Il Dlgvo n 65, approvato in via definitiva dopo il passaggio in commissione, è fra quelli che meno commenti critici, e più pareri entusiastici, ha suscitato, fra gli otto contenuti nell’ampia, eccessiva, delega prevista dai commi 180 e 181 della legge 107/15.
Il decreto n.65 riguarda il riordino dei servizi 0/3 e il rapporto con la scuola dell’infanzia mediante la loro messa a sistema. La sensazione è che il testo della senatrice Francesca Puglisi, e prima di lei della Anna Maria Serafini, cogliessero una parte dei commentatori politici e sindacali impreparati ad affrontarne le questioni già lì proposte intorno ai Poli 0/6, per altro verso che costoro fossero già predisposti ideologicamente ad accettarne il contenuto. Parlo ovviamente dei renziani, del PD, di una parte dell’FLC e dei sindacati di base, dei responsabili dei settori nidi e infanzia delle Regioni Centrali e del Nord Italia e, ovviamente, dei settori cattolici impegnati nei servizi per la prima infanzia. In realtà, questo testo è quello che meglio si presta a descrivere il clima politico in cui si sta muovendo la de–forma scolastica, quello che meglio incarna le ambiguità culturali, che tradisce l’ipocrisia caratteristica del modo di vedere la riproduzione sociale, il ruolo delle donne, delle madri, dei bambini, la decadenza dell’adultità e della genitorialità in questo secondo decennio del terzo secolo. Provo a lavorare ai fianchi del decreto e accennerò appena ad alcune questioni giuridiche. Su alcune incongruità che non potranno che tradursi in impedimenti, in zeppe già destinate al conflitto e al fallimento degli intenti, la formazione e l’inquadramento del personale, le materie concorrenti fra Stato e Regioni, ad esempio, rinvio ad altro commento.
Andrò per punti, non appartenenti agli stessi piani logici, ma fra loro intrecciati.
In incipit. Come ho potuto constatare durante incontri e seminari, molti - anche fra i docenti – ignorano come si costruisce un percorso di legislazione delegata. L’art 76 della Costituzione Italiana ribadisce, attraverso la sottolineatura di due negazioni e di un avverbio rafforzativo, il carattere eccezionale della delega attribuita dall’organo legislativo a quello esecutivo per la formulazione di una legge (“l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegata al governo se non con determinazione di princìpi e criteri direttivi e soltanto per un tempo limitato e per oggetti definiti”). Il testo della legge 107/15 ne fa strame, dettando completamente le condizioni e trasferendole in commissione, come previsto dall’iter per il riesame, ben dentro la cornice culturale de La Buona Scuola. In questo, come purtroppo in altri casi questa legge, ricordo, passata attraversa il voto di fiducia, scrive il testo della delega e la commissione, a parte il voto contrario di un gruppo minoritario, lo digerisce mantenendolo pressoché inalterato: il governo scrive, i parlamentari accettano, si chiama compatibilità politica.
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Il Dlgvo 65 nasce a ridosso della diffusione del RAV-Infanzia (rapporto di autovalutazione). Pur avendo, come ho ricordato, degli antecedenti in altre proposte, oggi questo testo non si può leggere senza tener presente il format scritto e diffuso dall’INVALSI. Fra i sedicenti ricercatori che lo hanno confezionato, figlio minore del già consolidato (e purtroppo dalle scuole metabolizzato) formato per la primaria e le secondarie, c’è la responsabile di area dell’INVALSI Caterina Stringher. Voci interne all’Istituto affermano che sia fra coloro che vorrebbero introdurre prove strutturate per il passaggio 5/6 anni e che solo alcuni contrasti interni abbiano, al momento, bloccato l’iniziativa. Prove standardizzate dopo un RAV “leggero” come afferma la stessa Stringher in un’intervista concessa al webmagazine Scuola dell’Infanzia, non da compilarsi come ennesimo documento burocratico, ma da considerare un insieme di linee guida ad una – finalmente – conseguita consapevolezza valutativa. Stesso mantra, come si vede, sulle presunte competenze da indagare, misurare, quantificare, mettere in tabella, quelle dei bambini e, attraverso queste, quelle delle docenti (più spesso donne che non uomini come sappiamo, anche questo un dato storico-culturale che andrebbe in altro momento indagato a fondo). Fatto questo passaggio, si può guardare indietro, a quelli che non si riesce a definire altrimenti che “servizi ” al bambino – leggi alla madre - dalla nascita al terzo anno.
La frantumaglia – azzeccata definizione del disordine che devo a Elena Ferrante - è ben rappresentata dalla pletora di istituti pubblici, privati, a carattere misto che si sono costituiti intorno ai bisogni dell’infanzia nella particolare, scollata, schizofrenica, geopolitica del territorio italiano. Bisogni primari, nel senso delle priorità imposte dalla vita umana e dalla lunga neotenia infantile, spesso a carico esclusivo delle madri, traslati in gergo giuridico-burocratico in fabbisogni, quel che un soggetto politico amministrativo può accogliere e tradurre in un intervento di assistenza: nido, micro-nido, spazi-gioco, sezioni primavera. Un gioco in verticale per fasce di età e uno in orizzontale fra i soggetti gestori, in una pletora di pubblico, privato, diversamente convenzionato, autorizzato, controllato, lasciato a se stante nell’incuria più assoluta.
Come accennato, i campioni delle politiche per l’infanzia, le Regioni, i Comuni del Nord e del Centro-nord plaudono. Quel che esiste in questo settore, orgogliosamente potremo dire, l’orgoglio del benessere conseguito attraverso la lotta e l’intelligenza politica, la storia, con la sua caratteristica anche di casualità o di con-causalità, mostra senza dubbio molti aspetti virtuosi. Ma si tratta di ciò che vuole continuare ad esistere senza pagare pegno all’Italia più povera, nella logica del federalismo fiscale virato verso l’egoismo regionale, locale, del campanile. Il caso Emilia Romagna è emblematico: la lezione di Loris Malaguzzi, maestro, pedagogista a tutto tondo, a sfondo del progetto Reggio Children (dal 2006), esportato anche oltre oceano; l’esistenza di una messa a sistema del comparto 0/6 che vuole solo una ratifica benedicente dello Stato grazie ora al decreto 65. Reggio, ma anche Bologna, guardano lontano, il loro riferimento è diventato il documento europeo ECEC (Early Childhood Education Care, 2014). Vi si ribadisce quel che ormai risuona in ogni testo di fonte europea: il nesso fra le competenze e la governance, la necessità di portare a valorizzazione il lavoro cognitivo e i processi di insegnamento-apprendimento in “paesi governabili”, stabili, senza soprassalti, nel deserto del reale vissuto come destino. Il tutto realizzato grazie alla valutazione sistematica per collezioni di acquisizioni (sic) con possibilità di successo per chi le manifesta. A partire dalla nascita.
L’altro fronte, quello privato, si muove sulla stessa linea di quello laico su delineato, ma con radici robustissime, interrate nel concetto di sussidiarietà di ispirazione cattolica. Un termine che troviamo nell’enciclica papale De Rerum Novarum, sulle cose nuove che, muovendosi nel conflitto di classe di fine ottocento, andavano cavalcate dalla Chiesa, grazie proprio alla stabilizzazione della presenza cattolica nei servizi educativi e di istruzione primaria. Concetto destinato a trasformarsi, senza perdere di senso, nella compartecipazione, nell’incistarsi del privato nel cuore dell’intervento pubblico. Interessante leggere su questo aspetto la prolifica Suor Anna Monia Alfieri, portavoce della FIDAE (Federazione Italiana Istituti Attività Educative). Nei suoi testi – fra il giuridico e il pedagogico – prevale quello che è stato definito il “transpolitico”, l’oggettività del necessario come servizio alla singola persona-bambino, e la globalità di un disegno totalizzante, bio-politico, in cui tutti i bambini sono uguali. Altra lettura importante, dal lato dei servizi 0/3, la offre la Fondazione Cariplo, nell’indagine condotta qualche anno fa sulla diffusione e sulla qualità dei nidi in Italia (quelli gestiti da FISM, Compagnia delle Opere, Cooperative sociali, gruppi aziendali, ecc). Se lo Stato finanzia il privato, e gli affida l’organizzazione del lavoro, i costi per unità-bambino, per tempo di erogazione del servizio, diminuiscono; il privato garantisce una integrazione sociale che il pubblico – specializzato com’è in azioni sugli svantaggiati (sic) – non può offrire. La valorizzazione del capitale umano che ne conseguirebbe favorirebbe l’aumento delle fertilità e insieme della occupabilità femminili (sic). Quando si dice parlare chiaro sul ruolo dello Stato, delle famiglie, della donna.
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