La socialdemocrazia nasce dall’alleanza fra i sostenitori della tradizione democratica e i sostenitori della tradizione socialista. Dal punto di vista sociale i primi hanno la loro classe di riferimento nella piccola borghesia, mentre i secondi nel proletariato urbano o moderno. Sin dagli anni giovanili Marx ed Engels si sono battuti in funzione della necessità di una organizzazione autonoma dei comunisti, ovvero di chi si pone nella prospettiva del socialismo scientifico. Perciò hanno instancabilmente condotto una lotta molto intensa e serrata contro il socialismo utopista, l’anarchismo e, ancora di più, contro i sostenitori della democrazia, che ritengono forme diverse di organizzazione della piccola borghesia di sinistra. Si sono perciò battuti per porre in minoranza e, infine, per espellere dalla Prima Internazionale dei lavoratori i principali esponenti e sostenitori di tali tendenze. Sono arrivati a preferire lo scioglimento della Prima Internazionale, nel momento in cui non apparivano in grado di sconfiggere ed espellere i fautori della posizione anarchica rivoluzionaria, che aveva come massimo rappresentante Bakunin.
Ciò nonostante i due fondatori del socialismo scientifico mantengono sempre, anche da questo punto di vista, una concezione dialettica. Per quanto in linea generale sostengono lo spirito di scissione e la necessità di una organizzazione autonoma dei comunisti, allo stesso modo ritengono che in tutte quelle situazioni di grande debolezza del socialismo scientifico, sia necessario che i rivoluzionari operino come frazione all’interno di un partito socialdemocratico. Così, per esempio, dopo il massacro e la deportazione dei socialisti, a seguito della durissima repressione della Comune di Parigi, Marx ritiene necessaria la riorganizzazione delle forze rivoluzionarie all’interno di una più ampia organizzazione politica socialdemocratica. Allo stesso modo, sostengono che dove i comunisti sono così deboli da non riuscire a eleggere neppure un deputato, sia assolutamente necessario il loro costituirsi come frazione all’interno di una organizzazione socialdemocratica. Tale tattica entrista è ancora più necessaria nel caso in cui l’organizzazione socialdemocratica si dimostri capace di avere l’egemonia su settori consistenti del proletariato urbano o moderno.
Peraltro, il partito guida della Seconda Internazionale sarà il Partito Socialdemocratico Tedesco. Per quanto inizialmente Marx ed Engels non vedessero di buon occhio la fondazione di questo partito, nato dall’alleanza tattica fra la loro componente e quella socialista utopista di Lassalle, in seguito sarà proprio questo partito il primo a dotarsi di una linea marxista, al punto che a scriverne il programma sarà chiamato il più stretto collaboratore di Engels, da poco deceduto, ovvero Karl Kautsky, erede del prezioso lascito dei manoscritti ancora inediti di Marx, lavorando sui quali pubblicherà il quarto libro de Il capitale, meglio noto come Teorie sul plusvalore. È noto come l’ultimo Engels fosse divenuto così organico al Partito Socialdemocratico Tedesco, da ipotizzare, poco prima di morire, che tale organizzazione avrebbe potuto garantire il passaggio da una società capitalista a una socialista, senza la necessità di una insurrezione.
Anche il primo partito marxista russo, il primo ad avere la propria base di massa nel proletariato urbano, prenderà il nome di Partito Socialdemocratico dei Lavoratori Russi. Al suo interno si formerà la frazione rivoluzionaria bolscevica, che assumerà il nome di Partito Comunista solo dopo la Rivoluzione di Ottobre. Membro di spicco del Partito Socialdemocratico Tedesco era stata la stessa Rosa Luxemburg, fra le principali esponenti e teoriche della sinistra comunista.
D’altro canto è altresì vero che anche la forma degenerata, oggi prevalente, di socialdemocrazia si sia sviluppata all’interno del Partito Socialdemocratico Tedesco a partire dalla concezione revisionista elaborata da Bernstein. Peraltro, tale concezione si era sviluppata a partire dal problema reale di superare lo iato e il dualismo fra la pratica sempre più riformista del Partito Socialdemocratico (e della maggioranza dei partiti della Seconda Internazionale) e la loro teoria rivoluzionaria e massimalista. A questo scopo Bernstein ritiene utopistico e sostanzialmente inutile e dannoso richiamarsi a un programma massimo, quando nella prassi i partiti socialdemocratici di ispirazione marxista operavano nel senso di una riforma strutturale del modo di produzione capitalista.
Per quanto Lenin sia stato un nemico inflessibile del revisionismo e per quanto sia considerato il massimo esponente del marxismo rivoluzionario, in polemica contro ogni forma di estremismo e opportunismo di sinistra, il rivoluzionario russo si è sempre richiamato alla lezione di Marx ed Engels secondo la quale occorreva insistere sullo spirito di scissione quando vi era la possibilità di organizzare una forza rivoluzionaria in grado di essere egemone su significativi settori del proletariato moderno, mentre in tutti i casi in cui ciò non avveniva occorreva organizzarsi come frazione all’interno di quei partiti di sinistra o socialdemocratici, maggiormente rappresentativi del proletariato moderno. Così ancora oggi, nei più diversi paesi del mondo, vi sono frazioni di comunisti che, richiamandosi al marxismo e al leninismo, portano avanti una tattica entrista non solo all’interno di partiti socialdemocratici, ma persino all’interno di partiti che si autodefiniscono democratici, nel caso fossero questi ultimi ad avere capacità di egemonia all’interno del proletariato urbano.
Occorre, infine, ricordare che a praticare questa tattica entrista sono principalmente forze che si richiamano alla tradizione del comunismo di sinistra, proprio perché generalmente più fedeli alle concezioni teoriche del marxismo e del leninismo.
D’altra parte, partiti comunisti “di destra” hanno non solo portato avanti una politica sostanzialmente socialdemocratica, ma hanno anche teorizzato la necessità di adeguare anche la teoria a tale prassi. Uno dei casi più significativi è stato il Partito Comunista Italiano che, già a partire dalla direzione di Togliatti – almeno dalla svolta di Salerno – non solo ha portato avanti una tattica politica fondamentalmente socialdemocratica, ma ha anche teorizzato la necessità (a partire dalla tesi delle vie nazionali al socialismo) che in paesi con partiti comunisti forti come l’Italia si dovesse abbandonare la via rivoluzionaria e praticare la transizione al socialismo e poi al comunismo attraverso una via democratica, mediante delle riforme di struttura. Questa linea politica è stata in seguito accolta come linea valida, in generale, per tutti i partiti comunisti del mondo occidentale, a partire dal ventesimo congresso del Partito Comunista Sovietico, proprio nel momento in cui si sanciva la cesura storica con lo stalinismo.
Peraltro già in pieno stalinismo erano state sperimentate sia le politiche dei fronti popolari, con alleanze ampie, anche elettorali e di governo, fra tutte le forze di sinistra, dalle più estremiste alle più moderate come i radicali e i repubblicani. Inoltre, anche dopo la Seconda guerra mondiale, nei paesi liberati dall’Armata Rossa la politica della Terza Internazionale sosteneva la necessità di giungere all’unificazione fra partiti comunisti, socialisti e socialdemocratici. Così nelle democrazie popolari il potere sarà gestito, a partire dalla Repubblica Democratica Tedesca, da partiti socialisti unificati.
Occorre infine ricordare l’eurocomunismo, sviluppatosi all’interno dei più rilevanti partiti comunisti occidentali, che hanno portato avanti una teoria e una prassi essenzialmente rivolte a superare lo storico contrasto tra sinistra riformista e rivoluzionaria. Tanto che uno degli intellettuali marxisti italiani contemporanei, fra i più noti e influenti, come Luciano Canfora ha sostenuto la tesi che già con il partito nuovo di Togliatti vi sarebbe stata una netta cesura con i partiti comunisti rivoluzionari prima di Bordiga e poi di Gramsci. Tanto che il Pci, a differenza del PCd’I, sarebbe stato, nei fatti, a tutti gli effetti un partito socialdemocratico.
Naturalmente si potrebbero considerare, come fanno tutt’ora i comunisti più di sinistra, tutte queste tendenze, dall’ultimo Engels alla politica dei fronti popolari, dal partito nuovo di Togliatti fino all’eurocomunismo delle forme di revisionismo. Resta il dato di fatto che lo stesso marxismo rivoluzionario di Lenin ha sempre sviluppato una dialettica fra una strategia rivoluzionaria e una tattica estremamente flessibile. È noto come per Lenin, per non parlare di Gramsci, il fine (rivoluzionario) giustifica sempre i mezzi secondo la concezione realista di Machiavelli, non a caso molto apprezzato da diversi marxisti rivoluzionari. In altri termini, semplificando, Lenin era disponibile a scendere a patti anche con il diavolo, se ciò poteva essere utile alla rivoluzione. Tanto che non esita a scendere a patti con i reazionari prussiani, per poter tornare nel modo più rapido possibile in Russia, dopo la Rivoluzione di febbraio.
Inoltre, Lenin e poi – traducendo il suo pensiero nel contesto occidentale – Gramsci hanno criticato aspramente le posizioni astensioniste, considerando essenziale, in una situazione non rivoluzionaria, cercare di occupare le posizioni istituzionali dentro le stesse società imperialiste, per disporre di una tribuna da cui meglio denunciare che la democrazia borghese è funzionale a occultare la dittatura di classe del blocco sociale dominante.
Allo stesso modo, Lenin sosteneva che nel caso di un confronto-scontro fra forze socialdemocratiche, per quanto degenerate possano essere, e forze collocate su posizioni più di destra i rivoluzionari dovevano sempre auspicare il successo delle prime. Solo in questo caso, in effetti, i marxisti rivoluzionari avrebbero potuto, in modo più efficace, far emergere agli occhi del proletariato il tradimento dei riformisti e revisionisti, che da ala destra del movimento operaio, erano divenuti l’ala sinistra del fronte borghese e imperialista. Nel caso contrario, in cui la socialdemocrazia fosse sconfitta da forze più di destra, sarebbe stato molto più difficile per le forze rivoluzionarie smascherare il doppio gioco portato avanti dalle forze riformiste e revisioniste.
Anche dal punto di vista della decisiva politica delle alleanze la posizione del marxismo rivoluzionario di Lenin è in grado di dialettizzare la strategia rivoluzionaria con la tattica più duttile. Così, in ogni occasione in cui ciò può essere utile per le forze rivoluzionarie, è lecita ogni forma di alleanza, anche elettoralistica, con le forze riformiste e/o socialdemocratiche, a patto che i militanti rivoluzionari possano continuare a denunciare, dinanzi alle masse, qual’ è la reale funzione dei revisionisti.
Del resto se nel conflitto fra capitalisti e forza-lavoro divengono determinanti gli schieramenti dei gruppi sociali intermedi, è indispensabile costruire un blocco sociale fra proletariato urbano, contadino, ceti medi e piccolo-borghesi sinceramente democratici. Ciò che veramente conta a tal proposito sarà la capacità che le forze comuniste avranno di vincere la lotta per l’egemonia all’interno del blocco sociale che intende sostituirsi al blocco sociale dominante.