Sulla dibattuta natura della società cinese

Il sistema economico-sociale cinese è probabilmente una forma di socialismo “di” o “con” mercato, la cui evoluzione può avere esiti diversi.


Sulla dibattuta natura della società cinese

Scopo di questo articolo non è quello di svelare la natura della società cinese che, come mettono in evidenza Rémy Herrera e Zhiming Long (La Cina è capitalista? “Marx XXI”, 2020), nonostante tante dispute accese tra “esperti”, costituisce a tutt’oggi un “enigma” (p. 32). Più modestamente tenterò di dare conto dei contenuti di questo interessante volumetto, che individua nel sistema economico-sociale cinese elementi socialisti sia pure contraddittori, facendo un rapido parallelo con quanto è sostenuto in un’opera ben più densa, Il socialismo con caratteri cinesi. Perché funziona? di Zhang Boying, curato in italiano da Andrea Catone.

Una prima cosa interessante da mettere in evidenza è che, contrariamente a quanto si sostiene con insistenza in Occidente, lo straordinario sviluppo della Cina, che ne fa il principale oppositore degli Stati Uniti, non è avvenuto quarant’anni fa con l’apertura ai mercati, ma poggia su una civiltà che ha cinquemila anni di storia; inoltre, il ritmo accelerato di crescita del Pil, che ha fatto del paese asiatico “la fabbrica del mondo”, è cominciato prima della morte di Mao (1976), ossia quando il paese presentava tratti più nettamente socialisti (2020: pp. 33-34). [1] Inoltre, esso non è stato prodotto solo dal basso costo della manodopera, come comunemente si sostiene, ma anche dal minore costo delle risorse produttive fornite al sistema economico dalle imprese statali. Pertanto, essi sono bassi perché sotto il controllo statale (p. 67), il quale ha nelle sue mani anche il sistema bancario. 

Occorre anche notare che tale avanzamento industriale ed economico è avvenuto in un contesto internazionale molto difficile, dovuto all’embargo imposto dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel 1952, e dalla successiva rottura delle relazioni di collaborazione con l’Unione sovietica (1960), senza scordare l’ormai quasi dimenticata guerra di Corea. Solo nel 1971 viene attribuito alla Cina il ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu prima ricoperto da Taiwan, Stato oggi riconosciuto solo da 17 paesi nel mondo. Dopo 15 anni di trattative, nel 2001 la Cina è stata ammessa all’Organizzazione mondiale del commercio, avendo accettato l’importazione di beni e servizi e l’avvio della transizione verso un’economia socialista di mercato.

Per comprendere il percorso intrapreso dall’ex impero celeste per assurgere al ruolo di superpotenza, non bisogna dimenticare il suo più grave problema rappresentato della questione agraria, la quale si pone in questi termini: essa deve nutrire quasi il 20% della popolazione mondiale con meno del 10% delle terre coltivabili disponibili nel nostro pianeta. Problema che è stato affrontato garantendo l’accesso alla terra per i contadini; garanzia che: “rimane, fino ad oggi, il contributo più prezioso dell’eredità rivoluzionaria” (p. 26).

Oggi la speranza di vita in Cina è di 74 anni, nel 2010 il tasso di alfabetizzazione ha raggiunto il 95%, negli ultimi trent’anni il Pil pro capite è quasi quadruplicato, la popolazione quasi raddoppiata, c’è stato un significativo sviluppo del sistema produttivo e delle infrastrutture, importanti avanzamenti si sono registrati anche nell’agricoltura. Le riforme intraprese a partire dal 1978 hanno ridisegnato il volto del paese asiatico al punto che “la natura del suo sistema non può più ormai esser definita in modo semplice, anche se ufficialmente il marxismo-leninismo [2] rimane l’ideologia di riferimento dello Stato” (pp. 28-29). 

I sostenitori del neoliberismo attribuiscono lo straordinario sviluppo della Cina grazie alla sua virata verso il capitalismo, anche se restano profondamente scandalizzati dal fatto che l’organizzazione politica e sociale del paese sta completamente nelle mani del Partito comunista, la cui egemonia non consentirebbe l’emergere della tanto amata democrazia liberale. Invece, i marxisti si trovano in grande disaccordo: chi vede nella Cina un nuovo faro socialista, chi considera il suo sistema “capitalismo di Stato”, chi critica le forti disuguaglianze che la crescita ha comportato.

A dimostrazione che l’espansione cinese non è iniziata con le già menzionate riforme e con il suo riconoscimento da parte degli Stati Uniti, avvenuto nel 1979, Herrera e Long sottolineano che “l’accumulazione del capitale fisico“ è stato coscienziosamente e continuamente pianificata dalle autorità cinesi nei sei decenni e mezzo dalla fondazione della Repubblica popolare dal 1949”. E aggiungono: “Ed è proprio questo prolungato sforzo di accumulazione – reso possibile in particolare dai grandi trasferimenti di eccedenze dalle aree rurali a quelle urbane – che spiega i sorprendenti successi del processo di industrializzazione…” (pp. 37-38).

Naturalmente questo processo di crescita non è stato lineare, ci sono stati arresti e crisi dovuti a vari fattori come il conflitto sino-sovietico, catastrofi naturali, importanti episodi di corruzione.

A parere di Herrera e Long, opinione condivisa da Zhang Boying, [3] per la classe dirigente il sistema economico cinese è fondato su un’economia mista, dominata dallo Stato e dal Pcc, anche se sulla scia di Mao che aveva rimarcato la lunghezza del processo di transizione, ritengono di trovarsi nella “fase primaria del socialismo”, che sfocerà in forma sociale più avanzata. Herrera e Long condividono con riserva la tesi del capitalismo di Stato, che “lascerebbe aperta una [però] vasta gamma di traiettorie per il futuro” (p. 48). Osservano, tuttavia, che le grandi imprese pubbliche cinesi producono ricchezza non allo scopo di massimizzare i profitti degli azionisti privati, ma a quello di incentivare gli investimenti produttivi in una visione a lungo termine dello sviluppo complessivo del paese

Per descrivere i caratteri del sistema cinese i nostri due autori osservano che le numerosissime aziende diffuse nel territorio della repubblica popolare hanno carattere familiare e artigianale; quanto invece alle grandi aziende pubbliche, come si è già detto, esse non sono sottoposte alla logica della massimizzazione del profitto, giacché non forniscono dividendi allo Stato, ma si limitano a pagare una tassa sul capitale (p. 49). Inoltre, nell’economia collettiva non statale, i lavoratori condividono la proprietà del capitale delle unità produttive, benché non intervengano direttamente nella loro gestione (Ibidem).

Insomma, ci sembra che Herrera e Long mettano giustamente in evidenza la complessità del sistema cinese, identificabile approssimativamente con il “socialismo di mercato”, i cui fondamenti essenziali, “in gran parte estranei al capitalismo”, sarebbero una “pianificazione potente e modernizzata”, una forma di “democrazia politica”, forti servizi pubblici, non subordinati alla logica del mercato, proprietà pubblica della terra e delle risorse ambientali, forme diverse di proprietà (imprese pubbliche, transnazionali, piccola proprietà privata). Accanto a questi caratteri dobbiamo menzionare anche la politica intesa ad aumentare il reddito salariale, l’orientamento verso la giustizia sociale, la preoccupazione per la questione ambientale, una politica internazionale non aggressiva e ispirata al multilateralismo. Tutti aspetti che, tuttavia, sono stati gradualmente “permeati da meccanismi di mercato capitalistici” (pp. 50-51).

Delineando questo complesso quadro, Herrera e Long osservano che, nonostante milioni di cinesi siano stati tratti fuori dalla povertà negli ultimi decenni, il paese è caratterizzato dalla presenza di forti disuguaglianze che contraddice certamente l’ideale egualitario comunista. 

Per combattere questo preoccupante fenomeno il governo si è richiamato alla “morale socialista”, in sintonia con la tradizionale etica confuciana, in nome della quale condanna i comportamenti individualistici, l’affarismo, l’arrivismo, l’ostentazione della ricchezza, che caratterizzano i numerosi miliardari cinesi (pp. 56-57).

La crisi capitalistica sistemica apertasi tra il 2007 e il 2008, che gli economisti neoclassici non riescono nemmeno a intravedere, ha avuto conseguenze negative sulle esportazioni cinesi, aggravate dalla guerra delle tariffe scatenata da Donald Trump, che pure utilizza il paese asiatico per le sue attività produttive. Rispetto al Pil la quota delle esportazioni, che comprendono anche beni di elevata tecnologia, si è ridotta al 35%, ma non ha danneggiato le imprese cinesi, le quali si sono messe a produrre per l’immenso mercato interno stimolate dall’aumento dei consumi dovuto al relativo benessere raggiunto (p. 66). 

Non è facile trarre le conclusioni dalla complessa analisi di Herrera e Long, i quali – come Zhang Boying - sottolineano che nel sistema misto cinese (pubblico/privato) non vi è coincidenza tra il potere economico e quello politico, nel senso che i capitalisti sono stati espropriati del loro potere politico ma non di quello economico. Ovviamente il dominio politico sta nelle mani del Pcc, il quale si trova a lottare per impedire che la borghesia si trasformi in classe dominante grazie all’alleanza con il grande capitale finanziario straniero. In Cina, dunque, vi sarebbero dei capitalisti ma in assenza del sistema capitalistico, la cui formazione è ostacolata dal sempre vigente ruolo centrale dello Stato controllato dal Pcc, che garantisce il benessere della popolazione sostenuto da un ceto medio in formazione. Situazione che sembra ripetere quando avveniva in passato quando la burocrazia imperiale ha tenuto sotto controllo le iniziative private e ha monopolizzato la rendita fondiaria proveniente dal lavoro dei contadini asserviti. 

In questo contesto, è latente una forte lotta di classe che potrà dar vita a esiti diversi sulla cui natura è difficile pronunciarsi. Certo potrebbe essere possibile una restaurazione del capitalismo, ma potrebbe anche accelerarsi il processo di transizione socialista innescato dal grande sviluppo industriale e produttivo, sempre però sotto la rigorosa sorveglianza dello Stato.

Condivido questa conclusione per due ragioni, indicate anche dai due autori: 1. Il processo di transizione al socialismo è lungo, arduo e complesso e il risultato delle decisioni prese non è facilmente prevedibile per la molteplicità dei fattori in gioco, compresi quelli internazionali; 2. Nonostante le banalizzazioni ideologiche un sistema comunista in senso marxiano non è mai esistito, pertanto il crollo del “socialismo reale” non ha dimostrato l’inconsistenza e l’irrealizzabilità del primo, ha messo solo in evidenza la complessità della costruzione della società socialista, come ha sempre sottolineato il Che Guevara, e deve tenere conto delle specificità storiche e culturali del contesto. Queste osservazioni ci sollecitano a riprendere in considerazione questo grandioso progetto nello scenario della crisi straordinaria che stiamo vivendo.

Proprio per questa mia adesione alla tesi del libro, pur comprendendo la necessità che la Cina dovesse puntare dal 1949 sul suo sviluppo complessivo per difendere la sua indipendenza e sovranità, non condivido “il rifiuto di prendere la lotta di classe come compito principale” affermato da Deng Xiaoping (Zhang Boying 2019: 101), ispiratore del socialismo con caratteristiche cinesi. E ciò anche perché di fatto essa è viva in Cina secondo quanto affermano Herrera e Long.

Questo rifiuto richiama il motivo filosofico dell’armonia, centrale nella cultura cinese, più volte menzionato da Zhang Boying, che costituisce un apprezzabile principio etico, alla cui piena realizzazione il confucianesimo aspira, ma che purtroppo contraddice la logica dei reali rapporti di potere.

  

Note:

[1] Si tenga presente che nemmeno l’attuale crisi mondiale, acuita dalla pandemia, determinerà la sua decrescita.

[2] Come vedremo, riletto sulla base delle antiche tradizioni culturali del paese.

[3) Nel libro citato sul socialismo cinese Zhang Boying definisce il sistema politico una dittatura democratica basata sul ruolo dominante del Pcc, che collabora con gli altri partiti democratici, presenti nell’Assemblea nazionale del popolo, secondo il sistema di cooperazione multipartitica, e prevede un apparato di autonomia etnica regionale rispettoso dell’autogoverno delle singole regioni del paese (2019: 178). Accanto alla democrazia elettorale è operante anche quella consultiva.

18/12/2020 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Alessandra Ciattini

Alessandra Ciattini insegna Antropologia culturale alla Sapienza. Ha studiato la riflessione sulla religione e ha fatto ricerca sul campo in America Latina. Ha pubblicato vari libri e articoli e fa parte dell’Associazione nazionale docenti universitari sostenitrice del ruolo pubblico e democratico dell’università.

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“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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