Gramsci e i diritti umani

Gramsci pone in rapporto dialettico l’universalismo del diritto e la determinatezza dell’agire politico entro una filosofia della prassi volta a fondare il rapporto fra ideali teorici normativi e pratica politica necessaria alla loro realizzazione storica.


Gramsci e i diritti umani

Da oltre un trentennio l’appello ai diritti umani è stato strumentalizzato dai paesi a capitalismo occidentale per dissimulare la lotta da essi condotta per la spartizione dell’intero mondo in aree di influenza. In tal modo, si è cercato di giustificare aggressioni imperialiste presentandole come guerre “umanitarie”. Il fine è quello di mascherare il dominio esercitato sul piano internazionale mediante puri rapporti di forza, con una operazione egemonica che dovrebbe garantire di esercitare il proprio imperio con il consenso dei subalterni. In tal modo, i diritti dell’uomo sono progressivamente stati sacrificati dalle potenze imperialiste proprio in nome della loro salvaguardia. L’esigenza delle potenze occidentali di tutelarsi dalle reazioni dei nemici oppressi, le ha portate a porre in discussione lo stesso habeas corpus, fondamento della libertà dei moderni. La guerra globale infinita, in quanto volta a contrastare una tattica militare come il terrorismo, condotta in realtà per la salvaguardia e l’esportazione di un sistema sociale che produce disuguaglianze crescenti fra classi e popoli, cancella alla radice la fraternità fra gli uomini. Se non ci si vuole limitare al rifiuto morale di tale logica, occorre contrapporvi mezzi e fini egemonici alternativi.

Può, dunque, essere utile interrogare a tale proposito il pensatore italiano che più s’è adoperato per sostituire all’egemonia dei ceti dominanti quella di classi e popoli subalterni: Antonio Gramsci. Pur non tematizzando la questione dell’uso ideologico dei diritti umani – ai suoi tempi non così urgente – egli ha consegnato ai Quaderni del carcere significative riflessioni sui concetti decisivi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: libertà, eguaglianza, proprietà e diritto naturale. Il riferimento a Gramsci sarà funzionale a cogliere i limiti della riflessione oggi dominante a sinistra sui diritti umani, in larga parte egemonizzata dall’ideologia dominante, cioè della classe dominante. Da una parte la sinistra “movimentista” si limita, il più delle volte, a radicalizzare le posizioni liberal-democratiche che colgono la portata progressiva dei diritti umani, obliando l’uso ideologico che ne fanno le classi dominanti per imporre il proprio potere sui popoli subalterni. Dall’altra vi sono intellettuali (Laclau, Mouffe, Zolo) cui si richiamano sovente le formazioni più ortodosse della sinistra che, muovendo dalla critica alla naturalizzazione dei diritti umani e al loro uso strumentale alle tendenze neocolonialiste, finiscono per non distinguere adeguatamente la propria posizione dallo storicismo reazionario dei critici di destra dell’universalismo, i seguaci di Nietzsche, Heidegger o C. Schmitt. Si finisce così per condividere un atteggiamento cinico e snobistico verso il portato universale dei diritti umani separando astrattamente tattica e strategia, politica ed etica, perdendo di vista il fine di edificare un assetto sociale maggiormente universale di quello borghese. In tal modo, si fa propria la prospettiva dell’avversario che tende a considerare con sufficienza ogni determinazione morale riducendola alla mera logica della forza e del potere, alla distinzione manichea fra amico e nemico. Al contrario Gramsci pone in rapporto dialettico l’universalismo del diritto e la determinatezza dell’agire politico entro una filosofia della prassi volta a fondare il rapporto fra ideali teorici normativi e pratica politica necessaria alla loro realizzazione storica.

I Quaderni testimoniano l’interesse di Gramsci per le lotte che hanno consentito di sostituire alla concezione “patrimoniale” di uno Stato rappresentante interessi di casta lo Stato di diritto, in cui il dominio assoluto del governo è sottoposto al vincolo giuridico. Gramsci, pur considerando con Marx errato “giudicare un’epoca storica da ciò che essa pensa di se stessa”, si è opposto alla liquidazione delle sovrastrutture quali “mere e labili «apparenze»” [1]. L’individuazione del loro fondamento nella struttura economica indica l’esigenza, propria di una logica dell’essenza, di basare l’interpretazione della società non più su elementi meramente empirici. In tal modo, però, il materialismo non si libera dall’atteggiamento metafisico che contrappone l’essenza degli assetti strutturali alla parvenzaillusoria” della sovrastruttura. La lotta condotta dalla nascente filosofia della praxis contro l’ideologia dominante, che poneva come determinante il solo elemento spirituale, rischia di scadere in un opposto unilateralismo, senza pervenire al superamento dialettico dell’idealismo, essendo altrettanto incapace di comprendere il legame di reciproca determinazione fra i due ambiti. A parere di Gramsci, in effetti, se è vero che la coscienza sociale è acquisibile unicamente sul terreno sovrastrutturale, la lotta su tale piano è indispensabile alla trasformazione della struttura economica e sociale. L’astratta contrapposizione del momento strutturale alle sovrastrutture va dunque compresa, ma non accettata quale opposizione di carattere meramente “psicologico senza portata «conoscitiva o filosofica»”, dettata “dall’immediata passione polemica contro una esagerata e deformante affermazione in senso inverso” (11, 50: 1475). Le stesse considerazioni in proposito di Marx ed Engels, a parere di Gramsci, vanno storicizzate e ricomprese all’interno di tale dibattito ideologico e delle esigenze della prassi politica in cui si inserivano. Il materialismo non fa che rovesciare l’unilaterale posizione idealista che fa del reale un mero corollario del concetto. La critica rivolta al valore mistificatorio delle sovrastrutture è, dunque, un corollario della lotta politica contro un determinato modo di produzione e il corrispondente assetto sovrastrutturale che per la sua incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive è solo apparentemente dotato di razionalità e, quindi, di realtà. La polemica svalutazione delle sovrastrutture verrà meno con il venir meno di rapporti di proprietà resi irrazionali dallo sviluppo delle forze produttive (cfr. 10, 41: 1321). Gramsci evidenzia la capacità del diritto di rinnovare la vita etica, ripudiando come moralista e metafisica la concezione di esso quale sanzione di costumi esistenti, fondata su l'ingenua fiducia nella capacità spontanea della “natura” umana di regolare la convivenza civile. Gramsci considera “astrattamente ottimistica e facilona” e propria di un razionalismo astratto la fiducia nello spontaneismo della natura umana (6, 98: 773-74). Se di “natura umana” si può parlare, è possibile farlo solo a patto di considerarla portato storico del complesso dei rapporti sociali determinato dal conflitto fra interessi di classe contrapposti. Tale concezione contrasta con ogni acritico umanesimo, poiché intesa in questo senso la natura umana non è propria di un metafisico “uomo” in generale, ma esprime il rapporto conflittuale e dialettico di diversi gruppi sociali in lotta tra loro. La soluzione dell’enigma della natura umana è, dunque, la storia intesa quale concordia discors in perpetuo divenire che non presuppone un’unità originaria, sebbene il genere umano possa trovare “in sé le ragioni di una unità possibile” (7, 35: 885), scopo finale del suo sviluppo. Nessun uomo empirico è, dunque, il soggetto della natura umana, ma solo il genere umano concepito nel complesso del suo sviluppo storico. Nel singolo sono rinvenibili unicamente alcuni tratti specifici che lo determinano nella loro opposizione a quelli posseduti da altri individui. “Trasformare il mondo esterno, i rapporti generali, significa potenziare se stesso, sviluppare se stesso. (..) Perciò si può dire che l’uomo è essenzialmente «politico», poiché l’attività per trasformare e dirigere coscientemente gli altri uomini realizza la sua «umanità», la sua «natura umana»” (10, 48: 1337-38). Ciò è a sua volta prodotto della concezione mistificatoria, tutt’ora dominante, che considera il diritto espressione dell’intera società. Se il diritto positivo impone ai cittadini norme di condotta funzionali alla salvaguardia dell’ordine vigente, in senso più ampio incide sulla sfera dei costumi rendendo spontanea l’adesione dei ceti subalterni al potere costituito. Lo Stato, attraverso il diritto, mira a rendere omogenea e salda la classe dirigente, mediante il governo col consenso permanentemente organizzato attraverso le forze private della società civile che strutturano l’opinione pubblica. Qualsiasi Stato punta a regolare la convivenza civile e a plasmare di sé ogni ambito della vita sociale. Tuttavia la sfera d’azione del diritto non si limita all’ambito politico statuale, ma tende progressivamente a estendersi all’intera società civile plasmando nella direzione dei ceti dirigenti la stessa eticità. In tal modo, Gramsci intende ampliare il concetto di diritto consentendogli di dar conto del suo operare indiretto mediante l’azione della società civile che incide sui modi di agire e pensare della collettività, senza dover ricorrere a sanzioni e obbligazioni penali. Dunque l’insieme sociale trova la sua rappresentazione nelle norme di condotta eticagiuridicamente indifferenti” e storicamente determinate mediante l’intervento dello Stato sulla società. È proprio questo il fondamento della democrazia moderna: il potere politico si regge non solo sulla coercizione ma altresì sull’egemonia, garantita dallo sviluppo economico che consente “il passaggio [molecolare] dai gruppi diretti al gruppo dirigente” (8, 191: 1056). Su tale possibilità si fonda il portato progressivo dello Stato moderno borghese che sradica la concezione conservatrice delle istituzioni precedenti fondate sull’esigenza di garantire la casta chiusa al potere. “La classe borghese pone se stessa come un organismo in continuo movimento, capace di assorbire tutta la società, assimilandola al suo livello culturale ed economico: tutta la funzione dello Stato è trasformata: lo Stato diventa «educatore»” (2, 8: 937). La concezione idealista dello Stato etico non è, dunque, necessariamente in contrasto con la concezione liberale volta a lasciare il massimo spazio all’attività della società civile facendo dello Stato il “guardiano della «lealtà del gioco» e delle leggi di esso” (26, 6, 2302-03). La stessa concezione liberale si è affermata e domina nello Stato moderno mediante l’intervento legislativo. Dunque, solo ideologicamente è possibile contrapporre la società politica alla società civile, due distinti attributi della medesima sostanza. L’eticità dello stato, ovvero l’accordo fra norma d’azione individuale e sociale, è opera tanto “coattiva nella sfera del diritto positivo”, quanto “spontanea e libera” sul piano della società civile (6, 84: 757).

Note:

[1] Gramsci, Antonio, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di Gerratana, Valentino, Einaudi, Torino 1977, volume III, p. 1474. D’ora in avanti citeremo quest’opera fra parentesi tonde direttamente nel testo, indicando il quaderno, il paragrafo e – dopo i due punti – il numero di pagina di questa edizione.

 

08/12/2023 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Renato Caputo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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