A quarant'anni di distanza dalla grande vittoria del PCI e dall'elezione di Diego Novelli a sindaco di Torino, con una forte opposizione sociale che si esprimeva anche e soprattutto fuori dai luoghi istituzionali politici e sindacali, quello a cui si assiste oggi è la polverizzazione dell'identità sociale.
di Alberto Pantaloni
Nel provare a valutare l'esito di questo primo turno di elezioni amministrative nel capoluogo piemontese non si può non partire dai freddi numeri: per ciò che concerne le comunali, l'affluenza è stata di 397.811 su 695.740 aventi diritto, pari al 57,17%. Rispetto al 2011, e al netto di un lieve calo sul totale degli aventi diritto al voto (erano 707.817 nella scorsa tornata), si registra un calo di poco meno del 10% (l'affluenza era stata del 66,53%), calo uniformemente riscontrato anche nell'affluenza nelle singole otto circoscrizioni (sia per ciò che concerne le comunali che le circoscrizionali). Questi dati portano a due importanti considerazioni da fare in via preliminare: la prima è che Torino si sta spopolando [1], tornando lentamente ma inesorabilmente, ai livelli di 60 anni fa (nel 1951 la città aveva 719.300 abitanti). Non che il calo demografico di una grande città debba essere necessariamente un male, qualora permetta un aumento della qualità della vita per tutti/e, ma invece Torino è non solo il comune più indebitato [2], ma - fra le grandi città del Nord - quella più impoverita dalla crisi. La seconda considerazione è legata al calo dell'affluenza, un dato che è certo in linea con il trend nazionale, ma sul quale andrebbero evitate al tempo stesso demonizzazioni ed esaltazioni: se, infatti, l'astensione è sempre la cartina di tornasole di quanto una popolazione (e soprattutto i gruppi sociali che la compongono) si senta rappresentata dai partiti o dalle forze politiche che concorrono alle elezioni, essa è sempre meno espressione di una scelta consapevole (per senso di appartenenza sociale o di classe, e di interessi ad essa collegati); e ciò vale in maniera particolare per Torino (ma su questo si tornerà a breve).
Ciò premesso, e non è poco, il quadro politico che ne esce è comunque fortemente discontinuo col recente passato. Il Partito Democratico ha ricevuto un sonoro schiaffone: rispetto al 2011, Fassino ha perso circa 100mila voti (da 255.242 a 160.023 voti), il PD più di 30mila (da 138.103 a 106.832 voti) e l'aggregazione dei Moderati circa 15mila (da 36.267 a 21.309 voti). Lo schieramento di Destra si è letteralmente suicidato, diviso in tre tronconi, e solo la Lega Nord ha contenuto le perdite (da 27.451 a 20.730 voti). Per la sinistra tradizionale, raccolta nel cartello di “Torino in Comune” con la candidatura a sindaco di Giorgio Airaudo, si è vicini a quella che in termodinamica si chiama la "morte termica": l'intera coalizione ha preso infatti solo 14.166 voti, circa la metà di quanto SEL, PRC e PdCI (all'epoca uniti nella Federazione della Sinistra) e Sinistra Critica (che invece questa volta non si è presentata) avevano raccolto nel 2011, pur con liste separate e alternative. A ciò vanno aggiunti i soliti risultati da prefisso telefonico del Partito Comunista di Marco Rizzo e del PCL di Ferrando. Infine, il grande successo del Movimento 5 Stelle, che ha quintuplicato le preferenze rispetto al 2011 (da 21.078 a 107.455) e della candidata sindaca Chiara Appendino.
È evidente il segnale di rottura con (e di opposizione contro) il tristemente famoso “Sistema Torino” capeggiato da Fassino e Chiamparino, fatto di clientelismi, appoggio ad un mondo cooperativistico fatto di voucher e precarietà, privatizzazioni dei servizi sociali, sfratti e negazione del diritto all'abitare, cementificazione e devastazione dell'ambiente. C'è chi addirittura ha scritto di “mutazione genetica” nel voto torinese [3]. Della promessa Torino del turismo e del terziario rimangono solo le macerie e il debito spaziale delle Olimpiadi del 2006. Una rottura che ha definitivamente travolto anche i residui della “sinistra che fu”, figlia di quell'opportunismo ed ambiguità che, nonostante gli onesti e generosi sforzi di molti compagni e compagne candidati/e, ha interesse alla classi sociali subalterne solo in vista e in funzione dell urne ed è ormai pressoché assente dalle lotte che attraversano comunque la città. Come si può gridare all'alterità rispetto a Fassino, quando (come nel caso di SEL) si sostiene il gemello Chiamparino alla Regione? Come si può pensare di ottenere il consenso delle nuove generazioni di precari e precarie, ma anche quello di buona parte della “vecchia” classe operaia sempre più cassintegrata, se si sostituisce il conflitto con le aule di tribunale e contro il Jobs Act si indicono (peraltro “a babbo morto”) solo 4 ore di sciopero?
A quarant'anni di distanza dalla grande vittoria del PCI e dall'elezione di Diego Novelli a sindaco di Torino, con una forte opposizione sociale che si esprimeva anche e soprattutto fuori dai luoghi istituzionali politici e sindacali, quello a cui si assiste oggi è la polverizzazione dell'identità sociale (non necessariamente di classe, ma neanche di comunità), se si escludono i movimenti legati al fenomeno dell'immigrazione e del diritto alla casa, con un proletariato metropolitano che ha perso qualsiasi riferimento (una volta era la fabbrica, ora?), e che non si sente rappresentato dai partiti quasi sempre in senso individuale e non sociale.
Come uscirne? È chiaro che qui la questione non è lo strumento elettorale (né tanto meno il feticcio astensionista che, se non foriero di progettualità politica rimane, appunto, un feticcio), ma la capacità di saper interpretare queste mutazioni profonde, individuare strade che sappiano unire la conflittualità sociale alla proposta politica, e acquisire strumenti e linguaggi per re-diffondere una visione generale della società e della vita non più nella classe, ma sempre più fra individui…
Per questo la discussione che ha preso corpo a Torino sul votare o meno la Appendino al ballottaggio, se emotivamente comprensibile, è politicamente inutile: perché a Torino si potrebbe anche gioire se la Appendino battesse Fassino al ballottaggio e il PD e la sua cricca di potere andassero a casa, e chissà, magari si potrebbero rimettere in moto dinamiche politiche virtuose anche nella sinistra marxista o di classe. Rimarrebbe però intatto il problema della nostra capacità di stare dentro, alimentare ed orientare le conflittualità sociali, alla luce delle trasformazioni avvenute anche sul piano antropologico oltre che economico. Insomma di dare un senso all'esistenza di un progetto politico comunista. Non risolvere questo nodo significherà continuare sempre a discutere delle iniziative prese da altri.
Note:
- http://torino.repubblica.it/cronaca/2015/01/01/news/torino_diventa_una_citt_sempre_pi_piccola-104149693/
- http://www.cgiamestre.com/articoli/924
- http://www.lastampa.it/2016/06/07/italia/speciali/elezioni/2016/ecco-come- cambia-il- voto-dei- torinesi-UoabIqGTMeVDiIMywxVnBI/pagina.html