Si parla molto del “movimento delle sardine”, ma senza interrogarsi a sufficienza su quali siano precisamente le sue caratteristiche e i suoi tratti distintivi, analisi necessaria allo scopo di comprendere e conoscere – e quindi solo in seguito a tale sforzo, semmai, giudicare – il movimento in sé che sta portando decine di migliaia di persone a radunarsi nelle piazze del Paese.
Innanzitutto si può considerare come vi sia un tratto distintivo quasi “moralistico” nelle Sardine, ossia la tendenza a considerare i problemi della politica come problemi connessi ai toni utilizzati o al linguaggio (e, pertanto, risolvibili attraverso modificazioni di tali variabili comunicative) e non già quali problemi reali, di classe, frutto del mondo storico in cui viviamo e di determinate scelte politiche. Tale prospettiva risulta vacua e distorsiva in quanto sono evidenti le difficoltà reali che soffrono le classi oppresse di questo paese; ma, allo stesso tempo, è la naturale conseguenza del fatto che essa nasce sulla spinta di un precariato intellettuale - quello dei ceti medi ultra specializzati e più sensibili alle elucubrazioni astratte - e non sulla spinta della classe operaia che soffre, al contrario, maggiormente gli effetti concreti della crisi.
Sempre da tale particolare natura e formazione dei fondatori del movimento delle Sardine discende una conseguenza altrettanto fastidiosa, vacua e distorsiva rispetto al reale funzionamento della politica: è il continuo richiamo al concetto di delega, ossia al fatto che la politica rappresenti una branca ad accesso riservato a chi di professione (unici depositari della competenza necessaria per trovare soluzioni efficaci per le masse) e al fatto che al “citoyen” non resti nient’altro da fare che lamentare passivamente una mancanza di rappresentanza, che deve essere necessariamente riempita da chi di dovere, pena l’ineluttabilità del vuoto.
Oltre a ciò, Santori & co. si sono poi platealmente svelati riguardo i legami esistenti tra i vertici di questo movimento e il PD (in particolare, in Emilia-Romagna per la questione connessa al voto regionale di gennaio) dal che discende, in ultima istanza, anche l’uso strumentale e fondamentalmente antidemocratico delle piazze gremite: è infatti evidente che, nonostante tra le Sardine convivano diverse anime, gli interventi rappresentativi sono solamente quelli che riflettono il pensiero della parte apicale del movimento, che lo ha inavvertitamente fondato e che ora tenta di direzionarlo come può, silenziando laddove occorre.
In sintesi, sono i vertici di questo movimento, le loro simpatie politiche e il loro modus operandi, a rappresentare i fondamentali problemi attribuiti alla totalità del movimento stesso; ma è evidente che i comunisti non solamente non possono scoraggiarsi dinanzi a tale genere di debolezze, assolutamente prevedibili peraltro, e commettono un fatidico errore nell’attaccare e estraniarsi dal movimento in nome di una identificazione tout court tra le Sardine e il fondatore Santori, o di un endorsement di un Prodi, o della cacciata di una bandiera con la falce e martello da una piazza, e chi più ne ha più ne metta.
Perché è emerso un fenomeno quale quello delle Sardine? Come mai una banale trovata partita da Bologna che, al massimo, nelle più rosee intenzioni dei quattro promotori, doveva servire a portare qualche voto alle regionali a Bonaccini è invece loro sfuggita così grandemente di mano portando nelle piazze di tutta Italia migliaia di persone? È veramente plausibile concludere, come pure fanno alcuni, che sia tutto frutto del lavoro organizzativo del PD – un partito dato giustamente al canto del cigno, fino a ieri, da chiunque – e negare l’evidenza, ossia che ci sia una forte, anzi predominante, componente di spontaneismo?
A queste domande dobbiamo trovare una risposta se vogliamo essere dei politici realisti.
Sono convinto che vi è una forte e sana paura delle classi subalterne dietro a queste mobilitazioni, paura di perdere ulteriori pezzi di democrazia, e perdere ulteriori pezzi di salario. La paura di avere forze così tanto assimilabili al fascismo a gestire la crisi ma allo stesso tempo la consapevolezza che l’attuale arco parlamentare non solo non è in grado di fare nulla per le classi popolari e che proprio per questo è il principale acceleratore di un ritorno del novello ducetto in cerca dei pieni poteri. Rispetto a queste paure, è inutile nascondercelo, i comunisti non hanno finora avuto un progetto credibile in grado di indirizzarle.
Queste mobilitazioni rivelano anche che vi è una insoddisfazione diffusa, un desiderio di uscire dal mondo virtuale e individualizzato in cui cerca di costringerci la classe dominante: questa è senz’altro una reazione positiva al tentativo perpetrato dalla rivoluzione passiva di costringerci in piccoli recinti virtuali uno contro l’altro, parcellizzati e ininfluenti. L’insorgere di un movimento di massa ci dice che c’è l’intuizione di un’esigenza nuova che vuole reintrodurre il rapporto fisico nelle piazze oltre allo smartphone, suggerisce la riscoperta e la condivisione tra simili che affrontano le stesse angosce e gli stessi problemi, avverte la necessità di essere forza il più possibile allargata, il meno possibile frammentata. Altro dato che, confusamente, malamente ma indirettamente ci dicono comunque le Sardine è questo: evitiamo spaccature, non portiamo una miriade di simboli di partiti ma accontentiamoci dei nostri corpi uniti.
Questo aspetto forse può essere criticato in quanto le Sardine non lo dicono in maniera così chiara, forse non hanno la forza necessaria per razionalizzare la loro paura – a causa anche dell’arretratezza del movimento operaio e delle sue avanguardie – e sono convinto che noi comunisti dobbiamo dare questa forza, dare una narrazione del movimento utile a costruire un immaginario che consenta di passare dal generico desiderio di un mondo migliore che oggi vive su un piano tutto moralistico, nelle contraddizioni e difficoltà sopra rilevate, alla costruzione di un piano determinato e concreto, fatto di programmi, parole d’ordine comprensibili, organizzazione, creazione di una coscienza politica che non si limiti alla delega ma che propagandi e favorisca la partecipazione libera e dal basso. Non è necessario, per fare questo, portare i simboli di partito: se fossero stati sufficienti in sé a egemonizzare gli strati popolari ne avremmo già cavato i relativi frutti. I comunisti, ovunque operano, fanno la differenza, però, nella capacità di direzione. Ecco perché dovremmo agire nel movimento delle Sardine compattamente, capendo come inserire i contenuti e come trovare il modo di far sedimentare il “discorso” delle sardine in proposte concrete che si rivelino progressive.
Noi siamo perfettamente consapevoli del ruolo giocato dalle classe dominanti nella funzione di passivizzazione delle masse. Siamo consapevoli che tale funzione è sempre attiva e punta con ogni mezzo a riassorbire ogni tentativo anche blandamente sovversivo, financo arrivando ad evocare la necessità della piazza pur di dare sfogo alla rabbia prima che essa si centralizzi intorno ad un programma rivoluzionario ma non transigendo sul come addomesticarla, ossia legittimando solo quelle piazze che ne hanno fatto un uso “educato”.
Allo stesso tempo, i comunisti intervengono proprio per rompere l’egemonia borghese, proprio per spezzare quella cinghia di trasmissione che consente agli intellettuali organici alla borghesia (vedi Prodi), di guidare, per mezzo di intellettuali tradizionali (vedi Sartori & co.), lo spontaneismo delle masse; per far crescere all’interno del movimento una volontà forte che, maturando, riesca a contrapporre la base al vertice, delegittimandolo e giungendo così a sterilizzare la funzione di direzione degli intellettuali tradizionali. Nel caso specifico, noi crediamo che vi siano due contenuti sui quali poter combattere una battaglia per l’egemonia anche nel movimento delle sardine: la lotta contro la secessione dei ricchi e la lotta per la cancellazione dei decreti Salvini. Entrambi questi punti di programma pur nascendo da una prospettiva anti-salviniana si collocano nel quadro di un attacco complessivo al governo e più in generale all’establishment alla testa del capitale transnazionale che infatti ha voluto e sostiene, attraverso il partito democratico, tali norme reazionarie.
Tutta l’opera dei comunisti nella fase della guerra di posizione consiste proprio in questo: spezzare l’egemonia delle classi dominanti nelle casematte che esse stesse hanno eretto.