Primi passi di Trump in politica estera: diplomazia e democrazia negli USA

Nei primi due mesi dell’amministrazione Trump è difficile identificare una dottrina coerente di politica estera.


Primi passi di Trump in politica estera: diplomazia e democrazia negli USA

I primi due mesi seguiti al suo insediamento hanno visto il neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il suo entourage, molto attivi anche sul fronte della politica estera. Il quadro rimane tuttavia piuttosto incerto, come è stato osservato [1], e non permette ancora di identificare una linea chiara ed univoca che ispiri la politica estera della nuova amministrazione.

Da gennaio ad oggi Trump e il suo governo hanno affrontato i principali teatri e dossier di politica estera rimasti aperti ed ereditati dalla precedente amministrazione Obama, con una serie di atti e dichiarazioni spesso contraddittori tra loro. A partire dal Medio Oriente e dalla guerra in Siria, dove, nonostante le intenzioni dichiarate già in campagna elettorale di voler ridimensionare gli impegni militari degli USA nei teatri di guerra più lontani per responsabilizzare maggiormente gli alleati, Trump infine si sta orientando ad inviare ulteriori truppe e mezzi per un più determinato intervento contro le postazioni rimaste in essere dell’ISIS, giustificandolo come necessario per la lotta al terrorismo islamico internazionale.

Vi sono poi le questioni aperte con Iran e Corea del Nord [1]: nel primo caso Trump è sembrato voler adottare un approccio ostile nei confronti del regime degli ayatollah, in manifesta disapprovazione delle storiche aperture diplomatiche messe a segno dall’amministrazione Obama; nel caso della Corea del Nord invece l’atteggiamento, nonostante le provocazioni nucleari di Kim Il Sung, che hanno assunto il chiaro sapore di un sondaggio per la nuova amministrazione, il goveno USA si è mostrato piuttosto cauto. Quest’ultimo atteggiamento deve essere messo poi in relazione con le prime uscite del neo-eletto Presidente che sembravano voler cercare il confronto-scontro con la Cina, teorizzato e sostenuto in particolare da quello che è ritenuto il più influente consigliere e ideologo di Trump, Stephen Bannon. Si era partiti dalla famosa telefonata al premier di Taiwan, seguita all’insediamento alla Casa Bianca, e dalle velate minacce su un’escalation di confronto tra le due marine militari nei mari del Sud della Cina, argomento questo molto a cuore a Bannon. Contemporaneamente Trump incontrava a Washington il premier giapponese Abe, ribadendo e rinsaldando il legame speciale tra i due paesi, ed anche questa mossa veniva interpretata in chiave anti-cinese. Successivamente però le reazioni dell’amministrazione Trump alle provocazione nord-coreane sono state molto moderate e hanno ribadito il principio di un primato del negoziato diplomatico rispetto al confronto nucleare. Ciò è stato letto come un primo segnale di volontà di affrontare la Cina su un piano negoziale e non di confronto aperto, tenuto conto che Pechino ha sempre sostenuto la linea del negoziato con il regime nordcoreano. [2]

D’altronde, il confronto con la Cina avrebbe dovuto vertere anche e soprattutto in materia di politica commerciale. Anche su questo terreno i segnali dell’amministrazione Trump sono stati piuttosto oscillanti e contraddittori: da una parte le minacce di misure protezionistiche chiaramente rivolte a Cina e Messico, due principali partner commerciali, con la prima che causa quasi il 30% del disavanzo commerciale degli USA verso l’estero. In particolare l’applicazione di un’imposta per l’antidumping valutario appariva una misura diretta nei confronti della Cina.

In seguito, le dimissioni di Flynn dall’incarico di consigliere nazionale per le politiche di sicurezza, sulla scia delle polemiche per una conduzione troppo radicale e anticonvenzionale della politica estera da parte dell’entourage di Trump, e la sua sostituzione con il più moderato e pragmatico David Petraeus, sono parsi a molti osservatori il segnale di una prima svolta verso una linea meno ideologica e più pragmatica. Ciò soprattutto per non ritrovarsi del tutto isolati anche rispetto ai principali apparati militari e di sicurezza, che non sono disposti a tollerare lo strapotere della cerchia ristretta dei consiglieri più fidati del Presidente, primo fra tutti Bannon, peraltro tutti abbastanza estranei ai circoli che contano della capitale. Prova di questa svolta sarebbe, secondo il New York Times, il tentativo di distensione realizzato da Trump con la telefonata a Xi Jinping del 10 febbraio scorso per ribadire il rispetto da parte degli USA della politica di “una sola Cina”, inaugurata negli anni ’70 da Henry Kissinger durante la presidenza Nixon. [2]

Ma sono i rapporti con la Russia di Putin a tener soprattutto banco nel dibattito sulla politica estera dell’amministrazione Trump e non soltanto. Sin dalle notizie, diffuse da tutto il fronte dei media mainstream durante la campagna elettorale, sulle possibili influenze dei servizi segreti russi per orientare il risultato elettorale a favore di Trump, la nuova amministrazione è rimasta il bersaglio di forti critiche a livello interno ed internazionale, soprattutto da parte dei principali alleati europei, relativamente ai rapporti con la Russia.

La partita probabilmente è la più calda, e non soltanto per l’importanza strategica di Mosca che, come giustamente ricordano diversi commentatori non schierati con il mainstream mediatico [3] [4], non può oggettivamente rappresentare un pericolo vitale per la potenza americana o addirittura per la sua democrazia, come molti media tendono a far credere. Sin dalla nomina di Tillerson a Segretario di Stato, tutti gli osservatori e i commentatori mainstream si sono scagliati contro Trump e contro il rischio di un allineamento con Putin, dipinto come l’emblema del male, con un singolare parallelismo con quanto accadeva ai tempi della guerra fredda con l’Unione Sovietica. Ma la realtà è che la Russia di oggi non è affatto paragonabile all’URSS di allora, quando peraltro anche la potenza di quest’ultima veniva esagerata volutamente dai media. Come sempre la creazione di un nemico potente all’esterno aiuta a compattare il fronte interno. [1]

Trump, e i consiglieri che lo circondano, di varia provenienza politica ma spesso riconducibili ad ambienti della destra anti-establishment, sta mettendo in discussione questi capisaldi di decenni di politica estera USA. Questo è certamente un fatto, come lo è anche la singolare convergenza che, contro questa linea, si sta verificando di fatto tra l’establishment democratico e repubblicano e gli ambienti neo-conservatori dominanti. A fiancheggiare da dietro le quinte questo schieramento sembrerebbero esservi anche settori maggioritari dell’apparato militar-industriale, lo stesso che Trump aveva voluto, e molto probabilmente vuole ancora, ingraziarsi con le nomine di diversi generali in pensione nel suo governo. [2] [7]

Ci si domanda oggi, nel dibattito negli USA sulla formulazione della dottrina di politica estera che l’amministrazione Trump intenderà adottare, quali siano le radici di quel filo conduttore che ha attraversato ormai quasi 150 anni di politica estera USA. Secondo Conn Halinan di People’s World, settimanale online legato al Partito Comunista degli USA, la prima radice dell’ideologia che vede gli Stati Uniti come paese “eletto” che deve assumersi la guida per affermare la civiltà superiore fondata sui valori della libertà individuale e della democrazia, affonda nel periodo successivo alla guerra di secessione (1860-1865) quando la nuova nazione americana, impregnata dei valori del Nord vittorioso, e potendo contare sulla presenza di un apparato militare moderno, potente e numeroso, diede vita ad una politica di espansione verso Ovest, a spese delle popolazioni native americane, con l’effetto “collaterale” di uno dei più spietati e sistematici genocidi dell’età contemporanea. [4]

Le guerre di sterminio dei nativi americani, l’espansione verso l’ovest ed il mito della frontiera, sono quindi i fondamenti storici ed ideologici dell’imperialismo americano che poi, a fine del XIX secolo, compì un primo passaggio epocale, la guerra ispano-americana (1898), primo confronto imperialista che portò gli USA a diventare una potenza coloniale con l’occupazione di Cuba, Filippine e Porto Rico. Da quel momento inizia, nella classe dirigente USA, sostenuta dagli interessi di un capitalismo nazionale in grande espansione, l’idea della missione di civilizzazione degli USA che, in effetti, con differenti approcci e strategie, può considerarsi un filo conduttore e bipartisan della storia dell’imperialismo USA nel secolo XX e di questo primo scorcio del secolo XXI, e non è l’oggetto di questo articolo il volerla ripercorrere. La nascita della linea imperialistica nella politica estera USA determinò, a fine ‘800, il progressivo abbandono della dottrina Monroe. Formulata nel 1820, quando gli Stati Uniti erano ancora una giovane nazione che doveva piuttosto pensare a difendersi dagli imperialismi europei, inglese in primo luogo, più potenti e pericolosi, la dottrina Monroe enunciava il principio della “America agli americani”, che, tuttavia, come corollario, lasciava già il campo libero ad una politica di ingerenza degli USA nei confronti delle altre giovani e più deboli nazioni latinoamericane che nella stessa epoca si andavano formando con il disfacimento del vecchio impero coloniale spagnolo. [4]

Secondo altre analisi ed interpretazioni, assolutamente eterodosse e schierate contro il mainstream mediatico e accademico, come quella del Prof. James Petras dalle pagine di Global Research, con Trump ci troviamo di fronte ad un cambiamento di linea che potrebbe essere epocale: il riallineamento alla Russia, la messa in discussione dei ruoli e degli obiettivi della NATO, l’ostilità nei confronti dell’UE, dimostrerebbero, secondo Petras, una sincera volontà di passare da un imperialismo tradizionale di dominio globale ad una politica di orientamento più nazionalista. Questo si vede anche dalla politica commerciale che mira a ridurre gli squilibri con l’estero, tramite il protezionismo, e la volontà di far rinascere un’industria manifatturiera nazionale. [5 e 6]

A parere di Petras questa svolta è il risultato di un presidente il cui blocco politico di riferimento sarebbe composto da settori delle classi popolari e da altri settori economici del capitale nazionale interessati al protezionismo, e questo potrebbe far esplodere dei conflitti e delle contraddizioni interne tali da favorire anche il rinascere di una prospettiva di lotta di classe negli USA.

Ammesso che questa interpretazione possa avere una sua veridicità, il Prof. Petras dovrebbe tuttavia spiegare come si schiera un blocco di importanza cruciale come l’alta finanza di Wall Street, ad esempio, che in questo momento sembra sostenere apertamente il governo Trump [7], così come il blocco dell’industria del petrolio e del gas, anch’essa beneficiaria delle politiche di Trump e che tuttavia è sempre stata una delle principali forze che hanno spinto sulla linea imperialista e globali sta nella politica estera statunitense. Per non parlare della contraddizione di questa interpretazione con le mosse intraprese nei confronti della Cina, anche se con le recente attenuazioni di cui si è detto sopra.

Rimaniamo sinceramente dubbiosi inoltre circa i possibili sbocchi di questa situazione così oscillante e confusa in termini di una ripresa della lotta di classe. Prima di tutto è da ricordare che, in un paese il cui PIL è composto per l’80% da servizi e solo per il 19% dall’industria, i settori del capitale nazionale legati a quest’ultima sono molto meno in grado di influenzare le scelte di politica estera, e Trump di questo dovrà certamente tenerne conto. Inoltre, una parte molto importante dell’industria nazionale è rappresentata, ad esempio, dal settore della difesa e dell’aerospazio, che rientrano nel cosiddetto apparato militar-industriale, un blocco di potere politico-economico assolutamente orientato verso una prospettiva imperialista in politica estera. [3]

L’ingresso di Trump come outsider nella classe politica bipartisan tradizionale, farebbe quindi emergere, a giudizio di alcuni, il possibile dualismo che caratterizzerà i prossimi anni: quello tra nazionalismi e imperialismi, e quindi, sul piano economico, tra capitalismi nazionali e capitale globale o transnazionale.

Già questa constatazione dimostra che siamo comunque sempre nell’ambito di un confronto tra i soliti fratelli nemici del capitale, come li definiva Marx.

Questo confronto sta per diventare sempre più evidente negli USA, epicentro e baricentro del capitale globale, il quale tuttavia ha due anime: una transnazionale, impersonata soprattutto dalla grande finanza di Wall Street e dalle grandi corporation della new economy e della internet economy, concentrate nella costa occidentale degli Stati Uniti, con epicentro nella Silicon Valley; un’altra anima invece più nazionalista e protezionista, caratterizzata che potrebbe quindi essere propensa ad una politica estera isolazionista.

A nostro avviso è prematuro, allo stato attuale, poter trarre conclusioni certe se le tendenze evidenziate da alcuni osservatori si verificheranno realmente e se sarà questa amministrazione Trump a rendersene protagonista. Di certo, a nostro avviso, ci troviamo di fronte a dinamiche interne al capitale e come tali dobbiamo sempre osservarle da una prospettiva di classe e marxianamente storico-dialettica.

01/04/2017 | Copyleft © Tutto il materiale è liberamente riproducibile ed è richiesta soltanto la menzione della fonte.

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L'Autore

Zosimo

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La città futura

“Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.”

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