti per la restante quota proporzionale. Il risultato sarà la penalizzazione delle minoranze, non solo politiche ma anche etniche ecc., delle forze politiche che al livello regionale saranno in minoranza, delle compagini più piccole. Molti cittadini rimarranno senza rappresentanza e tutti avranno più difficoltà a rapportarsi con i propri eletti che dovranno interloquire con oltre 150 mila abitanti.
La nostra legge fondamentale recita al primo articolo che “la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, cioè prevalentemente eleggendo propri rappresentanti. Il compito principale dei parlamentari è quindi quello di rappresentare il popolo e di agire su loro mandato e a loro nome. A noi la democrazia formale non basta, ma anche dal semplice punto di vista della democrazia formale, la distorsione della rappresentanza è il difetto principale di questa riforma.
Da decenni ci raccontano che va migliorata la governabilità, umiliando la rappresentanza. Anche la riforma di Renzi, per fortuna sonoramente bocciata, andava in questa direzione. Governabilità vuol dire garantire che l’esecutivo possa fare il suo lavoro a lungo e senza troppi intralci del Parlamento che a questo punto diverrebbe solo un orpello cui rivolgersi per la ratifica dell’azione di governo. Ma in tal modo il carattere parlamentare della nostra repubblica sta venendo meno. Questo non solo grazie alle leggi elettorali, ma a un comportamento degli esecutivi che considerano il Parlamento di impaccio ed evitano il più possibile di farlo contare, abusando della decretazione d’urgenza, dei voti di fiducia che impediscono di intervenire nel merito dei provvedimenti e così via. Il momento più basso di questa fisima lo abbiamo avuto nel periodo di chiusura da Virus. Mentre le fabbriche continuavano a lavorare, i pendolari ad ammassarsi nei mezzi di trasporto pubblici, il parlamento era rimasto chiuso e si andava avanti a decreti del Presidente del Consiglio, forzando non poco le regole previste per gli stati emergenziali.
Di fronte a un Parlamento esautorato, a un personale politico non più selezionato in base ai meriti ma alle amicizie e al sostegno dei vari gruppi economici e anche per questo dedito spesso a curare di più i propri interessi che quelli della nazione, al distacco fra il popolo e coloro che dovrebbero rappresentarlo, ai risultati penosi di questa politica, compresa quella di chi si auto definisce di sinistra, non sorprendiamoci se tanta gente non va più a votare.
Tuttavia questa avversione verso la democrazia rappresentativa è molto pericolosa perché si avvicina all’idea dell’uomo forte, la persona che promette di farsi carico dei problemi del paese e che riesce ad essere operativo bypassando il confronto democratico. Un’idea che già il Paese ha conosciuto amaramente.
Questa legge, approvata a grande maggioranza, nell’ultima delle 4 votazioni previste ha visto il voto favorevole anche di Pd e Leu. I due partiti di finta sinistra l’hanno motivato con una sorta di contropartita concordata, cioè una nuova legge elettorale non meglio definita. Oggi sta emergendo all’interno di queste forze una preoccupazione, perché la legge elettorale è in alto mare e si sta cercando il modo per sganciarsi dal fronte del sì. Uno sganciamento che sarebbe opportuno e benvenuto, ma quanta pena vedere chi in Parlamento dovrebbe rappresentare il mondo del lavoro e ogni volta attenta agli strumenti di difesa dei lavoratori!
Domandiamoci quali sono le ragioni di questo ulteriore tentativo sfregio alla democrazia. Certo da una parte c’è stata la demagogia di chi, per carezzare la pancia della gente, è salito sul carro dell’antipolitica e si bea di slogan come “abbiamo tagliato la casta!”.
Bello slogan quello della casta. Con tutto il disprezzo che possiamo avere per la casta “politica” che negli ultimi anni (non) ci ha rappresentato, c’è una casta ben più pericolosa, di cui si evita accuratamente di parlare anche grazie a questa demagogia: la casta dei ricchissimi, che spesso non pagano le tasse, o che hanno la sede fiscale all’estero, la casta di chi possiede grandi e intoccabili patrimoni, la casta di chi sfrutta i lavoratori fino all’osso, mettendo a repentaglio anche la loro salute e talvolta la loro vita, la casta di chi per tanti dollari in più devasta l’ambiente, promuove guerre, nega i diritti umani agli ultimi della terra, magari additandoli come nemici. Nemici utili da sfruttare, naturalmente.
Questi demagoghi conterebbero poco se non avessero dietro di sé un grande appoggio mediatico. Lo hanno perché in realtà essi, consapevolmente o meno, sono strumenti di un disegno ben più organico, che risale addirittura al programma di rinascita democratica di Licio Gelli e che passo dopo passo viene attuato: rafforzamento degli esecutivi ai danni delle assemblee elettive, cambiamento pesante degli indirizzi e del personale dei partiti di sinistra, pena la loro estromissione dal sistema politico, pressioni sull’indipendenza della magistratura, concentramento dei mezzi di comunicazione in poche mani. E non può non venire nuovamente a mente il documento del 2013 del potentissimo gruppo finanziario JP Morgan che giudicava le costituzioni nate dalla sconfitta del fascismo troppo venate di contenuti socialisti, sconvenienti per il grande capitale.
Riporto un passo: “I problemi economici dell’Europa sono dovuti al fatto che i sistemi politici della periferia meridionale sono stati instaurati in seguito alla caduta di dittature, e sono rimasti segnati da quell’esperienza. Le Costituzioni mostrano una forte influenza delle idee socialiste, e in ciò riflettono la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo”. Un altro difetto di queste costituzioni sarebbe che prevedono “il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi”. Sì c’è scritto proprio questo! Le proteste andrebbero bandite o almeno ostacolate.
Con la crisi del capitalismo che non accenna a risolversi (e di cui il croronavirus è stato solo un acceleratore), i poteri economici hanno bisogno di disciplina e di tagliare gli spazi di resistenza dei lavoratori. Questo spiega l’introduzione di sistemi contrattuali sempre più precari, della libertà di licenziamento, anche senza giusta causa, dei decreti sicurezza di Salvini. E spiega anche perché il parlamento deve essere sempre più omologato, i comuni debbano essere messi in mano a sindaci-podestà, perché devono essere rigorosamente chiusi tutti gli spazi di accesso alle istituzioni di rappresentanti che veramente difendano i lavoratori e lavorino per un’alternativa a questo capitalismo crepuscolare.
Ma la nostra Costituzione è fondata sul lavoro! E allora il referendum deve essere anche una risposta a questi tentativi per far tornare protagoniste le masse popolari e invertire il trend che ha umiliato, vanificato e offeso la Costituzione.
Naturalmente per noi il terreno elettorale è solo un momento, e neppure il più importante in questa fase, per riaprire una prospettiva socialista nel nostro paese. E tuttavia non può mancare una nostra precisa indicazione di voto per il No e un lavoro pedagogico che cerchi di incrinare un senso comune così diffuso e fuorviante.