Il lato oscuro della flessibilità

Diversi studi hanno mostrato le problematiche, a partire dai rischi per la salute dei lavoratori, legati alle nuove forme di organizzazione del lavoro: un'occupazione precaria aumenta la sensazione di insicurezza e marginalità, provocando l'incremento di stress e preoccupazione, con rischi per la salute molto gravi.


Il lato oscuro della flessibilità Credits: https://www.artribune.com/arti-visive/2018/12/lavoro-cultura-italia/

Flessibilità e precariato occupano da anni un posto di rilievo fra le novità editoriali non solo nella saggistica socio-politica ma anche nella narrativa e sono in crescita film, canzoni e mostre che rappresentano forme di lavoro sempre meno atipiche, fenomeno che non può non interrogare la stessa estetica [1]. Così, a scorrere la lista delle novità editoriali degli ultimi anni, uno dei temi ricorrenti è proprio la precarietà. Campeggia sulle copertine di Einaudi, Feltrinelli, Mondadori, Isbn, Rizzoli, se si tratta di un romanzo. Di Laterza, Il Mulino, Il Saggiatore, Bollati Boringhieri se è un saggio sul mercato del lavoro [2].

Sebbene molte di queste opere sono prodotti dell’industria culturale – che oramai applica alla lettera il just in time dove la domanda condiziona il processo produttivo e, così, la richiesta di “materiali” sulla precarietà è proporzionale alla crescita dei lavori a tempo determinato – le nuove forme di organizzazione del lavoro hanno segnato l’immaginario collettivo, tanto da essere percepiti come fenomeni di costume dotati di una propria estetica, e hanno modificato il nostro modo di “sentire” noi stessi e il mondo che ci circonda, al punto da contribuire ad ampliare e riconfigurare l’orizzonte e lo statuto della percezione e della comunicazione, tanto da espandere i confini dell’estetica contemporanea [3]. In particolare, i dubbi e gli scarti di prospettiva che un'esistenza vissuta a intermittenza può causare in ogni individuo, in quale misura ridefiniscono i mutamenti della sensibilità e dell’immaginario odierni

Ciò appare evidentemente in relazione agli sviluppi dell’estetica dell’esistenza e della biopolitica, che muove dalla riflessione di Foucault [4] e Deleuze. A partire da questi ultimi nei loro diversi - ma paralleli - percorsi di pensiero trasgressivo, si è sviluppata una concezione del soggetto che si autocostituisce come nomade, plurale, flessibile e frammentario e che appare, in effetti, la più adatta a descrivere l’io di una società “liquida” [5], in cui l'incertezza del mondo del lavoro tende a estendersi all’intero ambito esistenziale.

Con il passaggio dal modello del posto fisso dell’impresa fordista del vecchio mondo capitalista – in qualche modo protettiva nei confronti del dipendente [6] – all’incerto orizzonte del precariato, si viene sostituendo un arcipelago frammentario di esperienze di vita allo sviluppo lineare della percezione del proprio vissuto attraverso la “carriera” di un lavoratore “normale” del capitalismo classico. Un tempo esisteva una routine lavorativa, che non aveva soltanto deprimenti risvolti negativi. Infondeva sicurezza, determinava fedeltà alla propria azienda e lealtà nei confronti di colleghi e superiori, garantiva una carriera prevedibile, spesso in base alla sola anzianità, consentiva progetti a lungo termine.

Al contrario l’insicurezza rappresenta a tal punto la condizione di chi non ha più il posto fisso, ma un posto flessibile, o precario, che la nostra è stata definita la “società del rischio” [7] e la soggettività che la abita presenta diversi tratti in comune con l’io disgregato della narrativa post-moderna, come ha osservato Richard Sennett [8]. La messa in scena del rischio globale dà luogo a una produzione e costruzione sociale della realtà, al nuovo modo di mettere in scena e di organizzare, di vivere e di configurare la società in riferimento al presente del futuro. Il rischio diventa così la causa e il medium della riconfigurazione della società ed è strettamente connesso alle nuove forme di classificazione, interpretazione e organizzazione della nostra vita quotidiana. Il lavoratore flessibile, privo di coscienza di classe, tende non di rado a guardare con disgusto coloro che seguono la stessa “via” per tutta la loro esistenza e non sono in grado di mettersi in gioco con le nuove regole e i nuovi rischi che esse comportano. Il rischio sta per diventare una necessità di massa. Nella moderna cultura del rischio i mancati spostamenti sono presi come indicazioni di fallimento, e la stabilità sembra quasi una morte in vita. Questo perché il nostro scenario sociale e politico è vissuto come di riflesso e interpretato secondo categorie di “vecchio“ e di “nuovo” che sembrano aver sostituito la dicotomia giusto/ingiusto, utile/dannoso su cui si dovrebbe basare l’analisi sociale. Secondo l’ideologia dominante, funzionale agli interessi delle classi dominanti, la flessibilizzazione dell’organizzazione del lavoro, aprirebbe al lavoratore l’opportunità di divenire “imprenditore di se stesso”, al di fuori degli schemi standardizzati del modello fordista. La routine del lavoro del padre (solitamente percepita con tutti i suoi risvolti di alienazione) consentiva la costruzione di una fiducia in se stessi e nella società che il precario oggi non possiede e non può neanche trasmettere ai propri figli: modelli di lealtà e dedizione sono infatti in contrasto con la superficialità dei legami con gli altri e con il posto di lavoro che caratterizza le nuove forme di socialità.

Tale condizione di precarietà, ben rappresentato dal flusso che tutto trascina e niente fa solidificare di cui parla Bauman, pur mettendo a repentaglio la possibilità di programmare il futuro, lascerebbe ai singoli la chance di modificare la propria condizione [9]. Da qui la suggestione baumaniana della vita che può essere prodotta e rappresentata come un’opera d’arte, ovvero come creazione sempre rinnovabile. Se si pensa che il mondo possa essere cambiato dalle nostre azioni e che noi si possa, a nostra volta, cambiare con quello significa che si pensa di essere artisti che sanno creare e dar forma al mondo e a sé [10]. Ecco allora l’arte della vita che come ogni arte è anche sofferenza, è dolore, è ricerca, è rinuncia, è piacere. “Ognuno di noi è artista della propria vita: che lo sappia o no (…). Essere artista significa dare forma e struttura a ciò che altrimenti sarebbe informe e indefinito. Significa manipolare le probabilità. Significa imporre un «ordine» a ciò che altrimenti sarebbe «caos»” [11] Secondo questa interpretazione ottimistica del mondo della flessibilità, si può essere felici sino a che non si perde la speranza di esserlo in futuro e ciò è possibile a condizione di avere davanti una serie di nuove occasioni e inizi in rapida successione, la prospettiva di una catena infinita di partenze [12].

Tale concezione è parte di una più generale tendenza in atto dell’ideologia dominante, che mira a una vera e propria estetizzazione della flessibilità, quale sinonimo di elasticità in opposizione alla rigidità di un’economia statale e burocratica. Così la comunicazione mainstream spaccia la flessibilità come il nuovo, come un’opportunità grazie alla quale i lavoratori svilupperebbero la propria professionalità e sarebbero in grado di adattarsi alle esigenze sempre nuove del mercato del lavoro, sfuggendo al pericolo della disoccupazione tecnologica. Tanto che la flessibilità è divenuta una parola d'ordine propugnata con ostinazione dai mass media (di regime) e dai datori, o meglio dagli sfruttatori, di lavoro che la declinano in tutte le forme. Così la flessibilità viene presentata come la parola d'ordine obbligata all'interno di un sistema economico moderno. Al punto che, secondo una ideologia sino a qualche anno fa dominante, la flessibilità del lavoro rappresenterebbe il nuovo che avanza; da strumento di razionalizzazione dei costi, è stata elevata a feticcio di una nuova età dell’oro. In tal modo, flessibilità e precariato sono entrati nell’immaginario collettivo come il destino che attenderebbe chi accede oggi al mondo del lavoro. Ciò ha prodotto indubbi vantaggi in genere per chi svolge mansioni creative e decisionali, ma si è tramutata per molti altri in precariato. 

D’altra parte alle possibilità di successo che la flessibilità avrebbe aperto fa sempre più spesso riscontro una vita piena di ansie e incertezze. Così la flessibilità ha reso incerte le prospettive future di molti lavoratori, incidendo in modo negativo sulla loro personalità e i loro affetti. Si sviluppano relazioni “a basso impegno” e tendenzialmente precarie. Queste “relazioni a tempo” concernono il possesso di oggetti, ma non solo: riguardano infatti l'odierna cultura delle relazioni, accentuando il senso di incertezza nel suo complesso. In effetti, il senso di precarietà delle relazioni è fonte di insicurezza e si ha nostalgia di sentimenti di lunga durata. Le ricadute che la flessibilità e ancora più la precarietà hanno sul vissuto non sono, dunque, sempre positive come si vorrebbe dare a intendere. 

 

Note:

[1] Per quanto riguarda film, libri e canzoni sul tema, ci limitiamo a ricordare le principali opere pionieristiche come Il vangelo secondo precario di Stefano Obino al cinema, il libro San Precario lavora per noi di Accornero Aris, la canzone di Daniele Silvestri 1000 euro al mese.

[2] Fra i saggi ci limitiamo a citare: Gallino, L., Il costo umano della flessibilità, Laterza, Bari-Roma 2005.

[3] Ben al di là della scontata esigenza che l’estetica contemporanea sia flessibile per poter dare conto delle esigenze di sperimentazione proprie dell’odierna produzione artistica.

[4] L’estetica dell’esistenza proposta da Foucault come creazione di sé attraverso l’esercizio della critica e della cura, lungi dall’essere espressione di individualismo, è in realtà azione di alto valore etico e politico, visto che chiama all’autonomia e all’autodeterminazione, a un’amicizia plurale, dinamica ed eterogenea, a un’azione politica non totalizzante, nella decisione di sperimentare nuove modalità di azione, relazioni intersoggettive diverse in grado di far cortocircuitare i luoghi della legge, della norma e dell’abitudine.

[5] Un’epoca figlia di una post-modernità che tende a ridurre i cittadini a consumatori e, smantellando ogni certezza, conduce a una vita liquida sempre più frenetica e sottoposta all'esigenza di adeguarsi alla maggioranza per evitare l'esclusione dal gruppo. È evidente il potere di fascinazione di tale messaggio che, oltre a tutto, non crea impegni perché, quando un prodotto non ci piace più, può essere tranquillamente eliminato, anzi la sua rapida sostituzione è consigliata.

[6] In realtà, con la grande con la grande fabbrica tayloristica, la riduzione di fatica materiale si trasforma in aumento di profitti per il capitale, e la riduzione di tempo lavorativo (dovuta a sostituzione di attività umana con macchine) fa sfilare la forza lavoro dequalificata ai ritmi necessariamente alterni, ovvero rigidi, delle “esigenze produttive”, imposte dalla catena di montaggio.

[7] Beck, U., Risikogesellschaft: Auf dem Weg in eine andere Moderne [1986], Suhrkamp, Frankfurt a.M., trad. It., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.

[8] Cfr. Sennett, R., The Corrosion of Character. The personal consequences of Work in the New Capitalism, Norton, New York 1998, trad. it., L'uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Feltrinelli, Milano 1999.

[9] Di ciò si dimostra convinto Zygmunt Bauman nel suo The Art of Life, Polity Press, Cambridge, trad. it., L’arte della vita, Laterza, Roma-Bari 2009.

[10] L’“arte della vita” significherebbe cose diverse per chi fa parte della vecchia o della nuova generazione, ma ognuno sarebbe un artista e nessuno potrebbe fare a meno dell'arte.

[11] Bauman, Z., op. cit., p. 172.

[12] Tipico è il caso di Claudio, protagonista di Generazione mille euro che non rinuncia a godersi il bello della vita e considera la sua condizione di precario non come un limite, ma come uno stimolo a reagire e a trovare ogni giorno nuove prospettive. storia di tutte le persone come Claudio, che oggi costituiscono una vera e propria generazione: quella dei “Milleuristi” (o “G1000”). Persone che, pur con 1.000 euro al mese – rimboccandosi le maniche –, continuerebbero a sperare in un futuro migliore e meno incerto.

25/06/2022 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.
Credits: https://www.artribune.com/arti-visive/2018/12/lavoro-cultura-italia/

Condividi

L'Autore

Renato Caputo

Pin It

La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

Antonio Gramsci

Newsletter

Iscrivi alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato sulle notizie.

Contattaci: