La posta in gioco

Di fronte al rischio di finire sul lastrico a causa delle nuove chiusure ampi settori sociali si stanno mobilitando in tutta Italia, con esiti diversificati e situazioni differenti.


La posta in gioco

“Violenza”, “distruzione” e “vandalismo”: sono queste le parole usate dai principali mezzi di comunicazione per descrivere le manifestazioni che hanno coinvolto diverse città italiane in questi ultimi giorni e che l’opinione pubblica tende a definire in modo affrettato, fine a se stesso, senza argomentare e andando difficilmente oltre l’apparenza.

Gli scontri con le forze dell’ordine a Napoli, avvenuti intorno alla mezzanotte del primo giorno di coprifuoco (tra il 23 e il 24 ottobre 2020), orario previsto per la chiusura di bar e ristoranti a causa dell’allerta sanitaria per il Covid-19, hanno mostrato tutte le contraddizioni interne alla stessa borghesia con una manifestazione di commercianti, piccoli imprenditori, ma anche studenti e non solo. Si sono così evidenziate le difficoltà economiche che colpiscono quei settori il cui mestiere non permette di lavorare da casa o comunque non assicura un reddito garantito per andare avanti. Le manifestazioni a Napoli non si sono fermate a quella notte ma si sono protratte anche nei giorni successivi così come in altre città d’Italia; come a Roma, in piazza del Popolo, dove la situazione si presentava già in forma differente, nonostante le motivazioni sembrassero essere le stesse. Nella piazza romana, infatti, era sbandierato il tricolore italiano, vessillo che già presuppone un ben preciso tipo di schieramento. Sicuramente dietro l’accaduto c’erano i fascisti di Forza Nuova e alcuni tifosi della curva nord che hanno partecipato agli scontri; altra manifestazione organizzata dai fascisti – sempre a Roma – è stata quella del 31 ottobre a Campo De’ Fiori, culminata anch’essa in scontri; evento insolito, giacché nella storia, le forze dell’ordine e le componenti politiche più reazionarie si sono spesso trovate sul medesimo fronte contro le forze riformiste o rivoluzionarie. Anche a Catania (nella notte tra il 25 e il 26 ottobre) si sono registrati disordini dopo una protesta pacifica, dovuti allo schieramento aggressivo delle forze dell’ordine e a risse interne causate, a quanto sembra, dal lancio di bombe carta in direzione di altri manifestanti. Qui come altrove è logico supporre che i fascisti fossero presenti, ma non solo loro ovviamente. Le manifestazioni sono arrivate poi anche a Torino, Milano, Firenze e non solo e se tra i vari eventi ci sia un nesso nell’organizzazione o nella regia non è chiaro.

Del tutto diversa, invece, è stata la manifestazione di Roma del 31 ottobre partita da piazza Indipendenza, indetta e portata avanti da diverse organizzazioni della sinistra, che ha offerto quindi una diversa prospettiva; ha meno suscitato l’attenzione dell’opinione pubblica poiché non si sono né spaccate vetrine o bruciati cassonetti né ci sono stati particolari scontri con le forze dell’ordine (solo un breve momento di tensione) e non “valeva la pena” dunque metterne in luce i contenuti; anzi: meglio tacere su uno spezzone di società che protesta contro le misure del governo avendo una piattaforma rivendicativa critica e razionale a differenza della semplice esplosione d’insoddisfazione corporativa o veicolo di rivendicazioni qualunquiste ed esoteriche (dai no-mask ai negazionisti oltre che i neofascisti). 

In ogni caso non è neanche auspicabile affermare che la non-violenza sia sempre la giusta soluzione. Non bisogna limitarsi a leggere queste manifestazioni sulla base della categoria ambigua (e molto usata dall’ideologia dominante) di violenza: al contrario occorre fare appello al senso critico e cercare la giusta chiave di lettura che ci permetta di guardare ai fatti, ma all’interno di una dialettica storico-sociale. Sotto la forma ambigua dell’espressione “violenza” è accomunato, infatti, tutto ciò che contrasta lo status quo.

Per sciogliere la questione relativa all’uso della violenza in queste circostanze, non possiamo quindi evitare di chiederci: perché ci troviamo in questa situazione di protesta? La risposta più immediata – e quindi più sbagliata – che ci potremmo dare è che ci troviamo immersi in un evento storico unico, ovvero la pandemia causata dal Covid-19. La chiusura di alcuni segmenti produttivi ha portato nuova povertà e nuova precarietà a tutte quelle categorie che svolgono lavori non riciclabili online, a chi lavora in nero, agli operai e ai dipendenti di piccole attività i cui padroncini hanno spesso colto l’occasione per una ristrutturazione capitalista che ha contribuito, così, ad allargare la “forbice sociale” esistente già a prescindere dal Covid-19. Sta quindi nella crisi drammatica, sta nella società, la causa della violenza (non strumentale) a cui assistiamo in questi giorni. Come dare dunque risposta ai drammi di chi a causa della struttura economico-sociale si trova in una condizione di povertà estrema?

Esistono individui e classi che anche se smettessero di lavorare avrebbero comunque disponibilità sufficienti a mantenere nell’agio loro stessi e la relativa famiglia (e pure le generazioni successive!).

Allo stesso modo esistono individui e classi che di là dal virus vivono alla giornata, nella povertà e nel risparmio di tutto ciò che non è strettamente necessario; ciò significa che il disagio creato dal Covid-19 rende solo evidente un problema già ampiamente esistente, ovvero la mancata ridistribuzione della ricchezza, causata dal modo di produzione capitalista e dalla sua incapacità di ovviare in senso democratico o popolare alle sue crisi strutturali. 

Dunque sono giudicate violente le manifestazioni di piazza, senza considerare la violenza che si cela dietro l’apparente società del benessere in cui viviamo; cosa monta, infatti, in chi è quotidianamente messo ai margini della società se non frustrazione o rabbia, e qual è l’unico modo che la storia ha dato prova di essere efficace per essere ascoltati? Il problema delle manifestazioni non è la violenza quindi (figlia delle oppressioni) ma il fine ultimo. 

Nonostante la situazione critica comunque non sono ancora arrivate serie risposte dalla classe dirigente. Il governo, di fronte alle manifestazioni spontanee, si comporta in un modo già consolidato: un minimo di aiuti (o promesse di aiuti) volti a spaccare il fronte avversario e a mitigare la protesta. Non basta! Questo problema non può essere risolto con un contentino ma andrebbe affrontato alla radice, attraverso la costruzione di un modo di produzione diverso dall’attuale.

Per questo bisogna lavorare affinché le manifestazioni che hanno visto protagoniste alcune città d’Italia non rimangano fini a se stesse (ovvero ancorate alla semplice riapertura dei locali o al contentino dello Stato) e non vengano intercettate da esponenti della destra cui non interessa stanare il problema ma solo fare bieca propaganda. Bensì, a maggior ragione per il fatto di trovarsi in una “pandemia”, situazione in cui tutti ci possiamo rispecchiare ravvisando l’impossibilità per il modo di produzione capitalista di venirne a capo in modo equo, e in cui le classi che subiscono non sono più solo quelle che tradizionalmente consideriamo oggettivamente subalterne ma anche la bassa e media borghesia, a scendere in piazza devono essere obiettivi più ampi e che mirino a un vero cambiamento: alla distruzione di questo sistema e alla formazione di una società basata sull’uguaglianza, con la consapevolezza che questa transizione può avvenire solo col paziente lavoro dei rivoluzionari e a certe condizioni di rottura con l’esistente.

07/11/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Eleonora Piccolo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

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