Il sindaco di Göteborg ha lanciato una sperimentazione per la riduzione dell’orario di lavoro di una parte dei dipendenti a 30 ore settimanali, a parità di salario. Quello che potrebbe sembrare una conquista nasconde invece, confermando l’attualità dell’analisi marxiana, l’insidia di una nuova strategia del capitale: concedere una riduzione nominale dell’orario per guadagnarne, tramite la flessibilità, in intensificazione del lavoro e quindi in maggiore produttività. Il modello Toyota ha già dimostrato di procedere in quella direzione. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro rimane comunque fondamentale per l’emancipazione della classe lavoratrice, ma perchè sia efficace deve mirare ad un’effettiva riduzione del potere di comando del capitale sul lavoro.
di Carmine Tomeo
Sul fronte “lavoro”, tra le notizie di questi giorni ce n’è una che viene dalla Svezia. Esattamente da Göteborg. Nella città svedese una parte degli impiegati pubblici comunali beneficeranno di una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Questi dipendenti comunali lavoreranno 6 ore al giorno, anziché 8:30 ore a settimana, quindi, e non 40 ore. La proposta è del vicesindaco della città, nonché esponente del Partito della Sinistra, Mats Pilhem.
In realtà si tratta, almeno per ora, di una sperimentazione. Come detto, solo una parte dei dipendenti comunali beneficerà di questa proposta; la restante parte continuerà, invece, a svolgere il proprio lavoro per 8 ore al giorno. Al termine della sperimentazione, verrà preso in considerazione, tra i parametri per verificarne l’efficacia, anche le assenze per malattia dei lavoratori. Pilhem è infatti convinto che la riduzione delle ore lavorate ridurrà anche le assenze per malattia, perché i lavoratori vedranno migliorato il proprio stato di salute. Un altro indicatore sarà quello della produttività. Il vicesindaco, infatti, è altrettanto certo che la riduzione nominale dell’orario di lavoro non inciderà sulla produttività. Se tutto andrà come nelle convinzioni di Mats Pilhem, la riduzione dell’orario di lavoro potrà essere applicata a tutto il personale del Comune. I lavoratori vedrebbero ridotto l’orario di lavoro, a parità di salario e parità di… produttività.
A questo punto, però, è necessario fare qualche considerazione aggiuntiva. Quando si propone la riduzione dell’orario di lavoro occorre chiarirne anche i presupposti. Ed affermare che con un orario ridotto la produttività del lavoro non deve calare, significa aumentare l’intensità del lavoro e la sua condensazione. Che da ciò possano trarne beneficio i lavoratori non è affatto scontato, come invece sembra essere convinzione del vicesindaco di Göteborg.
D’altronde la riduzione dell’orario di lavoro a parità di produttività non è affatto una novità. Rileggiamo Marx, quando fa notare che è possibile aumentare il lavoro assoluto (cioè il tempo di lavoro effettivamente erogato) anche senza prolungare la giornata di lavoro, con conseguente aumento della produttività, ma senza benefici per i lavoratori: «Questo si ottiene attraverso la cosiddetta condensazione del tempo di lavoro, un fenomeno grazie al quale ogni frazione di tempo viene riempita di lavoro più che in passato e cresce l'intensificazione del lavoro», attraverso la quale cresce «non solo la produttività (quindi la qualità), ma anche la quantità del lavoro». Avviene, in un certo periodo storico, che l’introduzione di nuove tecnologie e nuove organizzazioni del lavoro costringono a ridurne l’orario, perché – ci ricorda ancora Marx - si deve perdere in estensione di lavoro quello che si guadagna grazie all'intensità, perché il lavoratore non sarebbe più fisicamente in grado di lavorare a quella data intensità per quel dato numero di ore. A questo punto, fa notare Marx «emerge la necessità di ridurre la giornata lavorativa normale o completa in seguito alla maggior condensazione del lavoro, che comporta un maggior consumo di energia intellettuale, una maggior tensione nervosa e insieme una maggior tensione fisica».
Roba vecchia? No, per niente. È lo stesso vicesindaco di Göteborg a darci conferma dell’attualità delle parole del barbuto di Treviri. A sostegno della sua proposta, Pilhem porta infatti un esempio di casa: la filiale Toyota di Göteborg ha introdotto le 6 ore lavorative già nel 2002. La stessa azienda conferma che è aumentata l’efficienza dei lavoratori perché la giornata di lavoro modulata su due turni anziché uno solo richiede un minor numero di interruzioni. «Ogni volta che si dispone di una pausa, ci vogliono 10 a 15 minuti per tornare al lavoro», dicono dall’azienda, cosa che ora non avviene. Una soluzione che ricorda la riduzione delle pause in Fiat, dove la condensazione del tempo di lavoro non sta certamente portando benefici ai lavoratori, checché ne dicano Marchionne ed i suoi epigoni, siano questi ultimi al governo o in certi sindacati. Insomma, lo scambio, nell’esempio della Toyota di Göteborg, e citato come esempio virtuoso dal vicesindaco della stessa città svedese, è stato tra riduzione del tempo nominale di lavoro ed una maggiore condensazione del lavoro, e cioè un maggiore impiego degli impianti che richiede una sempre maggiore disponibilità del lavoratore alla flessibilità.
Non a caso siamo dentro la logica del toyotismo: produzione snella, just in time, con conseguente aumento della flessibilità del lavoro e della disponibilità del lavoratore a sottomettersi ai regimi della produzione. In sintesi, per un maggiore (seppure più subdolo) controllo padronale sulla produzione e per un maggiore comando del capitale sul lavoro. Se la riduzione dell’orario di lavoro è accompagnata da un aumento della flessibilità, non si sta per niente ponendo un freno alle attuali tendenze di organizzazione capitalistica del lavoro, ma semmai se ne segue il corso. Per citare un caso esplicativo, possiamo considerare l’esempio di Rifkin nel suo “La fine del lavoro”, dove viene menzionato il caso della Hewlett Packard di Grenoble, dove l’orario di lavoro venne ridotto a parità di salario. Il fatto di ricevere lo stesso stipendio con un minor numero di ore lavorate, era «considerato dal management come un premio per la disponibilità dei lavoratori ad adattarsi a una certa flessibilità d’orario». In questo modo, fa notare Rifkin, «Nello stabilimento di Grenoble, la produzione è triplicata».
Questo vuol dire che è sbagliato puntare sulla riduzione dell’orario di lavoro? Certo che no. Per tornare a Marx, fu sua la proposta di risoluzione nel I Congresso dell’Internazionale Comunista, con la quale si dichiarava che «la limitazione dell'orario di lavoro è la condizione indispensabile perché gli sforzi per emancipare i lavoratori non falliscano». Ma affinchè la riduzione dell’orario di lavoro possa costituire un reale beneficio per i lavoratori, occorre che la stessa proposta possa essere strumento di avanzamento verso l’emancipazione della classe lavoratrice. E non ci può essere emancipazione senza erodere al capitale il proprio potere di comando sul lavoro.
Foto
“Panos Apergis, rappresentante del Partito Comunista Greco, KKE, ad una manifestazione di solidarietà con i lavoratori metallurgici greci in sciopero, a Järntorget, Gothenburg”.
By Hedman (Own work) CC BY-SA 3.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0) via Wikimedia Commons