Non di tradimento bisogna parlare a proposito di Tsipras ma di una sconfitta annunciata di fronte a rapporti di forza impietosi e dell'incapacità politica di gestirla. Il tradizionale trasformismo di casa nostra si è ormai proiettato su scala continentale e fa della sinistra europea un pezzo della rivoluzione passiva in Occidente. Nell'imminente “Syriza italiana” si ricostituisce la maggioranza politica e culturale bertinottiana.
di Stefano G. Azzarà*
Da Prodi a Tsipras, dall'Arcobaleno alla “Syriza italiana”
Grazie alle scelte di Tsipras ci sarebbe ancora la "possibilità di difendere i redditi più bassi e di operare una progressiva resistenza all'applicazione delle parti più regressive del Memorandum”, fino a “riproporre condizioni per un diverso sviluppo", sogna a occhi aperti Alfonso Gianni nel momento in cui il governo greco vara misure draconiane di austerità; "una tre giorni nella prima settimana di novembre, in cui definire in pubblico il profilo di una nuova soggettività unitaria – quella che noi chiamiamo la 'casa comune della sinistra e dei democratici'", annuncia Marco Revelli il giorno dopo l'esplosione di Syriza in almeno tre tronconi. Di fronte a simili prese di posizione il gioco è fin troppo semplice : si confrontino le argomentazioni dei pasdaran di Tsipras oggi con quelle degli ultimi giapponesi del PRC a sostegno di Prodi nel 2008, oppure si rilegga la campagna di “Critica Marxista” a favore della Sinistra Arcobaleno accostandone le tesi a quelle dei fautori della cosiddetta Syriza italiana, e si avrà la misura di come in sette anni non sia cambiata una virgola nel processo di apprendimento della sinistra di casa nostra. Una sinistra che sembra quasi candidarsi a gestire nuovi memorandum e che anche dopo la catastrofe che ne ha cancellato ogni effettualità è preda di un'irresistibile coazione a ripetere gli stessi errori di confusione analitica e subalternità politica.
Restìa ad ogni calcolo razionale dei rapporti di forza ma sempre pronta a issare la bandiera del Principio Speranza, proprio questa sinistra aveva salutato la vittoria di Syriza come l'avvio di una catena di rotture e l'inizio della rivoluzione antiliberista e popolare dell'Altra Europa, dalla Grecia alla Spagna e poi chissà dove. Costretta ad un brusco risveglio, rifiuta adesso di fare i conti con la realtà. E non potendo cantar vittoria troppo a lungo, respinge sdegnata ogni critica, senza però saper assumere una posizione sulle questioni strategiche – prima tra tutte l'euro e il più generale processo di integrazione europea - che sia comprensibile e che risponda alle rilevanti novità politiche intervenute.
In questa scelta di identificarsi con l'ostinazione di Tsipras a gestire in prima persona il massacro sociale ordinato dal grande capitale si è restaurata così per intero la maggioranza bertinottiana e arcobalenista 2006-2008, una maggioranza che si era divisa sul piano politico per ragioni contingenti dopo il tracollo elettorale ma che è sempre rimasta unita sul terreno culturale. Mentre l'unica novità è che alle tradizionali argomentazioni sulla riduzione del danno si aggiunge ora la misteriosa dimensione retorica europea, che fa di Renzi un nemico ma rende magicamente un leader infallibile l'amico greco per le stesse cose. Tutte le dichiarazioni sull'autonomia e l'alterità della sinistra spergiurate negli anni scorsi sono così evaporate nel giro di pochi mesi. E ogni strada diversa da quella delle compatibilità di Maastricht viene dichiarata insussistente, tanto che se l'attuale premier italiano dovesse cadere si tornerebbe probabilmente a parlare di alleanze con il PD già l'indomani (Vendola in realtà, come dichiara lui stesso in un'intervista a Repubblica, sarebbe pronto già adesso).
Il Direttorio euro-atlantico ha dimostrato così, con la forza dei fatti, che non esistono alternative praticabili su scala continentale: il proposito di un'attenuazione dell'austerità non è meno chimerico degli auspici di un nuovo ciclo keynesiano europeo, mentre ogni alternativa reale – ogni alternativa che metta in discussione l'ordine geoeconomico ma soprattutto quello geopolitico del continente, con tutto ciò che ne conseguirebbe – è letteralmente impensabile. Le ripercussioni sul terreno nazionale dell'esito deprimente di questa partita sono a questo punto scontate: mentre Renzi consolida giorno per giorno il suo blocco sociale, un'autostrada rimane aperta al partito di Grillo. E, cosa non meno preoccupante, siamo indifesi di fronte a una nuova destra che ha gioco facile nel cavalcare le contraddizioni legate alla crescente competizione al ribasso sul mercato del lavoro e che freme per trasfigurare la guerra tra poveri che già è in corso nella guerra tra razze che sta per arrivare.
Criticare Tsipras: tradimento o trasformismo?
Era scontato questo esito? Cos'è successo nei pochi mesi che vanno dal braccio di ferro del governo greco con la Trojka sino alla scelta del referendum e poi alla capitolazione conclusiva?
L'argomento demagogico, tipico della sinistra alter-europeista, per cui non sarebbe lecito criticare Tsipras parlando dal comodo della poltrona è sbagliato sul piano politico come su quello epistemologico. I primi a criticare Tsipras sono infatti anzitutto molti dei greci che avevano votato no al referendum, mentre persino una parte consistente della stessa Syriza lo ha ormai abbandonato. Soprattutto, con questo modo di ragionare non sarebbe possibile prendere posizione su nessuno dei conflitti passati e attuali dell'umanità e tutti gli storici - che formulano per lo più da seduti i loro giudizi - potrebbero cambiare mestiere.
Altra e più giusta cosa è invece ricordare ai puristi ingenui come agli sciacalli lo scarto che intercorre di norma tra la teoria e il corso del mondo. Ma in tal caso si tratta di guardare in primo luogo in casa e cioè allo sconsiderato entusiasmo irrazionale, foriero di aspettative irrealizzabili di salvezza, con il quale l'avvento di Syriza era stato presentato e accolto. E si tratta in secondo luogo di entrare nel merito delle critiche, che possono essere realistiche o campate in aria, senza delegittimare a priori ogni obiezione con l'argomento facile della lesa maestà, come fanno coloro che guardano più agli opportunismi italiani che al dramma della Grecia.
Se sino a un certo momento è stato giusto sostenere Tsipras come rappresentante legittimo della questione nazionale greca ma anche della democrazia moderna in Europa e di un conflitto di classe continentale, infatti, la scelta di applicare in prima persona il memorandum rende legittimi i sospetti di chi comincia a vedere in lui - e nel tipo di sinistra che lui incarna - un ruolo di prevalente cooptazione e irreggimentazione del conflitto. Proprio perché la Grecia non è alla vigilia della rivoluzione ma semmai alle soglie di una svolta reazionaria, sarebbe stato invece più saggio salvaguardare per quanto possibile la credibilità e l'unità delle sinistre, cosa che Tsipras ha reso impraticabile facendo l'esatto opposto di ciò che diceva il suo stesso programma.
Si è trattato di un tradimento? E' noto che a trasformare il proprio entusiasmo originario in alte grida di tradimento è di solito chi dal potere e dai suoi cascami viene escluso. Reciprocamente però, a scoprire d'un tratto la prosa del governo delle cose e le severe costrizioni di una realtà priva di alternative, fino addirittura ad innamorarsene con ardore dipingendo come anime belle e infanti tutti i critici, sono invece per lo più gli stessi che prima di incontrare il potere in qualche sua forma cantavano la poesia zuccherosa del cambiamento integrale e della palingenesi rivoluzionaria e che sprezzavano i più freddi e cauti come cassandre jettatrici. Sarebbe un ottimo esempio di apprendimento e un normale meccanismo ideologico di ricambio delle élites se almeno fossero bravi e se al giro successivo non si rimettessero i panni dei vergini cavalieri della virtù: in realtà, in entrambi questi atteggiamenti la dialettica della situazione concreta viene rimossa.
La categoria del tradimento è inservibile in politica e non si adatta a Tsipras non per ragioni di bon ton, come per lo più si intende, ovvero perché indice di reattività o invidia. Lo è perché concentrandosi sui dettagli morali impedisce di cogliere la natura oggettiva delle contraddizioni e il loro mutamento. In questo senso, notava Engels, Napoleone non “tradiva” i principi francesi della libertà, come ritenevano i teutomani: erano piuttosto la posizione e il ruolo della Francia nel concerto delle nazioni ad essere mutati, dopo che il tentativo di soffocare la repubblica era stato respinto. Si può dire reciprocamente, però, che anche la categoria della fedeltà sia fuorviante. Anche la fedeltà impedisce di cogliere il mutamento e sacrifica l'analisi alla propaganda e alla finzione di identità fissate una volta per tutte in maniera naturalistica. È infatti perfettamente possibile svolgere un ruolo progressivo finché si adempie una funzione nazionale e popolare, ma essere portati dalle circostanze oggettive, dai rapporti di forza e dalle sconfitte a farsi esecutori di una politica antinazionale di de-emancipazione e dunque regressiva.
Come la dialettica del napoleonismo non è stata casuale ma era legata ai limiti dell'universalismo rivoluzionario astratto giacobino, così la dialettica che sta travolgendo oggi Tsipras fa leva però anche sulle gravi debolezze intrinseche e sulle ingenuità di una proposta che pretendeva la botte piena a la moglie ubriaca. Una proposta in sé debole che non è riuscita a contrapporre alla colonizzazione annunciata della Grecia nessuna alternativa praticabile, nessun “piano B”, esponendosi ad un confronto impari in mancanza di qualsiasi deterrente. Il cambiamento della maggioranza parlamentare che sosteneva il governo greco, con la spaccatura di Syriza e l'ingresso delle forze collaborazioniste, è stato nelle settimane scorse la plastica rappresentazione di questa dialettica. Ed è stato la conferma delle insufficienze strutturali di una sinistra alter-europeista che alla prova dei fatti si è rivelata subalterna ai processi in corso.
Del tutto diversa è allora la categoria che dobbiamo utilizzare per comprendere cosa sta accadendo. In perfetto stile bonapartista, Tsipras ha impedito il congresso straordinario di Syriza. Ed è ora pronto a elezioni anticipate da leader di una maggioranza di unità nazionale de facto, consapevole che le paure del fronte europeista e la mobilitazione dei media lo aiuteranno probabilmente a incassare il consenso della parte del paese a favore del memorandum e a stroncare le sinistre prima che queste possano riorganizzare il fronte del No referendario. Se parlammo giustamente di golpe coordinato su scala continentale quando a Papandreou venne impedito il referendum e quando simultaneamente Berlusconi venne fatto fuori da Napolitano e Monti con l'accondiscendenza di Bersani, in questo caso si deve parlare di un vero e proprio “auto-golpe”. Un gesto con il quale il trasformismo che ha segnato per intero la storia politica italiana ottiene un grande successo di portata europea, a dimostrazione che sbaglia chi sostiene che l'Italia abbia smesso di essere un laboratorio politico d'avanguardia e un punto di riferimento per gli altri paesi: il virus trasformista del centrosinistra ha semmai contagiato anche quelle forze che sin qui si erano almeno in apparenza distinte per intransigenza autonomista.
A differenza del tradimento, il trasformismo indica, oltre alla debolezza strutturale, programmatica e ideale della sinistra, la superiore capacità egemonica del partito moderato di rinnovarsi in situazioni di emergenza cooptando quadri e leader del partito radicale; e sembra perciò che avesse ragione chi sin dall'inizio sospettava in Tsipras un'occasione di ricambio delle élites dirigenti europee in chiave di neoliberalismo più temperato. In questo senso, la tragedia della Grecia sotto protettorato e la breve parabola dello Tsipras di sinistra hanno mostrato nel corso di pochi mesi - in modo cioè che potessimo averne percezione diretta e in tempo reale - come proprio le istanze radicaleggianti e persino quelle che si presentano come "rivoluzionarie", se irriflesse e contraddittorie sul piano analitico, vengano continuamente assorbite, detournate e ri-funzionalizzate all'interno delle esigenze sistemiche nella società capitalistica dello spettacolo postmoderno. E hanno messo con ciò allo scoperto, come in laboratorio, un aspetto cruciale del meccanismo della rivoluzione passiva quando i rapporti di forza sono in fase di squilibrio crescente e il conflitto ideologico vede i ceti proprietari in espansione egemonica.
Si tratta di un conflitto entro un campo di forze nel quale nulla è prestabilito e tutto è possibile, certamente, ma solo a partire da un'oggettività che rende alcune combinazioni molto più probabili di altre. Indette con somma demagogia democraticistica, come per lo più accade ai colpi di Stato e agli auto-golpe, le prossime elezioni in Grecia – che vedranno probabilmente una vittoria relativa di Tsipras nel nome del memorandum "alternativo" e di una versione New Age del monoteismo capitalistico - saranno perciò un momento di grande interesse per lo studio dell'egemonia, dei mutamenti ideologici di massa e del trasformismo dei ceti politici e intellettuali. Un fenomeno che è divenuto di portata continentale nel contesto di un fenomeno che si può definire, riecheggiando Gramsci, di “rivoluzione passiva in Occidente”.
I compiti di una sinistra autonoma
Mentre molti rimangono fideisticamente schierati “con Tsipras” a prescindere dalle verifiche della prassi ("Io sto con Alexis Tsipras", ci informa l'eterno Alberto Asor Rosa, il Professor Golpe Democratico, dalle pagine del Manifesto), in quella parte della piccola sinistra italiana che conserva ancora un minimo di significatività politica nessuno è o è mai stato "contro Tsipras" e nessuno ha gioito per la sua sconfitta. A parte pochi matti e gli sciacalli, tutti infatti sapevamo benissimo che mai la piccola Grecia avrebbe potuto vincere la partita, perché in questa fase e con questi rapporti di forza vincere sarebbe stato impossibile. Al tempo stesso, tutti sapevamo che assieme a Tsipras anche noi avremmo subito un'ulteriore devastante sconfitta, volutamente umiliante sul piano simbolico. Va però detto che Syriza ha sommato alle difficoltà non irrilevanti presenti nella situazione oggettiva limiti soggettivi e soprattutto di cultura politica - il colonizzato ha pensato di poter convincere i colonizzatori e ha riconosciuto comunque la legittimità della logica della colonizzazione pensando di avere la forza per modificarla dall'interno – che si sono rivelati imperdonabili, con buona pace dell'europeismo di tipo irenistico delle sinistre postmarxiste o libertarie e delle facilonerie sull'affratellamento dei popoli contro la finanza rapace. E va detto che errori forse ancor più gravi sono stati accumulati nella gestione di questa sconfitta annunciata, in seguito alla quale sarebbe stato necessario un sussulto di dignità e politica e le dimissioni immediate del governo greco.
Si tratta a questo punto di fare ancora una volta di necessità virtù. E di imparare almeno questa estrema lezione, per capire che nessun coniglio dal cilindro potrà salvarci, né potrà risparmiarci anni e anni di oscuro lavoro politico di ricostruzione. E si tratta anche di ribadire, in vista dei processi di riaggregazione che stanno per precipitare anche in Italia, che non è compito della sinistra assumersi l'onere del massacro sociale per fare un piacere a chi vorrebbe a tutti i costi “governare” processi molto più forti di noi. Il nostro lavoro non consiste nel ridurre il danno – neppure Tsipras lo ha saputo fare – ma nell'organizzare il conflitto: dargli un senso e una direzione su basi programmatiche che dovranno inevitabilmente tener conto dell'esito catastrofico di questa partita. Lo sciacallaggio infantile e furfantesco dei duri e puri, o quello gongolante del Movimento 5 Stelle, fa in questo senso il paio con l'ottusità irresponsabile di coloro che a sinistra negano la realtà in ossequio alle abitudini o al principio di piacere. Si rassegnino in particolare questi ultimi: per una lunghissima fase, in Europa non ci sarà nessun margine di governo per una sinistra che non voglia essere esecutrice testamentaria di quello che dovrebbe essere il proprio blocco sociale, o del proprio “popolo” come si usa dire oggi. E non c'è Podemos - il coniglio libertario prossimo venturo - o campo dei Brics - il coniglio comunista nostalgico - che tenga.
Elementi di lunga durata persistono. La natura capitalistica del processo di aggregazione del Grande Spazio continentale determina una contraddizione tra straordinarie potenzialità produttive di ricchezza e soggettività e una realtà di ristrettezze e miserie politiche e umane, una realtà di competizione piratesca, ricatti reciproci e golpe internazionali a ripetizione del grande capitale euro-atlantico. C'è una sfasatura netta tra la maturità di una convergenza inevitabile e le forme di de-emancipazione che questa concretamente assume, smantellando i sistemi nazionali di Welfare, premendo sul costo del lavoro e soprattutto spingendo al superamento della democrazia moderna e al consolidarsi di una forma politica neobonapartista di tipo postmoderno. In questo contesto, tenere insieme universale e particolare - l'esatto contrario del fantomatico sovranismo, dell'incubo dell'autarchia, dei deliri proiettivi sulla stampa di banconote - non sarà per noi per nulla facile, come qualcuno aveva pensato. Sin troppo facile sarà invece per altri metterli in un conflitto insanabile.
Il capitale è al massimo della sua potenza egemonica proprio nella crisi e non c'è nessuna salvezza all'orizzonte, nessuna Altra Europa dietro l'angolo. La ritirata strategica, piuttosto, è appena cominciata. E per le classi subalterne l'alternativa è tra farsi massacrare in balia della frantumazione politica e sociale o resistere insieme, per quanto possibile, in maniera razionale e organizzata.
* Università di Urbino, autore di "Democrazia cercasi"