Si fa un gran parlare in questi mesi (in particolare dopo lo smacco della Brexit) del necessario ritorno agli ideali delle origini, ai padri fondatori dell'Unione Europea, al mitico Manifesto di Ventotene, per uscire dal pantano, superare gli errori (fatti tutti in buona fede, s'intende) e ripartire verso la panacea dell'unificazione continentale, superando le anacronistiche resistenze di pensionati razzisti e giovani provinciali (a seconda dei casi).
Vale quindi la pena dare un'occhiata un po' meno superficiale alle origini del progetto comunitario e indagare, al di là della retorica, quali sarebbero questi alti ideali da riscoprire.
Partiamo dal mitico Manifesto di Ventotene, scritto tra il 1941 e il 1944 nell'isola-confino da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni.
Non è un'esagerazione affermare che questo documento rappresenta un diretto attacco polemico – scritto nel pieno della 2° guerra mondiale e pubblicato nel '44 – contro i comunisti e l'ideologia marxista.
Il principale demerito degli stati nazionali, di cui auspica un superamento coattivo, è infatti per Spinelli il fatto che “hanno infatti già così profondamente pianificato le proprie rispettive economie che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe, dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa tra classi e categorie economiche. Con le maggiori probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto. Ma anche i comunisti, nonostante le loro deficienze, potrebbero avere il loro quarto d’ora, convogliare le masse stanche, deluse, assumere il potere ed adoperarlo per realizzare, come in Russia, il dispotismo burocratico su tutta la vita economica, politica e spirituale del paese.” [1]
Per Spinelli quindi il problema degli stati nazionali è che, ponendo immediatamente il popolo di fronte al tema del potere, favoriscono la presa di coscienza di classe e la tendenziale polarizzazione della società tra reazionari e rivoluzionari!
Ancora: “Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo.“ [1]
Vale la pena sottolineare di nuovo che queste parole vengono scritte nel pieno dello scontro europeo e mondiale con il nazi-fascismo, in cui i comunisti già in molti paesi stanno guidando i movimenti partigiani di resistenza.
Nella prospettiva di superamento coattivo degli stati nazionali indicata da Spinelli “possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica.” [1]
Qui anticipa quello che sarà un tema fondamentale della lotta ideologica nella Guerra Fredda: l'unità europea come grimaldello per scardinare l'unità del campo socialista.
La tesi fondamentale è infatti che “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire” ma lungo quella nuova della maggiore o minore disponibilità alla distruzione degli stati nazionali.
Non a caso dichiara che i gruppi sociali a cui si rivolge direttamente il Manifesto sono “la classe operaia e i ceti intellettuali”, quelli “più sensibili nella situazione odierna, e decisivi in quella di domani”. [1] All'interno di questo quadro vanno quindi intese le proposte sociali e gli elementi di critica al capitalismo presenti nel testo.
Per quanto riguarda il tema dell'Unione Europea come garanzia di pace, è sempre il padre fondatore Spinelli a smentire la vuota retorica di oggi e a mostrare i veri obiettivi politici e militari dell'unificazione europea, tali sin dalle origini.
Scrive infatti nel suo Diario il 12 aprile 1953: “Per quanto non si possa dire pubblicamente, il fatto è che l’Europa per nascere ha bisogno di una forte tensione russo-americana, e non della distensione, così come per consolidarsi essa avrà bisogno di una guerra contro l’Unione Sovietica, da saper fare al momento buono in cui il regime poliziesco sarà marcio[...].” [2]
L'unità europea non è quindi un qualcosa di a sé stante fatta sulla Luna, ma che va inquadrata nella realtà concreta in cui viene concepita e sorge; sin dall'inizio, in particolare, non è disgiungibile dalla strategia e dagli interessi dell'imperialismo statunitense.
Negli ultimi anni di vita, è ancora Spinelli a riconoscerlo e anzi a rivendicarlo apertamente, intervenendo al congresso del Partito Radicale nel 1985: “Ci sono essenzialmente due metodi che sono contemporaneamente in opera; c'è il tentativo […] di un'Europa che sia fatta dagli europei. E c'è contemporaneamente il tentativo di un'Europa che sia fatta dagli americani. E vorrei che non ci sdegnassimo inutilmente, e in fondo non seriamente, di questa seconda alternativa. L'unità imperiale sotto l'egida americana è certo anche assai umiliante per i nostri popoli ma è superiore al nazionalismo perché contiene una risposta ai problemi delle democrazie europee, mentre il ritorno al culto delle sovranità nazionali non è una risposta. [...]
Le due forme stanno procedendo insieme e noi le vediamo sotto i nostri occhi; e guardate, non si può abolire l'una nella misura in cui si sviluppa l'altra. [...] È attraverso queste due che l'Europa va muovendosi.
[…] Ebbene, noi abbiamo una serie di eserciti apparentemente nazionali inquadrati sotto il comando americano e nel sistema imperiale americano. E la responsabilità fondamentale della difesa dell'Europa ce l'hanno oggi gli americani. Noi formiamo truppe di ausiliari.” [3]
Più chiaro di così
Non può quindi sorprendere quanto appare nero su bianco nei documenti dell'intelligence Usa venuti alla luce grazie al ricercatore della Georgetown University Joshua Paul e ripresi dal Telegraph in un articolo del 2000: nel 1948 venne creato il Comitato Americano per l'Europa Unita (ACUE), guidato dall'ex capo dell'OSS (poi CIA) William J. Donovan e da Allen Dulles, poi capo della Cia. [4]
Il Comitato, attraverso finanziamenti delle fondazioni Rockefeller e Ford, aveva il compito di sostenere e indirizzare la campagna per l'integrazione politica europea in chiave anti-comunista, in particolare finanziando il Movimento Europeo e la Campagna Giovanile Europea. [4]
Secondo questi documenti desecretati, il Comitato disponeva a metà degli anni '50 di circa 1 milione di dollari all'anno; nel 1958, per esempio, fornì il 53.5 per cento dei fondi del Movimento.
Fu ad esempio un memorandum del 26 luglio 1950 firmato dal generale Donovan a dare istruzioni per mettere in atto una campagna per promuovere la creazione del Parlamento europeo. [5]
Non si tratta quindi di complottismo, ma semplicemente della dimostrazione di una lucida e dichiarata strategia politica dell'imperialismo statunitense, accettata da gran parte delle classi dirigenti europee, che ha accompagnato sin dalle origini il mitico progetto comunitario.
Come scrive Brzezinski, “L’ Europa unita doveva fungere da strumento di colonizzazione Usa e testa di ponte verso il continente asiatico.” [6] Per caso vi suona familiare?
È del resto ancora Spinelli, con encomiabile schiettezza, a darne conferma nel suo Diario descrivendo il suo viaggio negli Usa del 1955: “Assai più interessante è stato l’incontro con Richard Bissell – Central Intelligence Agency. Ha mostrato subito un assai vivo interesse per i miei piani, ed ha promesso di intervenire presso Donovan e presso la Ford Foundation. [...] Ho visitato Donovan. Era presente anche Hovey, Executive Director dell’American Committee on United Europe [...] entrambi entusiasti del mio piano. Donovan si è impegnato formalmente a cercar fondi. Ha approvato la mia decisione di far in modo che sia io a dirigere l’operazione. […] Praticamente ho ottenuto la garanzia dell’appoggio dell’USIA, della Ford Foundation e dell’ACUE. Più di questo non potevo sperare.” [2]
È cambiato molto dai nobili ideali delle origini a cui molta sinistra europea continua a richiamarsi?
Il fatto che negli anni '70 e '80 un simile personaggio sia poi stato candidato come indipendente dal Pci al Parlamento italiano ed europeo dice molto del grado di degenerazione a cui purtroppo si era già giunti.
Se si sposta l'analisi al versante economico-sociale, la questione non cambia.
Tra i padri nobili dell'UE figura anche Von Hayek, fautore del liberismo senza freni, a suo tempo teorico di riferimento di Reagan, Thatcher e del dittatore cileno Pinochet.
Nel 1939 von Hayek delinea profeticamente come obiettivo quello di una “una federazione interstatale che faccia cessare tutti gli impedimenti come quelli al movimento degli uomini, beni e capitali tra Stati e che renda possibile la creazione di leggi comuni, un sistema monetario uniforme e un comune controllo delle comunicazioni.” [7]
Ancora von Hayek anticipa quello che sarà un leit motiv dell'UE, nel corso di una visita in Cile nel 1981, in piena dittatura: “È necessario fermare l'inflazione completamente, evitando controlli dei prezzi o privilegi sindacali. Io non sono contro i sindacati, ma all'idea che potrebbero godere di privilegi che il resto dei cittadini non ha, perché possono distruggere l'economia”. [8]
Tutto ciò che frena la libertà – leggi arbitrio – del capitale deve essere spazzato via. Con ogni mezzo.
Si riecheggia qui quanto affermato nel Manifesto di Ventotene – nella parte probabilmente stesa da Ernesto Rossi – contro la burocrazia delle amministrazioni pubbliche e l'effetto negativo sul mercato di un eccessivo potere dei sindacati. [1]
E, se possibile, ciò deve essere fatto all'insaputa dei popoli che dovranno subire queste decisioni. Basti leggere le invettive contro la democrazia e in favore della “aristocrazia dello spirito” [9] pronunciate da Kalergi (fondatore nel 1922 dell'Unione Pan-Europea come“unica via per contrastare un eventuale egemonia mondiale della Russia” [10]e primo vincitore nel 1950 del premio “Carlo Magno”), altro grande padre nobile dell'UE, per vedere i prodromi del disprezzo totale degli attuali burocrati europei per qualunque forma di fastidioso controllo democratico.
Da Monti e le decisioni economiche da porsi “al riparo dal processo elettorale” [11], passando per Jean Monnet (“[ogni passo successivo deve essere] mascherato da uno scopo economico, ma che porterà alla fine e irreversibilmente alla federazione” [12]) fino a Prodi (“Ci siamo illusi che la gente si rassegnasse a un welfare smontato a piccole dosi” [13]) non si può dire che l'elite tecnocratica e burocratica europea non abbia preso lezioni da un altro dei suoi nobili padri fondatori!
Come giustamente si legge nell'introduzione al saggio francese “L'Ideologia Europea”, “non crediamo che la liquidazione della democrazia sia un errore emendabile della «costruzione» europea; noi sosteniamo che essa sia il fondamento e la finalità stessa del suo progetto.” [14]
Si potrebbe andare avanti per molte pagine, ma il quadro mi pare sia già piuttosto chiaro.
Quello che va contrastato politicamente sono i continui cedimenti a questa ideologia e a questa retorica compiuti anche dalla sinistra italiana ed europea in questi anni.
Dalla partecipazione del Prc al governo Prodi che traghettò l'Italia nell'euro a suon di svendite e manovre antipopolari, dal voto favorevole del Pdci alla Costituzione Europea nel 2005 (argomentato in Parlamento da Severino Galante chiedendo più Europa e lamentandosi del fatto che il tema della politica economica venga lasciata agli Stati nazionali), per arrivare alla lista L'Altra Europa con Tsipras del 2014, completamente interna all'europeismo (che ha visto non a caso Barbara Spinelli, figlia di Altiero, tra gli eletti), fino – ancora qualche giorno fa – al segretario del neonato Pci Mauro Alboresi che, intervenendo al congresso del Prc, si è ancora richiamato agli ideali di Ventotene e criticato “questa Unione Europea”, lasciando ancora intendere un cedimento ideologico all'idea di una riformabilità strutturalmente impossibile dei trattati europei. [15]
Anche il Movimento 5 Stelle moltiplica le rassicurazioni sul suo europeismo di fondo, richiamandosi di frequente ai “valori fondativi” e dichiarando che “noi non siamo mai stati una forza che voleva uscire dall'Unione europea pur criticandola molto duramente”. [16]
Eppure, agli inizi del processo comunitario (e ancora nel 1992, con il voto contrario del Prc al Trattato di Maastricht), i comunisti ne avevano lucidamente individuato i pericoli e lo avevano contrastato senza tanti giri di parole.
Anche un socialista come Lelio Basso già nel 1949, alla creazione del Consiglio Europeo, si scagliava in Parlamento contro “queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale”: “Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista, idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l’imperialismo, il grande capitale americano esercita sull’Europa e la politica del blocco occidentale in funzione antisovietica.
Tradurre questa politica nel linguaggio del federalismo, esprimere cioè questa realtà di sopraffazione e di soperchieria in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla stessa parte.” [17]
E lucidamente denunciava le radici imperialiste e di guerra di questo progetto: “non hanno per scopo di creare una terza forza, tra Usa e Urss, ma semplicemente attestano il suo bisogno di dominare i mercati dell’Europa, di avere un grande spazio a sua disposizione, per poter governare meglio e più economicamente il dominion europeo. Hitler faceva la stessa politica e la chiamava Gleichschaltung.” [17]
E ancora più lucidamente rispondeva all'accusa di nazionalismo rivolta a chi si opponeva all'integrazione europea (vi ricorda qualcosa?): “Così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo (…). L’internazionalismo proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano è tutt’altra cosa: è rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.
Le stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza e sfacciataggine proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per servire gli interessi del capitalismo americano. [...]
Anche la propaganda hitleriana era basata come quella americana di oggi, su questo stesso dualismo. Il popolo tedesco parlava di sè come di un popolo eletto, popolo destinato a dominare il mondo; quando si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo.” [17]
Contro l'europeismo quindi in quanto incompatibile con l'internazionalismo.
Per questo come Fronte Popolare crediamo che non si debba avere paura di porre la questione dell'uscita unilaterale dell'Italia dalle istituzioni dell'imperialismo (Ue, euro, Nato). Da questo punto di vista, la parola d'ordine dell'ItalExitfatta propria dalla piattaforma sociale Eurostop ci pare un fattore positivo da coltivare. [18]
Più che un utile artificio retorico, il continuo richiamo a Ventotene – anche a sinistra - come promessa non realizzata di un'Europa dei popoli, rischia quindi di essere in realtà un continuo cedimento all'ideologia dominante, con l'effetto di legittimare tra i compagni le mai morte illusioni di un cambiamento interno e indolore delle istituzioni europee.
È la traccia, spiace dirlo, dell'opportunismo politico.
Non è più il tempo dei balbettamenti e delle indecisioni.
È tempo di scegliere chiaramente da che parte stare e di praticare questa scelta nelle lotte di tutti i giorni.
* Responsabile relazioni internazionali Fronte Popolare
Note:
[1] Manifesto di Ventotene (Wikisource)
[2] Altiero Spinelli, Diario Europeo (1948-1969), Il Mulino, 1989.
[3] Altiero Spinelli, “L'Aria fritta del nazionalismo” da www.emmabonino.it (citato dal blog “Orizzonte 48”, http://orizzonte48.blogspot.it).
[4] “Euro-federalists financed by US spy chiefs”, Telegraph, 19/9/2000.
[5] The Cultural Cold War in Western Europe, 1945-1960, Roosevelt Study Center.
[6] Brzezinski, “La grande scacchiera”, Longenesi, 1997.
[7] Von Hayek, 1939, nel saggio “Individualismo e ordine economico”. (da www.thefederalist.eu, citato dal blog “Orizzonte 48”, http://orizzonte48.blogspot.it).
[8] Intervista di Lucia Santa Cruz su “El Mercurio”, 1981 (citata dal blog “Orizzonte 48”, http://orizzonte48.blogspot.it).
[9] Kalergi, “Praktischer Idealismus”
[10] Dorril, Stephen, “MI6: Inside the Covert World of Her Majesty's Secret Intelligence Service”, 2000 (citato da Wikipedia).
[11] http://goofynomics.blogspot.it/2012/09/in-viaggio-con-goofy-parte-vii-beato-te.html
[12] Citato dal blog “Orizzonte 48” (http://orizzonte48.blogspot.it).
[13] R.Prodi, intervista a “la Repubblica”, 22 giugno 2016.
[14] “Crisi, macelleria sociale e «Ideologia Europea»” su www.frontepopolare.net
[16] Grillini e Vaticano la "prima" di Di Maio "La Chiesa è casa mia", la Repubblica, 27 luglio 2016.
[17] Camera dei Deputati, seduta del 13 luglio 1949 (http://www.camera.it/_dati/leg01/lavori/stenografici/sed0275/sed0275.pdf)
[18] https://frontepopolare.net/2016/05/18/fp-al-convegno-italexit-della-piattaforma-sociale-eurostop-napoli-21-maggio-2016/